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giovedì 31 agosto 2023

Il regime Meloni: democratura, familismo amorale e conflitti d’interesse. - Salvatore Palidda

 

Nella sua occupazione di tutti i posti di potere in tutti i campi, il partito della signora Meloni e la coalizione delle destre che governa mostrano sempre più i loro tratti salienti: democratura (miscuglio di democrazia apparente e autoritarismo violento), familismo amorale (i suoi famigliari al potere) e conflitti d’interesse senza limiti, con solo il 26% dei voti ottenuti.

La parola democratura risale alla Spagna degli anni 1929-30, ma è a Edoardo Galeano che si deve il suo impiego a proposito della coesistenza di democrazia e autoritarismo o di democrazia e dittatura, come Predrag Matvejevic descriveva i regimi apparentemente costituzionali ma di fatto oligarchici. In realtà questa democratura non è che il fascismo “democratico”, un regime generato dal processo di eterogenesi della pseudo democrazia, processo che dura da decenni e che è sempre più peggiorato a seguito della controrivoluzione del capitalismo liberista che comincia negli anni 1970. Un processo che non ha smesso di erodere le conquiste economiche, sociali e civiche degli anni 1968 e 1970 grazie anche alla conversione liberista della sinistra tradizionale. Così è possibile governare con una piccola minoranza di voti degli aventi diritto di voto e da qui la pretesa di «democrazia» e quindi di costituzionalità che permette a questi governanti di fare e sfare quello che vogliono, senza alcuna vergogna. Ne conseguono misure fra le più liberticide (divieto di riunione, criminalizzazione della solidarietà ecc.). In Italia non si ha bisogno del 49.3 usato dal governo Macron per imporre la sua famigerata riforma delle pensioni odiata dal 75% dei francesi. Il governo procede a colpi di decreti e può contare su una larga maggioranza del Parlamento e una quasi inesistente opposizione, compresi i sindacati (che invece in Francia, insieme alle sinistre unite, sono stati uniti contro il regime Macron). L’accanimento particolare del regime Meloni ha preso di mira i poveri sistematicamente stigmatizzati e odiati dalle destre (ma anche da una parte dell’ex-sinistra: il reddito di cittadinanza è stato abolito nonostante la stessa Comunità europea lo difenda e le statistiche ufficiali mostrino un netto aumento della povertà, dei senza casa, della gente che non può curarsi). In Italia il potere d’acquisto si è svalutato più che in tutti gli altri paesi europei e la rivalutazione dei salari rispetto all’inflazione è stata abolita. I salari italiani sono tra i più bassi d’Europa e sono persino diminuiti del 12% rispetto al 2008 (lo attesta il Global Wage Report 2022-2023 de l’ILO).

Il ministro della “sovranità alimentare” (SIC !), cognato della signora Meloni, si è permesso anche di dichiarare che l’alimentazione dei poveri è migliore di quella dei ricchi, mentre altri politicanti non hanno smesso di dire che il reddito di cittadinanza non farebbe che mantenere degli oziosi sui divani di casa loro, davanti alla tv o ai supermercati a fare spesa coi soldi dello Stato. Le destre hanno così scatenato una campagna contro la popolazione bollata come parassita che non vorrebbe lavorare… e questo in un paese in cui si contano circa otto milioni di lavoratori che oscillano tra precariato e impieghi al nero e persino neo-schiavitù e un numero crescente di incidenti e morti sul lavoro. A questo s’accompagna l’accanimento contro i migranti (il far morire e lasciar morire) che conduce la signora Meloni a fianco della signora Ursula van der Leyen e del presidente della Tunisia Kaïs Saïed a un accordo da crimine contro l’umanità.
Puntando suoi più fedeli – anche se palesemente incolti e ignoranti l’ABC delle regole di governo – la signora Meloni si è circondata di famigliari e amici: suo cognato che non smette di suscitare il ridicolo e lo scandalo per la sua indigenza intellettuale e il suo disinvolto linguaggio fascistizzante, la sorella nominata capa del suo partito, suo marito piazzato nel primo canale della tv pubblica, i suoi amici più fidati nei ministeri o ai posti istituzionali. Peggio che all’epoca di Mussolini, la signora Meloni ha dovuto far ricorso a un familismo amorale sfacciato e a dei conflitti d’interesse a non finire poiché ha paura di non farcela e non può contare su un personale politico sperimentato e qualificato (ma questo è diventato abituale sin dal 1994 e anche con governi di centro-sinistra). Nella sua epopea sta mantenendo la promessa della «pace fiscale» fortemente voluta anche da suoi alleati Salvini e i discepoli di Berlusconi. Si è così approdati al trionfo della tolleranza dell’evasione fiscale, così come del lavoro nero e di ogni sorta di raggiro delle leggi che avrebbero dovuto proteggere i lavoratori e lo Stato di diritto democratico. E questo in un paese in cui la frode fiscale ha raggiunto il 35% del PIL, cioè 530 miliardi (stima Eurispes ignorata anche dai sindacati). Non è casuale che il governo Meloni comprenda una ministra del turismo conosciuta per le sue discoteche e locali di divertimento e infine sotto processo per sistematica frode fiscale e di contributi sociali.

Sarebbe troppo lungo elencare in dettaglio gli scandali provocati dai membri di questo governo e del su entourage e dai suoi zelanti sostenitori. Ma nulla di tutto ciò sembra scalfire la tenuta del regime Meloni a cui nel frattempo quasi tutti i media continuano ad accreditare largo consenso. In tale contesto non mancano i colpi mediatici inimmaginabili qualche anno fa, per esempio un generale che pubblica un libro zeppo di tutta la panoplia di ignominie contro LGBT, poveri, militanti di sinistra, semplici democratici e propositi fascisti. Un libro che sembra essere diventato il best-seller del popolo di destra e che anche ministri e personalità di questa maggioranza dichiarano di apprezzare sebbene il ministro della difesa sia stato costretto a dimissionare tale generale senza però espellerlo dall’Esercito.
In realtà la garanzia della durata del regime Meloni è assicurata dal suo totale allineamento alla NATO, agli Stati-Uniti e all’Europa, a fianco dell’Ucraina. E in tale allineamento il governo Meloni ha anche la pretesa di giocare l’intesa con gli Stati Uniti contro la Francia nella scena del Niger e dell’Africa sub-sahariana (un gioco che ha ben poco speranze di successo visti i mezzi, le capacità e gli spazi di manovra dell’Italia). Nel frattempo, la competizione tra Salvini e Meloni sembra farsi sempre più acuta anche in vista delle prossime elezioni europee. Meloni pensa di continuare ad arraffare i voti del partito di Berlusconi e anche della Lega che ormai si attesta con un profilo sfacciatamente fascista, razzista e sessista, profilo di cui Fratelli d’Italia pretendeva il monopolio. Nulla esclude dei passi falsi degli uni e degli altri; ma, purtroppo, di fatto non c’è opposizione che possa impensierirli. In Italia non c’è più sinistra, nulla di comparabile all’unione delle sinistre in Francia.

https://www.micromega.net/il-regime-meloni-democratura-familismo-amorale-e-conflitti-dinteresse/

domenica 24 gennaio 2021

MERCOLEDI' GRASSO? - Rino Ingarozza


Ho già detto che, secondo me, tutta la strategia per far cadere Conte, si è decisa a Rebibbia subito prima di Natale, quando c'è stata la processione per andare a trovare il pregiudicato Verdini.

Ci sono tanti interessi in gioco. Tantissimi.
Ci sono le cariche pubbliche da rinnovare, processi da prolungare, gestione del recovery, elezione del Presidente della Repubblica, giornali che perderanno tutto il finanziamento pubblico e quindi si deve intervenire. Confindustria che chiede la sua abbondante fetta.
I Benetton, gli Agnelli, gli Angelucci da accontentare.
Ritornare al vecchio. La spartizione delle risorse. Un po' a me e un po' a te. Le mazzette (ma immaginate che potere si ha con 220 miliardi di euro in mano?)
Cantieri a vita persa di opere inutili e che non vedranno mai la fine. Un contentino milionario all'amico (dietro onerosa ricompensa), uno all'amico dell'amico (quanto devo?)
Venghino signori, venghino ..fatevi avanti ma non spingete, ce n'è per tutti.
Questa è la prospettiva. E volete che ci rinuncino? Sai quante telefonate in corso? Sai quante pressioni? Sai quante promesse?
Dicono che le pressioni le stia facendo anche Conte. Loro, lo dicono. Ma, onestamente, voi ce lo vedete Conte, che sa che ha il mitra puntato (in attesa di un errore che da due anni e mezzo non ha ancora commesso), prendere il telefono e chiamare un Senatore di Italia viva (grazie all'ossigeno) o di Forza Noi (dell'Italia chi se ne frega?) O della Lega ladrona? Possibile che ancora non hanno capito che il Presidente Conte ha un'integrità morale come nessuno? Chi ha dimostrato una certa abilità in queste cose, si sa benissimo da che parte stia.
E hanno una fretta tremenda di fare cadere il Governo. Hanno una fretta tremenda di relegare all'angolo quei rompiscatole dei 5 stelle. Quei grillini scassacaxxi. Hanno fretta per modificare e scrivere ex novo il recovery plan ma anche perché e, non c'è ancora nessuno che ne abbia parlato, se non buttano giù il Governo adesso, c'è il rischio di arrivare al semestre bianco. Per i pochi che non lo sanno, il semestre bianco è l'ultimo periodo (sei mesi, appunto) della Presidenza della Repubblica. Semestre bianco che avverrà da metà Luglio sino all'elezione del nuovo Presidente della Repubblica.
Perché è importante non arrivare al semestre bianco? Semplice, perché durante questo periodo, il Capo dello
Stato non può sciogliere le camere e quindi non si può andare al voto.
È più chiaro, adesso, il loro disegno?
Cosa accadrà mercoledì....... boh e chi lo sa.
Mr. Bean 2 (o, se preferite, rospo Bean) ha già detto che voterà no alla relazione sulla giustizia di Bonafede. E voterà no, senza averla letta. Pensate che paura deve avere, per sé e per i suoi genitori. Ne ha talmente paura che, pur di non farla passare, rischia di mandare l'Italia alle elezioni e, quindi, decretare la propria morte politica. Ma tanto, evidentemente, qualcosa gli avranno offerto, all'Hotel Rebibbia.
Credo che le sorti del governo dipendano dai Senatori di Italia viva (grazie all'ossigeno). Cosa faranno?
Certamente decideranno autonomamente. Mr. Bean 2 e' riuscito nell'intento di indisporre anche molti di loro. E la Bellanova non si spiega l'odio verso di lui.
Il loro voto dipenderà più da eventuali "offerte riparatrici" esterne, che dagli ordini di scuderia.
Vedremo.
Come ho già detto altre volte, mal che vada si va ad elezioni anticipate. Non muore mica nessuno ...almeno fisicamente. Discorso diverso per il recovery .... .speriamo che l'Europa non perda la pazienza.
E non è detto che vincano loro.
Certo, loro hanno una bella batteria di "fregnacciari" di "raccontaballe" di
"Imboccapopolo", tra giornali e TV.
Una sfilza di giornali e televisioni che, come ho già avuto modo di scrivere, andrebbero denunciati per vilipendio all'intelligenza umana.
Tanto che hanno fatto credere ai lombardi (ovvio, non a tutti) che, il fatto di essere stati in zona rossa, è colpa del Governo e non di Fontana che ha fornito i dati che prevedevano la chiusura. Salvo poi dire "ops mi sono sbagliato, i dati non erano giusti". Però voi prendetevela con Conte e con Speranza. E volete che Selfieman non diceva la sua? ("Il Governo deve pagare i danni"). Pur sapendo di chi fosse la colpa (perché se non lo sa è proprio un deficiente). Ma poi con quella frase è come se si stesse rivolgendo ad un paese straniero. Un paese straniero a cui chiede di risarcire la Padania. C'è poco da fare, l'indole è quella.
Il problema è che i lombardi ci hanno creduto. Praticamente è come se un paziente avesse detto al proprio medico di avere febbre a 42 e il medico gli avesse "ordinato" di ricoverarsi, scoprire che il paziente non ha saputo leggere il termometro e dare la colpa di ciò al medico, che gli ha detto di ricoverarsi. Novelli giuristi.
Credono a tutto, c'è poco da fare. D'altra parte non hanno chiesto conto a Fontana nemmeno della commissione dei camici al cognato e alla moglie .......colpa di Conte e della Raggi, ovviamente.
Ce l'ha detto Salvini.
Credo che, le eventuali elezioni, saranno una sorta di censimento politico ma soprattutto morale.
Capiremo quale ltalia gli italiani vorranno. L'Italia del bene comune, della solidarietà, dell'accoglienza, e del rispetto reciproco. L'Italia della convivenza civile e dell'amicizia con gli altri paesi democratici del mondo.
L'Italia dell'uguaglianza. Oppure l'Italia della Confindustria, delle banche, dei Benetton. L'Italia delle diseguaglianze. L'Italia dell'insofferenza, dell'odio per il diverso. L'Italia dell'isolamento mondiale. L'Italia come l'Ungheria
di Orban o l'America di Trump. L'Italia dei ricchi e dell'isolamento dei poveri.
L'Italia di Conte o dell'accoppiata Salvini-Meloni.
Certo, sarà singolare spiegare ai posteri il perché cadde il Governo Conte.
--Cadde sulla giustizia.
--Perché, voleva scarcerare i criminali?
--No, voleva che i criminali finissero in carcere.

sabato 5 dicembre 2020

Marcucci contro la stretta sugli hotel: è nel cda di 2 società che li gestiscono. - Stefano Vergine

 

Il re della protesta. Il dem ha criticato le chiusure serali a dicembre e chiesto deroghe “per gli alberghi il 31”.

La critica principale contro il nuovo Dpcm è arrivata dall’uomo del Pd più fedele a Italia Viva: Andrea Marcucci, ex renziano e attuale capogruppo dei dem al Senato. “Mi rivolgo al premier Conte: cambi le norme sbagliate inserite nel decreto sulla mobilità comunale del 25, 26 e 1 gennaio. Lo chiedono le Regioni e 25 miei colleghi senatori del Pd”, ha detto due giorni fa il senatore toscano. Nelle proposte fatte al governo dalla fronda interna che guida, Marcucci ha poi voluto specificare quale aspetto in particolare vorrebbe modificare: le chiusure dei ristoranti il 31 dicembre. “Per ora restano alle 18, noi abbiamo chiesto di verificare per gli alberghi”. La richiesta non verrà ricordata per l’assenza di interessi personali.

Una delle misure contenute dal nuovo Dpcm prevede che i ristoranti all’interno degli alberghi non possano servire il cenone di Capodanno al tavolo. Dovranno chiudere al pubblico esterno, sarà consentito solo il servizio in camera. Non proprio la notizia che si aspettavano a Barga, borgo lucchese a metà strada tra la città e la Garfagnana, da sempre terra dei Marcucci. Tra i vari settori economici in cui è attiva la famiglia del senatore dem c’è infatti quello dell’ospitalità, con hotel e ristoranti, e il divieto di offrire il cenone a clienti esterni non potrà che peggiorare i conti delle società di famiglia. L’affare principale dei Marcucci è di gran lunga la sanità: Kedrion, oltre 2mila dipendenti, multinazionale dei vaccini e prodotti medicinali derivati da plasma umano. Ma la famiglia del senatore ha sempre avuto anche il pallino dell’ospitalità, hotel e ristoranti. Due anni fa ha siglato una partnership con il Gruppo Marriott, multinazionale americana con strutture di lusso in mezzo mondo. Ne è nata una società per gestire insieme il Renaissance Tuscany Il, un mega resort con 600 ettari di terreno nel cuore della Garfagnana. La società della partnership si chiama “Shaner Ciocco Srl”: i Marcucci hanno la minoranza del capitale (40%) e il capogruppo del Pd al Senato siede nel consiglio d’amministrazione. L’ultimo bilancio disponibile, quello del 2019, dice che le cose vanno piuttosto bene. La società ha fatturato 9 milioni di euro, riuscendo a chiudere con un piccolo utile netto (16mila euro). Merito dei tanti clienti accorsi al Renaissance Tuscany Il, l’enorme complesso ricettivo tra le colline lucchesi, con piscine, spa e tre ristoranti. Che, la notte di San Silvestro, difficilmente faranno il tutto esaurito.

È messa invece molto meno bene la società che i Marcucci controllano al 100%, senza partner esterni. Si chiama “Il Ciocco Spa”, anche questa ha sede a Barga e conta su un ricco patrimonio turistico tra le colline lucchesi: tre alberghi per un totale di 58 camere, cui si aggiungono 12 chalet, 29 appartamenti e un lido sulla spiaggia di Viareggio. A differenza della joint venture con Marriott, qui il bilancio segna profondo rosso. L’anno scorso, a fronte di un fatturato di 3,2 milioni, “Il Ciocco Spa” – nel cui cda siede il senatore – ha chiuso in perdita per 2,5 milioni di euro. Un buco che si accumula a quello dell’anno precedente, quando il rosso era stato di 4,2 milioni, e a quello dell’anno prima ancora, quando le perdite erano state pari a 2,7 milioni.

Il risultato finale è scritto alla voce debiti: continuano ad aumentare, e alla fine del 2019 erano arrivati a 17,2 milioni, per più della metà nei confronti di banche. L’anno del Covid, e il divieto di ospitare a cena clienti esterni a San Silvestro, non potranno che far peggiorare le cose. Ma sicuramente, quando ha chiesto al governo di cambiare l’orario di chiusura dei ristoranti degli alberghi il 31 dicembre, Marcucci non ci stava pensando.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/12/05/marcucci-contro-la-stretta-sugli-hotel-e-nel-cda-di-2-societa-che-li-gestiscono/6027312/

martedì 12 maggio 2020

Piano pandemico, ora lo scaricabarile. E ombre sull’Oms. - Marco Franchi

Piano pandemico, ora lo scaricabarile. E ombre sull’Oms
Ranieri Guerra - Direttore, Centro Collaborativo OMS per la formazione sanitaria, e Direttore, Ufficio Relazioni Esterne; dirigente tecnologo ente di ricerca pubblico.

Mai aggiornato dal 2010, quando poi è servito non c’era Guerra (2014-2017): “Non so cos’abbiano fatto dopo”.
L’Italia, come rivelato a marzo dal Fatto, aveva un Piano pandemico. È un documento che viene compilato dai Paesi aderenti all’Organizzazione Mondiale della Sanità fin dall’epidemia di influenza aviaria del 2003 e riporta le azioni e le contromisure da mettere in atto in caso di eventi epidemici su larga scala. “Esso – si legge sul sito del ministero della Salute – rappresenta il riferimento nazionale in base al quale saranno messi a punto i Piani operativi regionali” e l’Oms “ha raccomandato “a tutti gli Stati “di aggiornarlo costantemente seguendo linee guida concordate”. Al di qua delle Alpi il compito spetta al Dipartimento Prevenzione del ministero. Tra il 2014 e il 2017, ha raccontato Report nella puntata di ieri, a guidarlo c’era Ranieri Guerra, oggi direttore aggiunto dell’Oms e a inizio marzo inviato a Roma per volere del direttore generale Tedros Adhamon Ghebreyesus in supporto al governo contro l’emergenza Covid-19. Sotto la sua direzione i Piani non sono stati aggiornati né le autorità sanitarie hanno pensato di fare stock di mascherine e altri Dpi per fronteggiare l’epidemia.
Interpellato sull’argomento, racconta il programma di Sigfrido Ranucci, Guerra preferisce non rispondere. Non lo fa neanche quando Serena Bortone durante la puntata di Agorà del 31 marzo gli fa notare che “il piano pandemico italiano non è stato aggiornato dal 2010”. “Non è così – si schermisce il professore – ci sono dei livelli di confidenzialità che devono essere rispettati”. Raggiunto poi dal cronista di Report Giulio Valesini, l’esponente dell’Oms scarica tutto su chi è venuto dopo di lui: “Non so nulla di quello che il governo italiano ha fatto negli ultimi tre anni”. Ma lo sapeva o no che l’Italia non aveva stoccato mascherine e non era pronta rispetto ai piani pandemici? “Non lo so, io non sono parte del governo”. Non lo è, ma il Piano pandemico è fermo dal 2010 e tra il 2014 e il 2017 a guidare il Dipartimento di Lungotevere Ripa che avrebbe dovuto aggiornarlo sedeva proprio lui, l’uomo inviato a Roma dal direttore generale Ghebreyesus. Sul cui operato aleggiano ormai da tempo diversi dubbi.
Ex ministro della Salute e degli Esteri dell’Etiopia, , ricorda Report, è uno dei leader del partito il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, è legato a doppio filo con il Partito comunista cinese e oggi ancora di più al presidente Xi Jinping per via dei pesanti investimenti fatti da Pechino nel Paese africano, in particolare nel settore delle infrastrutture. Primo africano a salire ai vertici dell’Oms, fin dall’inizio dell’emergenza Tedros ha lodato la gestione dell’epidemia messa in atto dal governo cinese e ha chiuso gli occhi sui ritardi delle comunicazioni diramate da Pechino sulla sua diffusione. Riavvolgendo il nastro: l’8 dicembre si ha la notizia del primo contagio (poi fatto risalire al 17 novembre) ma solo il 23 le autorità cinesi annunciano il lockdown di Wuhan. Eppure l’Oms non si scompone. Solo il 30 gennaio per Ginevra il covid-19 diventa “emergenza sanitaria globale”. Ancora: è il 14 gennaio quando l’Oms dal suo account ufficiale twitta che “dalle indagini condotte dalle autorità cinesi non emergono evidenze di una trasmissione da uomo a uomo del virus”. Le prime ammissioni arrivano il 22 gennaio, quando si contano già migliaia di contagiati.
I dubbi si estendono anche ai finanziatori dell’agenzia Onu. Il suo bilancio è stato di 5,6 miliardi di dollari lo scorso biennio, ma neanche il 20% di questi sono fondi pubblici. L’80% arriva da privati come Bill Gates la cui fondazione versa più mezzo miliardo di dollari ogni biennio e decide le priorità dell’agenzia. Ora il magnate ha annunciato di voler contribuire alla ricerca di un vaccino anti-Covid-19 ma i fondi che dà all’Oms provengono dal trust di famiglia, che investe centinaia di milioni (323 nel 2018) nelle case farmaceutiche, da Novartis a Pfizer. Ha anche investito 237 milioni solo nella Walgreen Boots Alliance società che distribuisce farmaci in mezzo mondo.

venerdì 27 novembre 2015

AGGRAPPATEVI AL VOSTRO PORTAFOGLI: INTERESSI NEGATIVI, GUERRA AL CONTANTE E UN BAIL-IN DA 10.000 MILIARDI DI DOLLARI - ELLEN BROWN

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In tempi d’incertezza ‘cash is king’ [1], ma i banchieri centrali stanno muovendosi sistematicamente per eliminare questa possibile opzione. Si tratta davvero di uno stimolo all'economia, o siamo davanti ad una profonda e oscura minaccia?
Ricordate quel vecchio annuncio che mostrava una coppia d’anziani sdraiata su una spiaggia, intitolato ‘Lasciate che il vostro denaro lavori per voi’? O la scena del ‘Mary Poppins’ [2] in cui viene consigliato al giovane Michael di mettere i suoi ‘due penny’ in banca, in modo che possano contribuire ‘all’iniziativa privata’, attraverso l’acquisto di ‘obbligazioni, beni mobili, azioni, cantieri navali etc.?

Tutto questo potrebbe ancora funzionare se siete dei banchieri di Wall Street. Ma se siete dei normali risparmiatori, con i soldi depositati in banca, potreste presto ritrovarvi a pagare la vostra banca perché custodisca i vostri soldi, al contrario di quanto dovrebbe essere.
Quattro Banche Centrali in Europa – la BCE, la svizzera SNB, la svedese Riksbank e la danese Nationalbank – hanno imposto dei tassi d’interesse negativi sulle riserve depositate dalle banche commerciali e hanno cominciato a discutere se non sia giunto il momento di trasferire questi costi sui consumatori.
La Banca del Giappone e la Federal Reserve sono ancora allo ZIRP [Zero Interest Policy Rate], ma diversi funzionari della Fed hanno cominciato a chiedere il NIRP [Negative Interest Policy Rate].

La giustificazione ‘dichiarata’ è quella di stimolare la ‘domanda’ costringendo i consumatori a ritirare i propri soldi e a fare acquisti. Quando un'economia è in affanno, è prassi normale che una Banca Centrale tagli i tassi d’interesse rendendo il risparmio meno attraente. Tutto questo dovrebbe far crescere la spesa e rilanciare la ripresa economica.
Questa è la teoria. Tuttavia, le Banche Centrali hanno già spinto il ‘tasso primario’ a zero ma, nonostante questo, le loro economie sono ancora deboli. Per i ‘non iniziati’, questo significa che la teoria è sbagliata e che quindi deve essere rottamata … ma non per i nostri intrepidi banchieri centrali, che stanno ora sperimentando la politica dei tassi sotto zero.

ELIMINARE LA ‘CORSA AGLI SPORTELLI’ [3]: LA SOCIETA’ SENZA CONTANTE

Ma, come ha ben spiegato il britannico ‘The Telegraph’, l'imposizione ai risparmiatori di un tasso d’interesse negativo comporta un problema:
“c'è un limite: quello che gli economisti hanno chiamato la ‘soglia zero'. Tagliare i tassi d’interesse troppo in profondità significa che i risparmiatori si troverebbero davanti a dei rendimenti negativi. Ma questo potrebbe incoraggiarli a ritirare i risparmi dalle banche ed a conservarli in contanti. 
Questo potrebbe far rallentare, piuttosto che crescere, l'economia”.
Anche in questo caso, per l'osservatore ordinario tutto lascerebbe credere che i tassi d’interesse negativi non funzionino e che questa politica debba essere abbandonata. Ma, come al solito, non è così per i nostri imperterriti banchieri centrali che, invece, hanno scelto di tappare il buco della loro teoria eliminando l’opzione del denaro contante.
Se per un risparmiatore l’unica possibilità è quella di tenere i soldi in un conto bancario di tipo digitale – e quindi di dover passare obbligatoriamente alle carte di credito o agli assegni – l’interesse negativo può essere imposto impunemente. Tutto questo sta già succedendo in Svezia, ma altri paesi sono prossimi alla decisione. Wolfstreet.com ha scritto che:
“La guerra al ‘contante’ sta avanzando su tutti i fronti. La regione che ha monopolizzato i ‘titoli dei giornali’ con la sua guerra alla moneta fisica è la Scandinavia. La Svezia è diventata il primo paese a trattare i suoi cittadini come cavie, in gran parte disposti ad un esperimento economico distopico: tassi d’interesse negativi in ​​una società senza contanti.
Come ha detto il Credit Suisse, non importa dove andate o ciò che desiderate acquistare, troverete ovunque un piccolo cartello con su scritto: ‘Vi hanterar ej kontanter’ – ‘Non si accettano contanti’ ….”.

LA LEZIONE DI GESELL SUL ‘DECADIMENTO DELLA VALUTA’ [4]

Che gli interessi negativi possano effettivamente stimolare la ripresa economica, tuttavia, non è un fatto certo. I fautori della teoria citano Silvio Gesell e l'esperimento della città di Wörgl fatto nel 1930 [4]. Come spiegato da Charles Eisenstein nel suo ‘Sacred Economics’:
“Il teorico-pioniere del denaro a tasso d’interesse negativo è stato l'uomo d'affari tedesco-argentino Silvio Gesell, che definì la sua teoria ‘Free Money’ [Denaro Gratuito o anche Freigeld]. Il sistema che egli propose nel suo capolavoro del 1906, ‘The Natural Economic Order’, consisteva nell’emissione di carta-moneta sulla quale doveva essere apposto periodicamente un timbro, che costava una piccola frazione del valore della banconota. In questo modo si sarebbe applicato un ‘costo di manutenzione’ alla ricchezza monetaria.
…. In Austria, nel 1932, la depressa città di Wörgl emise il proprio ‘timbro’ ispirandosi a Gesell … La ‘Moneta di Wörgl’ fu, a detta di tutti, un grande successo.

Si lastricavano le strade, si costruivano i ponti e s’incassavano le tasse. Il tasso di disoccupazione si era fortemente ridotto e l'economia prosperava, attirando l'attenzione delle città vicine. Sindaci e funzionari di tutto il mondo cominciarono a visitare Wörgl fino a quando il governo centrale, seguendo l’esempio della Germania, abolì la ‘Moneta di Wörgl’ e la città scivolò di nuovo nella depressione.

…. La ‘Moneta di Wörgl’ era portatrice di una penalità – un ‘costo di manutenzione’ legato al possesso del denaro – pari all’1% al mese. Testimonianze dell’epoca attribuirono a questa penalità la rapidissima ‘velocità di circolazione’ delle banconote. Invece di generare interessi crescenti, l’accumulo di ricchezza era diventato un ‘peso’, analogamente alla situazione dei cacciatori-raccoglitori nomadi, per i quali i’ beni’ erano un ‘peso’. Come teorizzato da Gesell, i soldi penalizzati dalla ‘proprietà in perdita’ cessarono di essere il mezzo preferito, rispetto a qualsiasi altra merce, per costituire una riserva di valore”.

C'è una differenza fondamentale, tuttavia, tra la valuta di Wörgl e lo schema d’interesse negativo dei moderni banchieri centrali. Il governo di Wörgl prima emetteva il suo nuovo ‘Denaro Gratuito’ [Free Money] – facendo crescere il potere d'acquisto dell’economia locale – e poi lo tassava, riavendone una parte indietro.
I proventi della tassa [il timbro apposto sulle banconote] tornavano alla città, che li utilizzava a beneficio dei contribuenti. Eisenstein ha osservato che:

“E’ comunque impossibile da dimostrare che il rinvigorimento [dell’economia generato] da questa valuta sia venuto dalla penalità piuttosto che dall'aumento dell'offerta di moneta …”.

Ma i banchieri centrali di oggi propongono di tassare il denaro già esistente, con l’effetto di ridurre il potere d’acquisto perché prima non lo avevano aumentato [immettendo nuovo denaro]. E l'interesse andrà ai banchieri privati, non ai governi.

Oggi i consumatori hanno pochi soldi da spendere. Imporre un importante interesse negativo senza prima aver immesso del denaro fresco nell'economia significa che essi avranno ancora meno soldi da spendere. Probabilmente, tutto questo li spingerebbe a risparmiare i pochi soldi di cui dispongono, piuttosto che andare a fare shopping.
Le persone, oggi, non tengono i soldi in banca per gli interessi, che sono già quasi inesistenti. Ce li tengono per la comodità di poter emettere assegni, carte bancarie e conservare il loro denaro in un luogo ‘sicuro’.

Non avrebbero troppe remore a pagare un modesto interesse negativo per usufruire di tali convenienze ma, se la tassa fosse troppo alta, potrebbero ritirare i loro soldi e metterli altrove. La tassa, inoltre, non li spingerebbe a comprare cose di cui non hanno bisogno.

C’E’ UNA MINACCIA PIU’ GRANDE RISPETTO A QUELLA DI UN’ECONOMIA STAGNANTE?

Lo schema proposto dai banchieri centrali, costituito dall’imposizione di un interesse negativo e dall’eliminazione dei contanti, è tal punto improbabile che possa stimolare l'economia, da farci chiedere se è davvero questa la ragione sottostante. Da rilevare, comunque, che è stata invocata un’altra giustificazione, quella di fermare gli evasori fiscali e i terroristi, veri o presunti che essi siano.
L'economista Martin Armstrong [5] va oltre e suggerisce che il vero obbiettivo, in realtà, è quello di ottenere il controllo totalitario sui nostri soldi. In una società senza contanti le banche potrebbero facilmente tassare i risparmi ed eliminare la minaccia della ‘corsa agli sportelli’, mentre le banche ‘troppo grandi per fallire’ sarebbero certe che i depositi saranno lì, quando avranno bisogno di confiscarli – attraverso il bail-in [6] – per restare a galla.
Potrebbe essere questa la vera minaccia che si profila all'orizzonte: le banche più grandi, quelle che fanno la maggior parte del trading sui derivati, potrebbero presto essere colpite da un importante default sui derivati.
Il 10 Novembre 2015 il ‘Wall Street Journal’ ha pubblicato i risultati di uno studio richiesto dai Senatori Elizabeth Warren ed Elijah Cummings, sui costi per i contribuenti relativi al roll-back [7] del ‘Dodd-Frank Act’ [8], previsto nella legge di spesa ‘cromnibus’ [9] dello scorso Dicembre.
Come ha giustamente sostenuto Jessica Desvarieux sul Real News Network:
“l'inversione della regola consente alle banche di mantenere 10.000 miliardi dollari di ‘contratti swap’ [10] sui loro libri contabili, con i contribuenti che saranno senz’altro coinvolti se le banche dovessero aver bisogno di un altro piano di salvataggio”.
La promessa del ‘Dodd-Frank Act’, tuttavia, era che non ci sarebbero stati altri salvataggi a carico dei contribuenti. Al loro posto le banche insolventi a rischio-sistemico avrebbero dovuto effettuare il ‘bail-in’ con i soldi dei loro creditori – ovvero confiscare i ‘conti correnti’ dei loro depositanti, i più importanti creditori di qualsiasi banca.
Tutto questo potrebbe spiegare la spinta verso un mondo senza contanti. Eliminando la possibilità di prelievo dei contanti, una Banca Centrale può assicurarsi che i depositi saranno lì, al momento della catastrofe, per poter essere confiscati.
Se i banchieri centrali cercassero seriamente di stimolare l'economia con tassi d’interesse negativi, avrebbero bisogno di ripetere l'esperimento di ‘Wörgl’ nella sua pienezza. Dovrebbero prima immettere nuovo denaro nell'economia, direttamente ai consumatori e agli uomini d'affari locali, che poi potrebbero spenderlo.
Si potrebbero utilizzare varie modalità: un dividendo nazionale, un ‘Quantitative Easing’ dedicato alle infrastrutture, prestiti a basso tasso d'interesse agli stati federati [o agli enti locali, a seconda del sistema statuale], il finanziamento dell'istruzione superiore, rendendola gratuita.

Certo è che i consumatori andranno nei centri commerciali solo quando avranno altri soldi a disposizione da poter spendere.

Ellen Brown 


Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da FRANCO    

Fra parentesi quadra [ … ] le note del Traduttore ed inoltre:
[1] Il detto ‘cash is king’ esprime la convinzione che il denaro in contanti sia più prezioso di qualsiasi forma d’investimento. Viene utilizzato, di solito, quando i prezzi del ‘mercato dei titoli’ sono troppo alti e gli investitori decidono di tenersi il denaro per quando i prezzi saranno più convenienti.
[2] Notissimo film degli anni ’60. Qui il Link: https://it.wikipedia.org/wiki/Mary_Poppins_(film)
[3] ‘Bank Run’ o ‘Corsa agli Sportelli’. Qui il Link: https://it.wikipedia.org/wiki/Bank_run
[4] Qui il Link: http://www.bloombergview.com/articles/2015-07-03/-neglected-prophet-of-economics-got-it-right.
[5] Per saperne di più: http://www.armstrongeconomics.com/archives/30145
[6] Il bail-in è un provvedimento secondo cui il salvataggio delle banche in difficoltà deve aver luogo anche con il supporto dei creditori della banca stessa (ovvero dei correntisti). 
[7] Con il termine roll-back si intende la vendita di un’opzione per acquistarne un’altra con lo stesso prezzo e con gli stessi assets a garanzia, ma con scadenza più vicina. Per saperne di più: http://www.investopedia.com/terms/r/rollbackward.asp
[8] Scolasticamente, il Dodd-Frank Act è un intervento voluto dall’Amministrazione di Barack Obama per promuovere una più stretta e completa regolazione della finanza statunitense, incentivando al contempo la tutela sia dei consumatori che del sistema economico statunitensi. Per saperne di più:http://www.borsaitaliana.it/notizie/sotto-la-lente/dodd-frank-act-143.htm
[9] Il ‘cromnibus’ è una normativa che combina la ‘legge di spesa omnibus’, di lungo termine, con le continue risoluzioni di breve termine. Per saperne di più: http://politicaldictionary.com/words/cromnibus/
[10] Lo swap, nella finanza, appartiene alla categoria degli strumenti derivati e consiste nello scambio di flussi di cassa tra due controparti. Per saperne di più: https://it.wikipedia.org/wiki/Swap_(finanza)

http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=15911

martedì 27 gennaio 2015

Il ''conflittuccio'' d'interesse del ministro #Boschi.




"Ormai è chiaro che in tema di conflitti di interessi Renzi e il suo governo hanno ben poco da invidiare al grande maestro, l'ex Cavaliere di Arcore. 
Ora si scopre che il ministro Boschi è anche azionista della Banca Popolare dell'Etruria e del Lazio, istituto che ha fatto un balzo del 66% in Borsa per effetto degli annunci trapelati, a mercati aperti, da Palazzo Chigi sulla riforma delle maggiori banche regolate dal voto capitario. 
Non bastava sapere che papà Boschi è vicepresidente della Popolare dell'Etruria, intermediario del credito presso cui lavora pure il fratello del ministro delle Riforme. 
Adesso si scopre, dunque, che esiste anche un interesse formale diretto, seppur piccolo, della giovane Maria Elena nell'istituto. 
E pensare che Boschi non si è neppure astenuta dal voto nella seduta del Cdm del 20 gennaio che ha approvato il decreto di riforma delle popolari. 
Non ha nemmeno salvato ipocritamente la forma e ha finito per fare peggio di Berlusconi che, da premier, ogni tanto si alzava e usciva dal Consiglio dei ministri quando si decideva qualcosa sui suoi affari privati. 
Noi abbiamo già annunciato un esposto a Consob sulle fughe di notizie che hanno sconvolto la Borsa sul finire della settimana scorsa. 
Adesso faremo in modo che il governo venga a rispondere in Parlamento di questo modo protervo e arrogante di trattare le commistioni tra la cosa pubblica e gli interessi privati." M5S Parlamento

http://www.beppegrillo.it/2015/01/il_conflittuccio_dinteresse_del_ministro_boschi.html

venerdì 11 ottobre 2013

Alitalia sull’orlo della bancarotta: gli errori di compagnia e politica. - Andrea Giuricin

Alitalia sull’orlo della bancarotta: gli errori di compagnia e politica

Dalla “ripartenza” del Piano Fenice ad oggi ha accumulato perdite pari a 1138 milioni di euro. Nel 2008 era ripartita "alleggerita" dai debiti, ma negli anni successivi è stata affossata da errori di valutazione strategica combinati con nuove tasse legate all'aeroporto di Fiumicino. Senza contare le gravi responsabilità proprio dei "patrioti" azionisti.

Alitalia verso il salvataggio grazie a un nuovo intervento del capitale pubblico, con l’aumento di capitale finanziato in parte da Poste italiane. Come si è arrivati a questa situazione così critica? La compagnia ha accumulato perdite pari a 1138 milioni di euro dalla “ripartenza” del Piano Fenice ad oggi. La situazione è andata peggiorando negli ultimi due anni, dato che in soli 18 mesi il vettore ha perso quasi 600 milioni di euro. Vi sono forti responsabilità della compagnia? Vi sono responsabilità della politica? A entrambe le domande la risposta è univoca: si. La compagnia aerea è nata con un Piano di sviluppo sbagliato. Troppo concentrata sul mercato domestico e troppo poco sul mercato intercontinentale. Il mercato nazionale è quello maggiormente concorrenziale e aggredibile, mentre quello a lungo raggio rimane in una sorta di oligopolio e d possibile fare i margini maggiori. Lo sapeva la compagnia? Si, lo sapeva.
Perché non ha fatto nulla? Alitalia si aspettava un regalo da parte della politica e questo è arrivato. Il blocco dell’Antitrust per tre anni ha di fatto limitato la concorrenza sul mercato nazionale. Ma non abbastanza. La crescita di Ryanair ed Easyjet e dell’alta velocità hanno minato il piano Fenice. Alitalia inoltre nasceva con l’acquisto degli aerei a corto raggio da parte di Airone e con quegli aerei il management doveva fare il suo piano di sviluppo. Peccato che il vettore avrebbe fatto meglio a concentrarsi sul mercato a lungo raggio, ma ormai non c’erano i soldi. La politica ha inoltre liberato la vecchia “Alitalia” dei debiti, così che Cai potesse partire alleggerita dal peso lasciato ai contribuenti italiani. Ma la politica poi non è stata così perspicace in altri momenti. Nel dicembre 2012, come ultimo atto del Governo Monti, è stato approvato l’aumento delle tasse dell’aeroporto di Fiumicino per circa 11 euro a passeggero per i voli a lungo raggio e 8 euro per quelli a corto raggio.
Alitalia, che stava sviluppando una rete di voli a lungo raggio da Fiumicino si è trovata con 120 milioni di euro l’anno da pagare in nuove tasse. Un aumento che affonda definitivamente le ali della compagnia. La politica regionale ha fatto qualcosa? Certo. Per salvare il buco della “sanità” laziale, la Regione Lazio ha deciso di introdurre l’Iresa, una tassa sull’inquinamento sonoro degli aeroporti che costa ad Alitalia almeno 20 milioni di euro l’anno. Anche in questo caso, l’intelligenza politica ha deciso di tassare maggiormente i voli a lungo raggio. Veniamo agli azionisti. Hanno gravi responsabilità. La mancanza di aumenti di capitale nell’ultimo anno non ha permesso alla compagnia di fare piani di sviluppo, ma solo piani di sopravvivenza. Ora gli azionisti italiani vorrebbero uscire dalla partita. Forse troppo tardi, perché AirFrance-KLM socio al 25 per cento della nuova compagnia ha interesse ad acquistarsi Alitalia a costo zero. Ma quello è il valore dell’azienda indebitata e con 1.138 milioni di euro di perdite in quattro anni e mezzo. L’arrivo del socio pubblico è appoggiato dagli azionisti italiani che vorrebbero forse avere qualcosa dalla vendite delle azioni. Certo, significherà ancora una volta girare ai contribuenti le perdite di Alitalia.
Leggi anche:
Alitalia è salva e italiana. (A spese del contribuente)
Ne è valsa la pena? Lo sapremo tra cinque anni... Giovanni Martino
      
Il salvataggio di Alitalia è – a nostro avviso - una buona notizia. Che però suscita una serie di importanti interrogativi. Come si è potuti giungere sull’orlo del fallimento? Di chi le responsabilità del disastro? La soluzione scelta per il salvataggio è la migliore? Quanto è costata al contribuente italiano? Può considerarsi una soluzione definitiva? Quali ricadute avrà la vicenda Alitalia sul sistema industriale italiano?

Le cause della crisi
Il maggior azionista di Alitalia era il Tesoro (quindi si trattava di una compagnia pubblica), per cui i suoi debiti sono sempre stati ripianati con fondi dell'erario, cioè con maggiori tasse (o minori servizî erogati agli Italiani). Da quando è stata quotata in borsa, la compagnia ci è costata (tra ricapitalizzazioni e debiti ripianati) circa 13 miliardi di euro, di cui 5 miliardi negli ultimi 10 anni!
Qualcuno potrebbe pensare: “Beh, le tasse dovranno essere pur spese per i servizî pubblici, e i trasporti aerei sono un servizio pubblico importante”. Sbagliato.
Il trasporto aereo è un servizio importante, ma non è un servizio pubblico. I “beni pubblici” sono un categoria rigorosamente delimitata, individuabile solo nei casi in cui non è misurabile l'uso del bene.
Il trasporto aereo è un servizio che può agevolmente essere venduto a chi ne usufruisce. E un bene importante, certo, ma ci sembra difficile sostenere che si tratti di un bene da incentivare, come l’istruzione obbligatoria o l’assistenza sanitaria essenziale... Che questo servizio possa essere offerto da un’azienda sana, semplicemente vendendo il prodotto offerto, lo dimostrano del resto tutte le altre compagnie aeree, le quali non hanno maturato il passivo di Alitalia (o, quando lo hanno maturato per una gestione inefficiente, sono fallite: Pan Am, TWA, Swissair, Sabena).
La verità, dunque, è che il passivo (enorme) di Alitalia è maturato semplicemente per un eccesso di sprechi.
La lista delle spese folli l’abbiamo letta a più riprese sui giornali negli ultimi mesi.
Stipendi (soprattutto del personale di volo) certamente non miseri. Secondo i dati riservati dell'Aea (l'Associazione delle compagnie aeree europee) – Alitalia e i sindacati si rifiutano di fornire i dati! - nel 2006 i piloti hanno avuto uno stipendio complessivo medio di 121mila euro, al lordo delle tasse ma al netto delle indennità, che incidono molto sul reddito finale (si pensi solo alla cosiddetta “indennità lettino” per la monetizzazione del riposo non goduto, che pare sia stata abolita nel 2005, e che poteva arrivare a 1.800 euro al mese). Gli assistenti di volo (hostess e steward) prendono oltre 48mila euro, sempre al lordo delle tasse e al netto delle indennità.
Benefit immotivati come l’auto-pullmino aziendale con autista che andava a prendere e riaccompagnava a casa il personale di volo; distacchi sindacali che comportavano un costo dieci volte tanto quello delle altre compagnie; alberghi cinque stelle per il personale in trasferta anche in Italia; sedi di rappresentanza aperte in Paesi (come il Messico) in cui Alitalia non era più operante.
Si aggiunga la cattiva gestione del personale, cui ha contribuito il potere di cogestione (assunzioni, promozioni) riconosciuto ai sindacati, soprattutto ai potenti sindacati di piloti e assistenti di volo.
Negli ultimi anni, peraltro, si era creata un'odiosa separazione tra personale di serie A (personale di volo e personale di terra con vecchi contratti, molto vantaggiosi) e di serie B (personale di terra neoassunto, con contratti - a parità di mansioni - molto più sfavorevoli e spesso precario).
Ma l’elemento più importante è stato la produttività bassissima: orario di lavoro effettivo medio di 40 ore al mese (sì, avete letto bene: non alla settimana, ma al mese), di molto inferiore a quello della concorrenza (circa la metà), con situazioni paradossali per il personale di volo impegnato in voli che partivano da aeroporti diversi dalla città di residenza. Ad esempio, i membri di un equipaggio di Roma che dovevano effettuare un volo A/R da Malpensa ad un Paese estero timbravano al mattino il cartellino a Fiumicino, ed iniziavano quindi a risultare in servizio; dopodiché prendevano un volo per Milano come passeggeri; arrivavano a Milano, soggiornavano e pernottavano – sempre a spese di Alitalia – per garantirsi il necessario riposo; il giorno dopo si trasferivano a Malpensa per effettuare l’andata del volo che costituiva la loro produttività effettiva; arrivo nella destinazione estera, pernottamento, viaggio di ritorno, e nuovo pernottamento a Milano; il giorno successivo, infine, nuovo viaggio come semplici passeggeri in un volo che li riportava a Roma, e – finalmente – timbratura di fine servizio a Fiumicino. Prima di riprendere servizio, fruivano di tre giorni di interruzione del lavoro tra festività riposo... Insomma: retribuiti per effettuare, in una settimana (di cui quattro giorni considerati come lavorativi a tempo pieno con indennità di trasferta, ecc.) un solo viaggio internazionale!
Consideriamo questi sprechi inaccettabili non in nome di un facile pauperismo, o del disconoscimento della professionalità degli addetti; ma semplicemente perché si tratta di sprechi coperti anche col denaro pubblico. Al confronto, sono moralmente molto più rispettabili gli ingaggi milionarî dei calciatori.
Per questo motivo, sono state davvero stucchevoli le proteste di piloti e assistenti di volo che definivano “mortificante” il nuovo contratto proposto da CAI (Compagnia Aerea Italiana, la cordata di imprenditori italiani sollecitati da Berlusconi a presentare un’offerta e che hanno infine acquistato le attività di Alitalia). Alcune frange si illudevano che il vecchio andazzo potesse continuare, che ci fossero ancora i margini per chiedere allo Stato nuovi interventi economici. Va dato atto al Governo di aver tenuto il punto, chiarendo che un’epoca, quella delle partecipazioni statali (Alfa Romeo-AlfaSud, Motta, Cirio, Banco di Napoli, ecc.) e degli sprechi di denaro pubblico, è definitivamente tramontata.
L’altro spreco era costituito dagli esuberi di personale. Un solo esempio al riguardo: l’attività di trasporto cargo aveva 180 piloti per 5 aerei !!! In totale, gli esuberi di Alitalia sono stati calcolati in circa 3.000 persone (che salgono a 7.000 calcolando nel totale precedente i dipendenti AirOne – che confluisce nella nuova compagnia -, i precarî, i dipendenti dei servizî esternalizzati).
Possiamo considerare uno “spreco” dar lavoro a migliaia di famiglie? In astratto no. Lo Stato deve cercare di creare le condizioni economiche perché tutti possano lavorare. Ma non lo deve fare assumendo direttamente. La via da percorrere è quella di favorire il lavoro ‘vero’, produttivo; non l’assistenzialismo mascherato, che distoglie risorse dalla crescita economica del Paese.
E però: quando la “frittata” è fatta, quando i lavoratori in eccesso sono stati assunti, si possono mandare “in mezzo a una strada”? Le “ristrutturazioni” aziendali non sono un meccanismo crudele?
Attenzione: la crescita economica delle società si basa proprio sull’aumento di produttività del lavoro, che rende necessario un minor numero di lavoratori per produrre gli stessi beni del passato, e libera nuove energie in nuove produzioni (altrimenti avremmo ancora i fabbricanti di ghette per scarpe...).
Certo, poche decine di esuberi sarebbero facilmente assorbibili dal mercato del lavoro; migliaia no, o almeno non subito. È per questo che è stato utile l’impegno diretto degli ultimi Governi nel trovare una soluzione di salvataggio che non rendesse gli esuberi un problema di dimensioni tragiche; ed è per questo che esistono gli ammortizzatori sociali. (Anche se va detto che sette anni di “disoccupazione” retribuita, garantiti ai lavoratori che non verranno riassunti nella nuova Alitalia, sembrano un favoritismo inspiegabile rispetto ad altri lavoratori. Prima quelle persone torneranno a lavorare, prima daranno il loro contributo alla crescita economica.)
Inoltre, sarà importante un impegno delle istituzioni per favorire la formazione e il ricollocamente del personale in cassa integrazione, anche mediante l'incentivazione di nuovi distretti produttivi nelle zone di residenza della maggior parte dei lavoratori che hanno perso il posto.
Infine, tra le principali fonti di spreco dobbiamo evidenziare le strategie industriali sbagliate. In particolare, il tentativo di fare di Malpensa un “hub”, ossia uno snodo di scambio tra voli a lungo raggio (intercontinentali) e voli a medio e corto raggio cosiddetti “di federaggio” (che devono far affluire i passeggeri per i voli intercontinentali). Ebbene, Alitalia (e l’Italia) non ha un traffico aereo sufficiente per poter sostenere due hub(Malpensa e Fiumicino). Malpensa, in particolare, è assolutamente inadeguata allo scopo: lontana da Milano (si trova in provincia di Varese) e mal collegata; troppo “vicina”, in termini di concorrenza, rispetto ad un grandissimo aeroporto internazionale come Francoforte; soggetta anche alla spietata concorrenza locale fatta da molti aeroporti spuntati come funghi nel Nord Italia.
Scommettere su Malpensa ha significato le spese di spostamento del personale che abbiamo ricordato in precedenza. Senza il gradimento del mercato: la stessa Alitalia aveva quantificato in 200 milioni il buco prodotto annualmente da Malpensa.

Di chi le responsabilità del disastro?
Alitalia non è stata un’eccezione, ma una delle ultime espressioni di un sistema-Italia basato sullo sfruttamento di risorse pubbliche mediante l’indebitamento. Un sistema divenuto insostenibile, cui hanno però partecipato – indistintamente – tutte le forze sociali e politiche.
sindacati, innanzitutto. Lo hanno candidamente ammesso in questi mesi.
La loro responsabilità non è stata solo quella di aver contribuito alla cattiva gestione, ma anche quella di aver rifiutato quasi sino all’ultimo le proposte di rilancio della compagnia.
Lo scorso anno, i potenziali acquirenti del bando per la privatizzazione indetto dal governo Prodi (Air France, Airflot, Lufthansa, AirOne, una cordata americana) erano frenati soprattutto dalla difficoltà delle relazioni con i sindacati. Anche al ritiro di Air France, che era restato l’unico acquirente ammesso dal governo Prodi alla trattativa privata, contribuì in maniera rilevante l’ostilità sindacale, oltre che quella annunciata da Berlusconi.
Che l’offerta CAI di questi mesi fosse l’ultima spiaggia (visto che il tempo per cercare alternative era agli sgoccioli) era stato compreso da Cisl e Uil, ma non ancora dalla Cgil, che ha rischiato di arrivare alla rottura solo per ottenere qualche consenso in più e per favorire una (ormai impossibile) soluzione diversa da quella promossa dall’avverso governo Berlusconi.
In secondo luogo, le responsabilità del disastro investono i partiti politici. Di tutti i colori.
Il primo governo Prodi, nel 1998, inaugura Malpensa (col bel risultato che conosciamo). Nel 2001, al termine dell’esperienza del centrosinistra, il risultato operativo della compagnia era negativo per 266 milioni di euro l’anno.
Negli anni successivi (secondo e terzo governo Berlusconi) le cose sono anche peggiorate: 465 milioni di perdite nel 2006.
Colpa dell’ascesa delle compagnie low cost, certo; ma anche dell’incapacità dell’azienda di adattare le proprie strategie al nuovo scenario. La Lega Nord, con la sua strenua difesa di Malpensa, e l’imposizione dei suoi uomini al vertice della compagnia (Giuseppe Bonomi, presidente dal 2003 al 2004), ha dato il suo bel contributo alla causa.
Nel 2006 torna al governo la sinistra, ma le cose non cambiano. Si decide – giustamente – di privatizzare e vendere l’azienda. Ma non si fa nulla per rassicurare i potenziali acquirenti rispetto alle proteste dei sindacati; i quali “tenevano duro”, perché sapevano che il Governo non avrebbe avuto il coraggio di dire no a ulteriori rifinanziamenti. La posizione di rigore sostenuta da Prodi e Padoa Schioppa, infatti, era isolata rispetto alle pressioni esercitate dai partiti della coalizione.
E si arriva ai giorni nostri. Veltroni prima incoraggia la resistenza della Cgil. Poi, quando si accorge di essere restato col cerino in mano e di non potersi assumere – con Epifani – la responsabilità del fallimento, inverte precipitosamente la rotta e inventa la sceneggiata dell’incontro di mediazione a casa sua. Il presidente della CAI Colaninno, che è amico della sinistra e padre di un “ministro” del “Governo ombra” di Veltroni, non nega a Veltroni il favore di prestarsi alla sceneggiata, anche per offrire ad Epifani una resa onorevole. Ma lo stesso Colaninno, quando al Tg1 ringrazia tutti i protagonisti che hanno contribuito alla felice conclusione della vicenda, non cita Veltroni.
(Su Di Pietro stendiamo un velo: giudicò umiliante l’offerta di Air France, e oggi la rimpiange...)
Quanto a Berlusconi, abbiamo detto delle responsabilità per il periodo 2001-06. Oggi ha dimostrato che la cordata italiana non era una boutade. Ma se il piano che ha imposto sia veramente il migliore lo potremo sapere solo nel prossimo futuro, come stiamo per spiegare nel seguito dell’articolo.
Infine, non sono da meno le responsabilità degli amministratori succedutisi nel tempo. Che hanno presentato bellissimi piani industriali, senza avere il coraggio di attuarli e di resistere alle pressioni politiche e sindacali. Questi amministratori non hanno neanche trascurato di concedersi lucrose liquidazioni al termine della loro esperienza: Gianfranco Cimoli 3 milioni di euro (!) per tre anni di lavoro.

La soluzione scelta per il salvataggio è la migliore?
Innanzitutto, bisogna apprezzare l’elemento essenziale: si tratta di una privatizzazione, cioè la soluzione che restituisce ad Alitalia la sua dimensione naturale di società che produce servizî per il mercato.
Alcuni avevano proposto la soluzione del fallimento, secondo un principio di rigoroso rispetto delle regole liberiste: chi sbaglia paga, e ciò costituisce un monito per la correttezza degli altri operatori economici. Con la vendita degli slot (diritti di atterraggio negli aeroporti) e degli aerei sarebbe stato ripianato gran parte del debito. Ma si tratta di una posizione astratta e integralista, che non tiene conto di come lo stesso obiettivo – il corretto impiego delle risorse – possa essere perseguito anche con mezzi più morbidi, che evitino conflitti sociali insanabili (20.000 persone senza lavoro) e la dispersione di un patrimonio industriale che può ancora essere validamente impiegato. Del resto, proprio un'astratta intransigenza impedì all'amministrazione USA di intervenire in tempo per frenare la crisi del 1929.
(Si tenga presente che tra i fautori del fallimento non possono essere annoverati quei dipendenti Alitalia che applaudirono il momentaneo ritiro dell’offerta da parte della CAI: la loro invocazione del fallimento era puramente strumentale, un modo di alzare la posta della trattativa e ottenere l’intervento pubblico.)
L’acquisto da parte della CAI è la forma di privatizzazione migliore che era possibile ottenere?
La proposta presentata da Air France nella primavera del 2008 aveva un valore complessivo di 2,5 miliardi di euro. La compagnia francese si sarebbe accollata debiti e obbligazioni di Alitalia, ed avrebbe anche versato 300 milioni di euro per le azioni.
Altre offerte simili (o forse ancora più convenienti) sarebbero potute arrivare se, anziché il metodo della trattativa privata, fosse stato seguito quello dell'asta competitiva, offrendo ai potenziali acquirenti garanzie su ammortizzatori sociali e chiarendo ai sindacati che non c'era più nessuna possibilità di finanziamenti pubblici.
L’acquisto da parte di CAI, invece, è molto meno conveniente per lo Stato. Alitalia viene scissa in due: una bad company che si accolla tutti  debiti e che resta di proprietà pubblica; e una good company – quella acquistata da CAI - nella quale vengono conferite tutte le risorse della vecchia compagnia. Il costo per CAI è stato solo di 1 miliardo di euro: 400 milioni al commissario liquidatore per acquistare i beni e rimborsare in piccola parte i creditori, 300 milioni a Toto, per i beni di AirOne, e 300 milioni di capitalizzazione (di questi soldi, già 250 ne rientreranno con l'ingresso quale socio di minoranza di Air France).
In definitiva, il costo complessivo della manovra finanziaria di salvataggio dell’Alitalia (un costo ulteriore rispetto a quelli storici che abbiamo inizialmente evidenziato), secondo le stime elaborate da KRLS Network of Business Ethics e dallo Sportello del contribuente e diffuse il 27 settembre, tenuto conto anche del prestito ponte di 300 milioni di euro (necessario per prendere tempo da aprile ad oggi), dei mancati introiti dell’offerta iniziale di Air France e dei debiti di AirOne (accollati alla bad company), non è inferiore a 3,1 miliardi di euro (un esborso straordinario di 172 euro per ogni italiano)!
Senza contare i 2 miliardi di euro per gli ammortizzatori sociali.
A questi costi palesi se ne aggiungono altri indiretti: quelli sostenuti dagli utenti-consumatori delle nuova compagnia, che per un certo periodo di tempo pagheranno biglietti più alti della norma a causa della mancanza di concorrenza.
La fusione di Alitalia e AirOne, infatti, crea una situazione di quasi monopolio nella rotta più affollata e più redditizia, quella Roma-Milano. Il decreto governativo salva-Alitalia ha espressamente stabilito una deroga di tre anni al rispetto delle regole sulla concorrenza. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha già giudicato questo periodo immotivatamente lungo, chiedendo che sia ridotto a sei mesi.
Infine, i costi occulti. Gli azionisti della cordata CAI non hanno nessuna esperienza nel settore del trasporto aereo (ad eccezione del proprietario di AirOne). Sono stati convinti a partecipare all’iniziativa per la pressante insistenza di Berlusconi. Si tratta di benefattori che hanno a cuore i supremi interessi del Paese? O hanno ricevuto garanzie precise dal Presidente del Consiglio che il rischio imprenditoriale sarà coperto da “ritorni” nelle altre attività da loro gestite?
“A pensar male si fa peccato, ma a volte ci si azzecca”, diceva Andreotti. Vedremo nei prossimi anni se gli interessi di questi azionisti in settori su cui hanno incidenza le scelte pubbliche (infrastrutture, edilizia) saranno agevolati da tali scelte. Per ora notiamo che il socio di CAI Carlo Toto, proprietario di una AirOne oberata dai debiti, facendola entrare nella nuova compagnia si salva dall'evenienza di un fallimento, e intasca - come visto - bei soldi; e che l'advisor dell'operazione, la banca Intesa San Paolo, coinvolgendo Toto nella cordata ha anche azzerato i rischi di sofferenza verso AirOne, di cui era il principale creditore. 
Come si giustificano queste spese abnormi?

L’italianità: un nodo ancora da sciogliere
Berlusconi ha voluto affossare la proposta Air France, rinunciare all'ipotesi di asta competitiva e promuovere la cordata di imprenditori italiani in nome della “italianità” dell’azienda, della necessità di avere una “compagnia di bandiera”. Il gioco (l’italianità) vale la candela (l’enorme – seppur ultimo – esborso pubblico)?
La proprietà nazionale (non necessariamente pubblica) di beni e servizî di interesse strategico non è una sciocchezza. Lo abbiamo sottolineato a proposito delle banche (quando molti contestarono ferocemente – e strumentalmente – la politica di italianità seguita dall’ex governatore Fazio). E vale anche per il trasporto aereo.
Una compagnia straniera operante sul mercato italiano, al momento di creare le necessarie sinergie con aeroporti esteri, potrebbe avere la tendenza a privilegiare questi ultimi: ad esempio, anziché stabilire una rotta diretta Fiumicino–Los Angeles (o Malpensa–Los Angeles), potrebbe scegliere Parigi (Francoforte)–Los Angeles; gli utenti italiani che vogliono andare a Los Angeles, o gli americani che vogliono venire in Italia, dovrebbero passare per l’aeroporto hub di Parigi (Francoforte), collegato agli aeroporti italiani con voli di federaggio. I vantaggi turistici e commerciali per i Paesi dotati di hub sono evidenti.
Oggi, dunque, quelli che irridevano all'italianità delle banche si sono fatti paladini dell'italianità del trasporto aereo. (Un'eccezione, forse, viene dal ministro dell'Economia, Tremonti. Il quale, nella veste di maggior azionista delle compagnia, avrebbe dovuto essere in prima fila nella gestione della vicenda. E invece si è tenuto in disparte.)
Tutto bene, dunque? La spesa sostenuta dallo Stato può ritenersi compensata dalle ricadute economiche che verranno al sistema-Paese dalla presenza di una compagnia di bandiera? Lo sapremo tra cinque anni...
Infatti, per stare sul mercato globale servono compagnie in grado di fare rilevanti economie di scala. Compagnie di grosse dimensioni, o che abbiano accordi di sinergia con altre compagnie. La nuova Alitalia ha dunque la necessità di scegliere un forte partner straniero, che sicuramente entrerà nell’azionariato con una propria quota. Ora che le relazioni industriali sono mutate, e i sindacati interni hanno dovuto accettare di muoversi con una controparte privata, le compagnie estere sono tornate a dimostrare il loro interesse.
Il decreto governativo adottato per l’Alitalia ha posto agli azionisti italiani la condizione di non alienare la loro partecipazione per almeno cinque anni. Ma questa condizione è recepita solo nello statuto di CAI (che potrà essere cambiato al verificarsi di determinate condizioni, come la quotazione in borsa). Fra cinque anni, in ogni caso, potrebbe accadere che imprenditori che non hanno vocazione per questo tipo di attività industriale decidano di vendere la loro quota, realizzare l’eventuale plusvalenza, e lasciare campo libero ad una grande compagnia straniera. Ciò accadrebbe subito dopo le prossime elezioni politiche (il termine dei cinque anni non è casuale), così Berlusconi non potrebbe essere accusato in campagna elettorale di aver sponsorizzato un’italianità rivelatasi insostenibile...
(Nel 2009 abbiamo già assistito al rientro di Air France, con una partecipazione di minoranza - il 25% - che le è costata molto meno di quello che avrebbe speso - in proporzione - con l'offerta iniziale. Non è irrealistica la prospettiva di tornare infine al punto di partenza - il controllo pieno di Air France -, con la semplice differenza di un maggiore esborso dei contribuenti, e di un grande affare fatto da Air France e dagli imprenditori della cordata italiana che avranno ceduto la loro quota...)

Le altre questioni aperte
Abbiamo visto in precedenza il nodo della deroga alle regole della concorrenza sul mercato italiano.
Resta poi aperta la questione se l’hub italiano debba essere Fiumicino o Malpensa. La soluzione più ragionevole, lo abbiamo visto in precedenza, sembra quella di Fiumicino. Ma la Lega Nord (ed anche uno schieramento trasversale espresso dal Nord Italia) preme per Malpensa, e vorrebbe condizionare a questa opzione anche la scelta del partner straniero (si dice che Lufthansa sarebbe più funzionale a questo disegno, perché potrebbe dirottare su Malpensa alcuni dei voli intercontinentali attivi su Francoforte).
Chi non condivide queste pressioni denuncia che si comincia male: la politica esce dalla porta e rientra dalla finestra. C’è inoltre il timore che un interesse di parte, non supportato dal mercato, possa in futuro creare una nuova crisi ad una compagna salvata con tanto dispendio di denaro pubblico.
(L'ingresso di Air France fa parlare di una vittoria di Fiumicino. Ma la nuova Alitalia afferma di volre puntare anche su Malpensa, a condizione di un ridimensionamento di Linate. La vera battaglia, insomma, sembra vedere schierata Malpensa contro Linate e gli altri aeroporti del Nord).
Lascia molti dubbi anche la scelta, inserita nel nuovo piano industriale, di operare prevalentemente sul medio e corto raggio: proprio i settori dove la concorrenza delle compagnie low cost e della ferrovia ad alta velocità è più forte. Il che lascia presagire l’inevitabile destino di compagnia satellite del partner estero.
Infine, c’è da attendere il responso dell’Unione Europea. Le regole dell’Unione vietano gli aiuti di Stato, perché alterano la concorrenza, e quindi gli interessi dei consumatori e degli operatori che stanno sul mercato con le proprie forze (molte compagnie estere hanno già levato le loro lamentele). Diciamolo con franchezza: l’Italia queste regole le ha clamorosamente violate.
Ma probabilmente prevarrà la ragion politica, e sarà concessa una deroga, come in passato è stata concessa ad altri grandi Paesi che non hanno più scrupoli del nostro nel curare i proprî interessi.
Anzi, proprio la vicenda Alitalia spiega, secondo molti, la scelta effettuata dal governo Berlusconi per il nuovo Commissario europeo che doveva sostituire Frattini (diventato ministro): Tajani alla Direzione Generale dei Trasporti (mentre Frattini era Commissario alla Giustizia, Libertà, e Sicurezza).
(Alla fine la deroga è stata concessa, come volevasi dimostrare, purché vi fosse "discontinuità" tra la vecchia e la nuova compagnia!?)

Quali ricadute avrà la vicenda Alitalia sul sistema industriale italiano?
Colaninno ha trionfalisticamente affermato che il nuovo contratto tra compagnia e dipendenti può fare da apripista nelle relazioni industriali del nostro Paese (proprio in questo periodo sindacati e Confindustria stanno trattando sul rinnovo del modello contrattuale nazionale).
Il contratto Alitalia ha alcuni meriti importanti: legare la retribuzione alla produttività individuale; eliminare i privilegi di alcuni lavoratori (leggi piloti e assistenti di volo) rispetto ad altri della stessa società; eliminare il potere di gestione e di indirizzo che alcuni sindacati interni avevano ottenuto; far partecipare i lavoratori alla produttività collettiva, distribuendo ai dipendenti il 7% degli utili che dovessero maturare.
Si tratta di principî che meritano sicuramente di essere applicati a livello più generale, per rilanciare l’economia italiana.
Nella fase delle nuove assunzioni sono stati però segnalati numerosi abusi, come la penalizzazione delle donne in età di maternità, o del personale che gode di permessi per motivi di salute o l'assistenza a familiari invalidi.
E questi non non sono certo comportamenti che meritano di essere esportati...

P.S.: C.V.D. (come volevasi dimostrare): gennaio 2013, in prossimità della campagna elettorale per le politiche (quindi poco prima di quanto preventivato da Berlusconi) riesplode la crisi di Alitalia, bisognosa di un nuovo salvataggio...