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mercoledì 16 febbraio 2022

Mani pulite, Colombo e Davigo. “La guerra l’han vinta i corrotti, non noi…” - Gianni Barbacetto e Peter Gomez

 

Trent’anni fa iniziava alla Procura di Milano un’inchiesta giudiziaria che poi fu chiamata Mani pulite. La ricordiamo insieme a due protagonisti, allora pm del pool insieme ad Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo.

Prima di Mani pulite, negli anni 80, a Milano furono iniziate molte indagini sulla corruzione. Perché non arrivarono a risultati significativi? 

Colombo: Perché le indagini cominciavano a Milano e poi la Cassazione stabiliva che dovessero andare a Roma, perché la Procura di Roma sollevava conflitto di competenza. A Roma finivano nel niente. Così morivano inchieste che avrebbero portato ineludibilmente a scoprire il sistema della corruzione con una decina di anni di anticipo.

Ci sono degli esempi che ci potete fare?  

Colombo: Il 17 marzo del 1981, con il collega Giuliano Turone abbiamo scoperto le carte della P2. Oltre alle liste, c’erano anche oltre trenta buste sigillate da Licio Gelli, ognuna delle quali conteneva una notizia di reato. Una riguardava il Conto Protezione, un un passaggio di soldi dal Banco Ambrosiano al Psi di Bettino Craxi. Abbiamo fatto una rogatoria in Svizzera per avere i dati di quel conto. Poi l’inchiesta è passata come al solito a Roma. Ebbene, il giudice istruttore di Lugano che si chiamava Luisoni ci disse: “Noi le carte del conto Protezione le abbiamo pronte, ma a Roma non le vogliono”. Noi due giudici istruttori avevamo anche chiesto al procuratore della Repubblica di Milano di fare un comunicato per bloccare le fughe di notizie sulla P2. Il procuratore ci ha risposto che avremmo dovuto restituire a Gelli le carte sequestrate. Poi nel 1992, quando viene arrestata una persona molto vicina a Bettino Craxi, Silvano Larini, questi ci racconta finalmente che su quel suo conto svizzero erano arrivati 7 milioni di dollari dell’Ambrosiano destinati al Psi di Craxi. Altro esempio: 1984, indagini sui fondi neri dell’Iri. Erano 360 miliardi di lire, 4 miliardi di euro. Anche in quel caso, la Cassazione manda l’inchiesta a Roma e tutto si ferma.

Invece il 17 febbraio 1992 Antonio Di Pietro fa arrestare Mario Chiesa, mentre sta intascando una piccola tangente da 7 milioni e mezzo di lire. E inizia Mani pulite. Le inchieste, questa volta, non si fermano.

Davigo: L’inchiesta decolla subito per un paio di motivi. Il primo. All’inizio, Chiesa non parla, ma poi Di Pietro viene a sapere, dalla causa di separazione di Chiesa dalla moglie, di alcuni suoi conti in Svizzera con nomi di acque minerali e chiede per rogatoria il loro sequestro. Poi dice al suo avvocato: “Dica al suo cliente che l’acqua minerale è finita”. L’avvocato non capiva, ma Di Pietro: “Vedrà che lui capirà”. Il secondo motivo. Craxi, il segretario del Psi a cui Chiesa apparteneva, dichiara che proprio in prossimità delle elezioni lui si trovava in difficoltà per colpa di un “isolato mariuolo”. Chiesa si è sentito scaricato. E ha cominciato a parlare. Ha raccontato di otto imprenditori che gli avevano pagato tangenti.

Questi a loro volta parlano e raccontano molti altri episodi. L’inchiesta si espande fino a coinvolgere migliaia di persone. Ma come si spiega il fatto che gli imprenditori questa volta parlano, mentre in precedenza negavano tutto?

Davigo: Si spiega con il fatto che fino a quel momento gli imprenditori erano riusciti tranquillamente a trasferire il costo delle tangenti sulla Pubblica amministrazione, attraverso la revisione prezzi e le varianti in corso d’opera. Dal 1991 c’è una stretta di bilancio imposta dal governo, quindi improvvisamente i costi delle tangenti vanno a incidere non più sul costo delle opere ma sul profitto degli imprenditori, che cominciano a sentirsi concussi. Una bugia colossale su cui i difensori hanno marciato per anni.

Ci spieghi che cos’è la concussione e perché la considera una colossale bugia.

Davigo: La concussione è quando un imprenditore è costretto o indotto a pagare da un politico o da un amministratore, in una situazione di inferiorità rispetto al pubblico ufficiale. Nella realtà non è quasi mai così. Basti pensare che le tangenti erano pagate con somme in nero accantonate prima che arrivasse la richiesta: sarebbe come se uno uscendo di casa si portasse un po’ di soldi, in caso gli capitasse di essere rapinato. Invece le tangenti erano pagate in accordo tra politico e imprenditore e ad essere gonfiato era il costo delle opere pubbliche. Dopo Mani pulite, per esempio, i costi di Malpensa 2000 e della linea 3 della metropolitana al chilometro si sono quasi dimezzati.

Dopo qualche tempo, il procuratore Francesco Saverio Borrelli affianca, a Di Pietro, Colombo e poi Davigo.

Davigo: Andò così: io avevo una settimana di ferie arretrate da fare e prima di partire andai a salutare Gerardo D’Ambrosio, il procuratore aggiunto, che mi disse: “Già che va in vacanza, portati questi verbali da studiare perché il procuratore Borrelli e io abbiamo pensato di affiancare anche te a Gherardo e Antonio Di Pietro”. Io non volevo, perché desideravo trasferirmi in Corte d’appello e quando lessi quei verbali avevo capito che sarebbe deflagrato l’effetto domino. “Se metto le mani in questa roba qui, devo stare minimo altri cinque anni in Procura”. E sono stato ottimista. Ma poi, l’ultimo giorno delle mie ferie, ci fu la strage di Capaci. Allora mi vergognai anche solo di aver pensato di dire di no e quindi quando rientrai dissi: faccio quello che devo fare.

Colombo: Maggio 1992: è il mese dell’attentato a Giovanni Falcone. Quel giorno, il 23 maggio, ero al carcere di San Vittore e stavo interrogando il presidente di un ente in cui i soldi delle tangenti, fiumi di denaro, andavano a tutti i membri del consiglio d’amministrazione che rappresentavano tutti i partiti, esclusi il Movimento sociale italiano da una parte e Democrazia proletaria dall’altra. All’uscita da San Vittore, un agente della polizia penitenziaria mi ha detto dell’attentato a Falcone. Quella sera avevo una cena con alcuni amici, tra cui Turone: non abbiamo scambiato una parola per tutta la sera.

A un certo punto vi rendete conto che le indagini diventavano vastissime e che la risposta non poteva essere solo giudiziaria. 

Colombo: A luglio 1992 avanziamo la proposta che poi è stata impropriamente chiamata di “condono”: non va in carcere chi si presenta, racconta come sono andate le cose, restituisce tutto ciò di cui si è appropriato illecitamente e si allontana per qualche anno dalla vita pubblica. Era una soluzione tendente a far emergere tutto perché era impossibile gestire tutti quei processi. La proposta non è passata. Il Parlamento ha cominciato invece a fare leggi che riducevano i reati, che toglievano valore ad alcuni mezzi di prova, che dimezzavano la prescrizione. È andata a finire che adesso la vulgata sostiene che Mani pulite è stata una specie di invenzione, che la corruzione non c’era, che abbiamo messo in prigione gli innocenti e fatto una specie di colpo di Stato.

Davigo: Quella proposta di “condono” io la interpreto in questo senso: neppure uno Stato solido poteva reggere per anni alla scoperta di malefatte della classe dirigente pubblica e privata, politici e imprenditori, figurarsi uno Stato malandato come il nostro in quel momento. Allora, dicevo, bisogna fare presto e chiuderla lì, usando un ragionamento che abbiamo sempre fatto: chi racconta tutto diventa inidoneo a commettere di nuovo questi reati perché si rende inaffidabile al sistema.

Colombo: Eravamo un po’ ingenui: proprio per questo non l’hanno fatto.

Davigo: Ne uscì infatti solo un progetto di riduzione di pena che per carità, piuttosto che niente è sempre meglio piuttosto… Il presidente del Consiglio dell’epoca (Giuliano Amato) ci mandò un suo incaricato – perlomeno ci disse di venire a nome del presidente del Consiglio – e ci chiese che cosa volevamo proporre. Quando glielo spiegammo, ci disse: “Ma siete matti? Così li prenderete tutti”. Mi caddero le braccia perché io ero ancora convinto che i vari poteri dello Stato fossero concordi nel voler far rispettare a tutti la legge e cercare una via d’uscita che conciliasse il rispetto della legge con il non sfasciare tutto. Invece ci fu il decreto Biondi che era una cosa indegna sotto il profilo etico perché ci imponeva di scarcerare i colletti bianchi, una plateale e brutale violazione dell’articolo 3 della Costituzione.

Andaste davanti alle telecamere a dire che vi sareste dimessi. Questo vi è ancora rimproverato come una forte intromissione nella politica.

Davigo: Noi abbiamo applicato quel decreto e abbiamo chiesto al giudice di scarcerare gli indagati, però abbiamo detto che non lo volevamo più fare perché ci ripugnava moralmente. Poi il governo ha ritenuto di non chiedere la conferma in Parlamento di quel decreto legge, che è decaduto. Quindi ammonire qualche volta serve.

Una delle accuse che più spesso vi è stata rivolta è che avete salvato il Partito comunista.

Davigo: A livello locale, a Milano, il Pci si finanziava come gli altri partiti. A livello nazionale, le imprese normali finanziavano i partiti della maggioranza, mentre le cooperative cosiddette “rosse” finanziavano il Pci. Intendiamoci, dare soldi ai partiti non è vietato, è vietato farlo di nascosto. Le cooperative mettevano a bilancio perlomeno una parte dei soldi che davano al partito, quindi non c’era una pista immediatamente illegale da seguire. Però ci è accaduto di raccogliere dichiarazioni come quella su una valigetta di soldi portata da Raul Gardini a Botteghe Oscure, sede del Pci, poi Pds e poi Ds. Ma nessuno ce l’ha confermato. Anche Primo Greganti, che lavorava per il Pci, ha preso certamente soldi, ma ha detto di averli tenuti lui. Che cosa potevamo fare? Torturare i testimoni? Questo vogliono quei bei garantisti che ci criticano?

Colombo: Nel sistema della metropolitana milanese, il Pci era coinvolto esattamente come gli altri partiti, anzi era un esponente del Partito comunista che prendeva i soldi e poi li distribuiva. E il sistema delle percentuali fa riflettere: al Partito socialista andava il 37,5% delle tangenti, alla Democrazia Cristiana e all’ex Partito comunista andava la metà di quella percentuale, poi l’11% ai socialdemocratici e il resto al Partito repubblicano. Pensate quanto ragionamento c’è dietro il fatto che a Pci e Dc andasse una somma con due decimali.

Davigo: A chi dice che noi con Mani pulite abbiamo fatto danni e ora qui rubano come prima, ricordo una barzelletta. Durante il fascismo venne inventata la guerra alle mosche e alle zanzare. Un prefetto andò in visita in un piccolo comune dove c’era il podestà ad accoglierlo, ma quando scese dall’auto venne assalito da un nugolo di mosche. Allora disse al podestà: “Ma in questo comune non avete fatto la guerra alle mosche?” E quello rispose: “Sì eccellenza, ma hanno vinto le mosche”.

Nel 1992 e ’93 c’era un clima di sostegno a voi magistrati. Avevate dei veri e propri fan. 

Colombo: Io credo che per il magistrato siano sempre da preferire i fischi agli applausi, perché i fischi tengono alta la soglia dell’attenzione per non sbagliare. A me poi non fanno né caldo né freddo né gli applausi né i fischi. A Davigo invece piacciono i fischi.

Davigo: Oggi, dopo Mani pulite, nessuno può più dire in buona fede che la corruzione non esista. Può al massimo dire: “C’è, però ci piace così”. La questione non è di poco momento perché adesso è in atto un tentativo di restaurazione. Siccome arrivano i soldi del Pnrr dell’Unione europea, sono tutti entusiasti. Immagino che allargandosi di nuovo la torta si possa ricominciare a rubare alla grande. Peccato che siano in larga misura prestiti che bisognerà restituire e quindi, quando la festa finirà, se verrà ripristinato un sistema di corruzione diffusa come quello scoperto da Mani pulite, il risultato finale sarà che ci sarà un’altra catastrofe come quella del 1992. Perché le restaurazioni non durano mai all’infinito.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/02/16/manipulite-colombo-e-davigo-la-guerra-lhan-vinta-i-corrotti-non-noi/6495374/

giovedì 24 settembre 2020

Conte unico vincitore. E occhio ai 209 miliardi. - Massimo Fini


Tutti i principali media e i loro commentatori riconoscono, alcuni obtorto collo, che l’unico, vero vincitore di questa doppia tornata elettorale (referendum più Regionali e Comunali) è, per la disperazione della Trimurti (Giornale, Verità, Libero), il disprezzatissimo “Giuseppi”, vale a dire il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e con lui il suo governo giallorosa che, a dispetto di tutti gli aruspici malauguranti, finirà regolarmente la legislatura.

Ma c’è un altro partito, che esiste da decenni in Italia, ma di cui prudentemente si parla poco o preferibilmente nulla, che esce vincitore da queste elezioni ed è il più forte di tutti: il partito degli astenuti. Prendiamo il referendum. Il quesito era semplice e tale da attizzare l’attenzione dei cittadini: mandare a casa, per la prossima legislatura, un bel numero di deputati e senatori. L’affluenza è stata del 53,84%, 12 punti in meno rispetto al referendum del 2016 (65,47%) che pur poneva questioni molto più complesse. L’affluenza alle Regionali di quest’anno (57,19%) è superiore a quella delle Regionali del 2015 (53,15%), ma si avvale del balzo dell’affluenza in Toscana (quasi 3 milioni aventi diritto al voto) dove quest’anno si giocava la partita decisiva per la tenuta del governo del Paese. Nel 2015 quando questo problema non esisteva andò a votare solo il 48,3% mentre questa volta si è arrivati al 62,6%. Interessante è l’alta affluenza, sia pur sempre in termini relativi, alle elezioni comunali dove ci si attesta al 66,19% confermando, con un lieve margine di aumento, il dato del 2015. E si capisce il perché. Il voto nei Comuni e soprattutto nei piccoli Comuni è l’unico autenticamente democratico perché il sindaco è permanentemente sotto il controllo dei concittadini, poiché vive fianco a fianco con loro. Come esce di casa c’è sempre qualcuno che gli può contestare ciò che ha fatto o piuttosto non ha fatto.

Il partito degli astensionisti è contro la politica in generale? Non credo. È contro la democrazia parlamentare? Forse. Sicuramente è contro una democrazia trasformatasi da decenni in partitocrazia, cioè in strapotere del tutto illegittimo di queste lobby di cui la nostra Costituzione si occupa in un solo articolo, il 49 (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”) e che invece ha finito per occupare abusivamente gli altri 138, infiltrandosi nel Csm, nella Magistratura ordinaria, nella burocrazia, nelle Forze Armate, nell’industria pubblica e anche privata, negli enti di Stato e di parastato (la Rai-tv è solo l’esempio più noto e clamoroso), nei giornali, negli enti culturali, nei teatri, nei conservatori, nelle mostre, nelle banche, nelle grandi compagnie di assicurazione, nelle università, giù giù fino ai vigili urbani e agli spazzini.

Questa avversione nei confronti dei partiti è confermata anche da chi in questa tornata a votare ci è andato turandosi montanellianamente il naso. Tutti i partiti, dal Pd alla Lega ai Cinque Stelle a Forza Italia, hanno perso, solo il partito di Giorgia Meloni ha guadagnato in consensi. Prendiamo la Toscana: il Pd ha perso 12 punti, è stato salvato dalle cosiddette liste civiche cioè da cittadini che al Pd non credono più affatto, ma non si sentivano di consegnare quella regione e forse il Paese a Matteo Salvini. Non è stato quindi un voto a favore, ma un voto contro.

Mai come in questa occasione si è potuto osservare come la democrazia partitocratica sia fatta di accordi e accordicchi in funzione del proprio potere personale o di lobby senza alcuno sguardo all’interesse nazionale. L’esecutivo Conte, che ha governato bene, si è salvato perché i partiti si sono paralizzati a vicenda. Poi ci sono naturalmente le eccezioni, il governatore del Veneto Zaia è stato riconfermato perché evidentemente ha governato bene soprattutto durante l’emergenza Covid e quello della Liguria Toti per lo stesso motivo e anche perché, coadiuvato dal sindaco di Genova Marco Bucci, ha affrontato con efficacia le conseguenze del crollo del ponte Morandi che noi “stranieri” abbiamo sempre chiamato il “ponte sul Polcevera” e i genovesi “ponte Saragat” perché fu inaugurato dall’allora presidente della Repubblica e che ora si chiamerà ponte San Giorgio. E questo apre uno spiraglio di speranza per il nostro futuro che però dipende molto, almeno nell’immediato, da come verranno utilizzati i 209 miliardi che l’Europa, l’inutile Europa secondo i cretini “sovranisti”, ci ha generosamente concesso: se cioè finiranno nelle fauci dei soliti noti che le hanno già aperte o verranno distribuiti con intelligenza e soprattutto equità sociale.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/23/conte-unico-vincitore-e-occhio-ai-209-miliardi/5940736/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=commenti&utm_term=2020-09-23

Ce la pagherete. - Marco Travaglio

 












Non capire come voterà il Paese è umano. Ma non capire come ha votato il Paese è diabolico. Eppure ci riescono in tanti. Lasciamo perdere gli opinionisti, che capiscono benissimo ma devono scrivere l’opposto per contratto. Ma i politici sul voto degli elettori dovrebbero costruire il loro futuro. Cos’hanno detto gli elettori? Intanto che i parlamentari sono troppi, in perfetta quanto rara sintonia col Parlamento che aveva approvato – pur obtorto collo, su pressione e per paura dei 5Stelle – quella riforma col 98%. Quindi, se quella riforma era populista, ha stravinto il populismo e tutte le analisi sulla fine o sul calo del populismo sono baggianate. Ora, che chi puntava al No finga di non accorgersene, passi. Ma che non se ne accorga chi puntava al Sì è deprimente. Per questo l’uscita di Di Battista che frigna per “la più grande sconfitta M5S di sempre”, è suicida sia nei tempi sia nei contenuti. Nei tempi, perché il referendum è stato una delle più grandi vittorie M5S di sempre e andava festeggiato almeno per un paio di giorni, anziché fare gné gné a Di Maio e agli altri che, diversamente da Dibba, si sono spesi nella campagna del Sì. Nei contenuti, perché le Regionali i 5Stelle le perdono sempre, da quando sono nati, anche quando vincevano le Politiche nel 2013 e le stravincevano nel ’18 e intanto venivano battuti in Sicilia e Lazio.

Le Regionali, per quanto appaia bizzarro, decidono chi governa le singole Regioni, così come le Comunali i Comuni. Gli elettori votano per i candidati presidenti o sindaci, non per il governo o per i segretari di partito. E sommare i voti di lista nelle Regioni e nei Comuni per stabilire chi ha vinto su scala nazionale è come sommare i fichi e le patate. Si può al massimo stabilire chi ha perso, in base alle dichiarazioni della vigilia. Se Salvini puntava al 7-0, è ovvio che ha perso: è finita 3-4. Se l’altro Matteo mirava a far vincere Giani e far perdere Emiliano e Sansa, è ovvio che ha perso: Giani ha vinto per 8 punti e Iv ha preso il 4,5; Emiliano ha vinto nonostante Iv e Sansa avrebbe perso anche con Iv. Di vincitori nazionali c’è solo la Meloni, che ha strappato le Marche con un fedelissimo e ha aumentato i voti dappertutto. Tutti gli altri hanno perso voti. Anche Zingaretti: ha salvato Toscana, Puglia e segreteria, ma oltre alle Marche ha perso terreno in Liguria, Toscana e Veneto. I veri vincitori sono i cosiddetti “governatori”, trainati dall’effetto Covid e dal populismo trasformista da “cacicchi” che ne fa delle star locali, non nazionali e sganciate dai partiti: Zaia, Toti (anche per il dopo-Morandi), De Luca, Emiliano. Successi personali più che partitici. De Luca aveva 5 liste dei più vari colori.

Emiliano addirittura 15, dall’estrema sinistra alla destra. Zaia la sua, che ha svuotato la Lega. In più, quasi dappertutto, è scattato il soccorso grillino per tre fattori: la fiducia in chi ha gestito la pandemia; il voto utile, disgiunto o diretto, al male minore; la corsa sul carro del vincitore. Come si fa a non capire che gli stessi elettori, in un’elezione nazionale col proporzionale, avrebbero votato in modo totalmente diverso dalle Regionali col maggioritario a turno secco e dalle Comunali col doppio turno? Chi fa un altro mestiere non deve studiare le leggi elettorali, ma per chi fa politica è proprio il minimo. Col proporzionale (Politiche), ciascuno va per conto suo e le alleanze si fanno dopo le elezioni. Col maggioritario a doppio turno (Comuni), si corre da soli e le alleanze si fanno tra il primo e il secondo turno (e, se non i partiti, le fanno gli elettori). Col maggioritario a turno secco (Regionali), le alleanze si fanno prima del voto (e, se non i partiti, le fanno gli elettori delle forze sfavorite scegliendo il meno distante dei due favoriti).
Perciò Emiliano e De Luca hanno avuto molti voti grillini, ma anche forzisti e leghisti: tutta gente che alle Politiche tornerà all’ovile. Come i grillini che han votato Giani. E i veneti della lista Zaia, alle Politiche, voteranno quasi tutti Lega. Ecco perché la vittoria dei presidenti Pd non è di Zingaretti, se non per averlo aiutato a sventare la manovra dei poteri forti per rimpiazzarlo con Bonaccini, rovesciare Conte, scaricare il M5S e tentare l’ennesimo inciucio con quel che resta di FI e pezzi di Lega. Emiliano e Giani l’hanno capito: Zinga&C. pare di no. Infatti, consigliati da Repubblica e dai “padri nobili” che non ne azzeccano una, avanzano pretese bizzarre o ideologiche: il Mes (di cui non si parla da nessuna parte in Europa, neppure più a Cipro), lo Ius Soli (non proprio in cima ai pensieri degli italiani, e nemmeno degli stranieri) e i decreti Sicurezza (dove basta qualche ritocco sulla linea Mattarella, senza tanti strepiti). Del resto, se anche il Pd avesse vinto, gli elettori l’avrebbero premiato per il governo giallorosa che, anziché perdersi in quelle fumisterie, s’è occupato di cose più urgenti e vitali: Covid, tre manovre da 100 miliardi, bonus ai più deboli, Recovery Fund. E ora, si spera, una legge elettorale senza più liste bloccate, su cui il Fatto lancia oggi una petizione di costituzionalisti del Sì e del No da firmare sul sito. Qualcuno ha detto che il nostro appello a “turarsi il naso”, in Puglia e Toscana, è servito come quello di Montanelli nel 1976: ne siamo felici. Ma quella volta, subito dopo il voto, il grande Indro inviò un telegramma alla Dc che cantava vittoria: “Vi abbiamo votato, ma ce la pagherete”

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/24/ce-la-pagherete/5941917/