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giovedì 30 giugno 2016

Revisori e controllori, in Italia sono 170mila. Ma tra tangenti e crac, nel 2015 solo 7 depennati da elenchi dei ministeri. - Thomas Mackinson

Revisori e controllori, in Italia sono 170mila. Ma tra tangenti e crac, nel 2015 solo 7 depennati da elenchi dei ministeri

Un esercito di avvocati, commercialisti e notai è retribuito per vigilare sulla correttezza dei conti in enti pubblici e privati. Negli elenchi tenuti dai dicasteri dell'Economia e della Giustizia, in un anno solo una manciata di loro è stata "punita" in seguito a condanne e interdizioni. Nonostante i tanti casi di cronaca che evidenziano buchi nella sorveglianza. Il difetto del sistema: sono i controllati a scegliere e retribuire i controllori.

L’Italia malata di corruzione campa su un singolare paradosso: insieme a quello del malaffare, detiene anche il record dei “controllori”. Sparsi per lo Stivale ci sono ben 153mila revisori legali e 17mila controllori dei conti degli enti locali, tutti abilitati al ruolo in appositi registri detenuti dal ministero dell’Economia e da quello della Giustizia. Questo non piccolo esercito di commercialisti, avvocati e notai vigila per legge sul rispetto delle procedure e la corretta redazione del bilancio di esercizio delle società pubbliche, ma entra in azione anche nelle srl e nelle società per azioni, dove il controllo può essere attribuito al collegio sindacale solo a condizione che al suo interno ci sia almeno un revisore legale abilitato. Insomma, i controllori sono dappertutto e possono pretendere ogni atto amministrativo e contabile della società che controllano, fino all’ultima fattura. Potrebbero dunque essere l’antidoto naturale a scandali e sprechi prima che si si muova la magistratura o la Corte dei Conti, ma lo fanno davvero?
Partiamo da un dato. Nel 2015 su 153.816 revisori legali solo sette sono stati cancellati a seguito di condanne o interdizioni dall’apposito registro professionale presso il Ministero dell’Economia e Finanze. Uno ogni 21.428 iscritti, lo 0,0046% del totale. Un numero infinitamente piccolo rispetto agli scandali e alle inchieste degli ultimi anni, dal Mose all’Atac, passando per Expo e Mafia Capitale. Dov’erano i controllori? È evidente che le guardie non rincorrono i ladri e a volte si adoperano per coprire anziché scoprire le loro malefatte. Tanto nessuno li controlla, quasi mai qualcuno li punisce.
Banca Etruria, buco da un miliardo. Ma il bilancio era "veritiero".
Esempio recente, tra i mille: Banca Etruria e il suo buco da un miliardo. La voragine salta fuori quando le sofferenze sono già state scaricate sugli incolpevoli risparmiatori. Dov’erano i revisori legali? Negli anni in cui l’istituto fiorentino collassava, tra il 2009 e il 2015, certificavano che “i bilanci  rappresentano in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale, finanziaria e il risultato economico”. La firma era di tal Alessandro Parrini, partner di PricewaterhouseCoopers (Price) che sfornava relazioni senza rilievi e incassava dalla banca assegni sempre più generosi, fino al milione di euro. Ancora peggio hanno fatto i revisori di Banca Marche: l’istituto era già schiantato sotto una montagna di sofferenze non stimate e non correttamente contabilizzate, ma le relazioni restituivano agli investitori un quadro sereno dei conti. Si scoprirà poi che chi le firmava, Fabrizio Piva, era stato già multato da Bankitalia per “omesse comunicazioni all’organo di vigilanza” come revisore di Banca Esperia. Per questi professionisti s’ipotizza ora una chiamata in concorso con gli amministratori. E proprio qui sta uno dei punti deboli del sistema di controllo: chi sbaglia, prima o poi, paga?
I bilanci rappresentano in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale”. Poi Etruria fa crac.
Partiamo dagli sbagli. Più che a “distrazioni” o scarse capacità sono da imputare al congenito conflitto d’interesse che espone i controllori a “sintonie sospette”: a nominarli, infatti, è direttamente il controllato che ne stabilisce pure i compensi. Questo vincolo li espone a pressioni volte a blandirne, condizionarne e modificarne i giudizi fino a comprometterne del tutto l’imparzialità e la veridicità. Il legislatore è ben consapevole di questo rischio, tanto da punire l’impedito controllo, ma lo tratta come un pericolo astratto e ben si guarda dal risolverlo alla radice, prevedendo ad esempio incarichi attribuiti per sorteggio, come avviene per i loro “cugini poveri”.                                                                    
NEL PUBBLICO, COMPENSI TAGLIATI. E CHI DENUNCIA E' UNA MOSCA BIANCA 
Eh sì, perché ci sono anche i 17.117 revisori dei conti degli enti locali (7.362), iscritti nell’apposito registro del Ministero dell’Interno, i cui requisiti di onorabilità vengono autocertificati al momento dell’iscrizione e decadono solo se l’ordine d’appartenenza li cancella e lo comunica, cosa non scontata. Il loro tallone d’Achille? La fame. Lo Stato dovrebbe remunerarli il giusto per incentivarli a un controllo serrato ma fa l’esatto contrario: li remunera secondo massimi tabellari da 2mila a 17mila euro l’anno (lordi) secondo la consistenza demografica degli enti da controllare. Nel 2010 i loro compensi sono stati pure ridotti del 10% per essere poi aggiornati trimestralmente per decreto: il decreto, sei anni dopo, non è ancora arrivato. In queste condizioni quanti si improvvisano paladini della legalità a tutti i costi? Quanti sono disposti a ingaggiare irriducibili scontri con i vertici politico-amministrativi degli enti, contestando i loro atti e le loro decisioni?
Spulciando bandi e gare ho fatto il mio dovere”. Così Giovanna Ceribelli ha dato il via all’inchiesta su Lady Dentiera
E qui s’impone il tema dei controllori fuori controllo. Le norme che regolano le due categorie di revisori fanno molto affidamento sulla “diligenza” dei professionisti che attiene però alla sfera soggettiva dei singoli. Idem per l’analiticità e la profondità del controllo da eseguire, definiti in modo tanto ampio quanto generico. Così il controllore, a seconda dei casi, può rappresentare una spina nel fianco oppure un fiancheggiatore che per interesse o debolezza fa da paravento ai disonesti. Sempre revisori sono. Valga, per tutti, il monito di Giovanna Ceribelli, la tenace sindaca del collegio di vigilanza dell’Ospedale di Desio-Vimercate che ha fatto deflagrare lo scandalo di Lady Dentiera in Lombardia: “Spulciando bandi e gare ho fatto il mio dovere – diceva al fattoquotidiano.it – ma a sindaci e revisori dico: non fatevi condizionare, intimorire, blandire ma denunciate”.
IL CASO VENUTI. ARRESTATO PER IL MOSE, CONTROLLORE DI PADOVA FIERE
L’Ordine dei commercialisti, come si conviene, difende la categoria ricordando che “i revisori possono essere comunque chiamati rispondere in solido agli amministratori delle società che devono controllare”. Il nostro dato di partenza dice però che questo accade assai di rado e non mancano casi di controllori che restano in lizza anche quando vengano accertate a loro carico “condotte contrarie ai doveri d’ufficio”.
La commissione ministeriale conferma all’unanimità l’incarico. Al fiscalista che aveva patteggiato due anni.
Ecco un esempio. Era un fiscalista di grido, gran collezionista di incarichi in società pubbliche e private del Veneto nonché commercialista di fiducia dell’ex governatore Galan. Due anni fa Paolo Venuti, padovano del ‘57, viene arrestato per lo scandalo del Mose. I finanzieri del Gico lo bloccano all’aeroporto di Venezia. In mano, una valigetta zeppa di contratti di compravendite societarie e operazioni commerciali dell’ordine di 50 milioni di euro, prevalentemente diretti in Indonesia, dove il Fisco italiano non ha cittadinanza. Venuti uscì dall’inchiesta patteggiando due anni e 700mila euro. Ammise d’aver fatto da prestanome per l’ex ministro. Ma non ha cambiato mestiere. Nonostante quella vicenda il suo nome è rimasto nel libro mastro dei revisori legali tenuto al Mef. E infatti, un anno dopo il patteggiamento, Venuti sarà riconfermato come presidente del collegio dei revisori di PadovaFiere, spa a maggioranza pubblica. Rimase in carica tre mesi, finché dovette rinunciare “sponta​nea​mente” all’incarico per porre fine a comprensibili polemiche. La sua conferma era stata però all’unanimità e la commissione ministeriale che vigila sui requisiti e l’idoneità dei professionisti iscritti al Registro dei revisori non aveva fatto una piega.
LA RIFORMA POSSIBILE: ESTRARLI A SORTE. MA NESSUNO LA PROPONE 
Tutto normale. Si scopre così che perfino i “controllori-dei-controllori” non controllano, che al ministero delle Finanze la mano destra che verifica i requisiti di idoneità dei revisori non sa cosa fa la mano sinistra che li arresta. Epilogo: a ottobre dell’anno scorso Venuti è stato sospeso dall’ordine dei Commercialisti, colto da un tardivo sussulto e non potrà esercit​are fino al 2017. Incredibilmente, però, il suo nome è ancora oggi nel registro dei revisori legali con la dicitura “attivo”. Come nulla fosse successo. “Una cosa gravissima”, commenta Lidia D’Alessio, che oltre a fare l’assessore al Bilancio di De Luca in Campania è una stimata docente di economia aziendale, presidente del collegio dei revisori in diversi consorzi pubblici e componente della commissione centrale presso il Mef che vigila sul registro, o almeno dovrebbe.
Perfino i controllori-dei-controllori non controllano. Nonostante una “dote” da 12 milioni l’anno
La legge che disciplina la professione del revisore prevede espressamente che gli iscritti siano soggetti a un “controllo di qualità da parte del Ministero che lo esercita tramite un’apposita Commissione centrale per il Registro dei revisori tramite ispezioni, richiesta di documenti, assunzione di notizie, verifiche incrociate, audizioni personali dei singoli iscritti”. Dal Mef e dal Viminale fanno però presente che i fondi a disposizione per queste attività sono pochi, compatibili al massimo con iniziative di controllo a campione. Ma è davvero così? Ogni iscritto paga ai due ministeri un contributo obbligatorio di 25 euro l’anno a titolo di copertura delle spese di mantenimento nel relativo registro. Quindi, esiste una “dote” annuale da spendere che solo negli ultimi tre anni, per i soli revisori, ha portato all’Erario ben 12 milioni di euro. Quanto venga speso per l’attività di vigilanza non è dato sapere ma in ogni caso, se non bastano, lo si potrebbe alzare graduandolo in base al reddito professionale dei singoli iscritti, molti dei quali hanno plurimi incarichi con gettoni a molti zeri. Ma è una proposta che converrebbe a tutti (i cittadini) e a nessuno (degli interessati). E infatti nessuno, finora, si è sentito di farla.

sabato 22 febbraio 2014

Governo Renzi auto-rottamato, fatto fuori Gratteri restano solo lobby e gattopardi. - Peter Gomez

Nel 1994 era stato Cesare Previti, l’avvocato degli affari sporchi di Silvio Berlusconi, a entrare al Quirinale come Guardasigilli in pectore e a uscire degradato. Sull’onda dell’indignazione suscitata dalla scoperta di Tangentopoli, il Colle aveva detto no. E Previti era finito alla Difesa. Oggi, nel mondo alla rovescia dei ladri e della Casta, a venir depennato all’ultimo momento dalla lista ministri, è Nicola Gratteri, stimato magistrato antimafia, la cui colpa principale è quella di aver sognato di poter far funzionare la giustizia anche in Italia . Gratteri resterà in Calabria. E per la gioia della ‘ndrangheta, delle consorterie politico-mafiose e dell’Eterno Presidente, Giorgio Napolitano, in via Arenula ci finisce l’ex ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, celebre per aver chiesto l’abolizione dell’ergastolo e proposto l’abrogazione dell’obbligatorietà dell‘azione penale.
È il segno più evidente di come il rottamatore Matteo Renzi prosegua imperterrito nella distruttiva opera di auto-rottamazione e di demolizione del sogno di cambiamento che aveva rappresentato per molti italiani. Una stolta manovra iniziata con il tradimento e il successivo brutale accoltellamento politico del mediocre Enrico Letta, a cui il nuovo premier aveva più volte pubblicamente e bugiardamente assicurato lealtà.
Certo, sull’esclusione all’ultimo minuto di Gratteri in molti vedono le impronte digitali di Napolitano. Il presidente del secondo paese più corrotto d’Europa, noto per aver lesinato solo i moniti in materia di legalità della politica, ovviamente esclude ogni responsabilità. Resta però da spiegare come mai, stando a quello che risulta per certo a Il Fatto Quotidiano, al magistrato fosse stato assicurato il dicastero solo pochi minuti prima della salita di Renzi al Colle. E perché Napolitano, pubblicamente, abbia poi tenuto a precisare – con una sorta di excusatio non petita – che tra lui e Renzi non era avvenuto nessun “braccio di ferro” sulla lista dei ministri.
Nelle prossime ore le notizie su quello che è esattamente accaduto durante il lunghissimo faccia a faccia tra il neopremier e l’ottuagenario capo dello Stato, non mancheranno. Non c’è invece bisogno di retroscena per capire tutto il resto. Bastano i curricula dei ministri più importanti.
Nella lista spiccano i nomi dell’esponente di Confindustria e della Commissione trilaterale, Federica Guidi (Sviluppo economico), quello del presidente della Lega cooperative, Giuliano Poletti, dell’ex delfino di Berlusconi, Angelino Alfano (Interno), e del ciellino Maurizio Lupi (Infrastutture). Mentre all’Economia ci finisce Pier Carlo Padoan, capo economista dell’Ocse e ex presidente della Fondazione italiani europei di Massimo D’Alema, e alle Politiche Agricole, Maurizio Martina, già pupillo di Filippo Penati, l’ex presidente della provincia di Milano sotto processo per le tangenti di Sesto San Giovanni.
Il fatto che Renzi sia riuscito a mettere insieme una squadra formata al 50 per cento da donne, che l’età media dell’esecutivo sia piuttosto bassa, non servirà al premier per cancellare negli elettori la sensazione di trovarsi di fronte a un consiglio dei ministri espressione di quelle lobby da più parti ritenute responsabili del degrado del Paese. È infatti più che ragionevole dubitare che il suo obamiano programma di governo (“una riforma al mese”) possa essere messo in atto da una compagine del genere. Perché questo non è un dream team, ma solo una galleria di errori e orrori.
Così già oggi sappiamo che ha vinto il Gattopardo#lavoltabuona può attendere.

lunedì 11 novembre 2013

Carceri, per gli alimenti prezzi alle stelle ai detenuti. E le ditte fanno affari d’oro. - Chiara Daina

Carceri, per gli alimenti prezzi alle stelle ai detenuti. E le ditte fanno affari d’oro


I quasi 65 mila reclusi nelle carceri della Repubblica italiana possono decidere di sfamarsi in due modi: usufruendo del “carrello” che gli passa lo Stato che paga 2,90 euro per tre pasti oppure facendo la spesa. Ma il costo di una confezione di pasta o di caffè dietro le sbarre è molto più alto della media.

Nelle carceri italiane si fanno affari d’oro. Accade alla luce del sole ogni giorno e riguarda la routine dei pasti quotidiani dietro le sbarre. I quasi 65mila reclusi nelle carceri della Repubblica italiana possono decidere di sfamarsi in due modi: usufruendo del “carrello” che gli passa lo Stato, – colazione, pranzo e cena consegnati direttamente in cella nelle “gavette”, recipienti metallici che ogni detenuto riceve in dotazione al momento dell’arresto – oppure mettendosi ai fornelli, esclusivamente da campeggio.
Nel primo caso, la spesa è a carico del ministero della Giustizia, che stanzia 2,90 euro a testa per tre vitti al giorno. Di solito, la qualità del cibo è quello che è e le dosi non saziano mai abbastanza. Nel secondo caso, è il singolo carcerato a pagare la spesa extra, il cosiddetto “sopravvitto”, attraverso un conto corrente postale intestato all’istituto penitenziario su cui la famiglia ha versato dei soldi di tasca propria. La lista della spesa è già pronta, può variare un minimo con le stagioni (d’estate spuntano gelati e pomodorini), ma in generale non concede ripensamenti: al detenuto basta compilare due volte alla settimana un modulo apposta indicando tra gli alimenti disponibili quelli che gli servono. L’elenco comprende oltre ai beni di prima necessità (dalla pasta alle bombolette del gas, assorbenti e carta igienica), cartoleria, sigarette e giornali. Tutto normale fin qui. Se non fosse che chi sta dietro le sbarre non ha diritto alla scelta come chi va al supermercato: lo spaccio interno, dato in appalto a privati, offre un articolo per ogni genere di prodotto, di solito della marca più cara, e zero possibilità di avvalersi di prezzi scontati, offerte, “tre per due” o alimenti da discount. Tanto il detenuto non può non pagare il conto. O cambiare fornitore. Tanto se si lamenta in cella, nessuno lo ascolta. Solo per citare qualche esempio pescato a caso nei listini prezzi delle nostre carceri, da nord a sud: caffè Lavazza (qualità rossa) a 3.39 euro, 250 grammi di burro a 2,55 euro, una confezione monodose (50 grammi) di marmellata a 70 centesimi, olio di oliva (non extravergine) a 5,50 euro, un chilo di biscotti a 4,15 euro, scatola di tonno Rio mare da 80 grammi a 1,05 euro, Scottex (4 rotoli) a 2,39 euro. I marchi non sono naturalmente responsabili di questi prezzi gonfiati e nei vari istituti il prezzo oscilla solo di qualche centesimo. Rare le eccezioni di merce sottomarca in alternativa a quella griffata. Nella casa di reclusione di Bollate (Milano), fiore all’occhiello del sistema penitenziario italiano, o in quella di Padova, dove nel 2011 i detenuti hanno fatto due settimane di astensione dalla spesa per denunciare il caro prezzi, si trova anche il caffè low cost a 85 centesimi. Lussi per pochi, appunto. 
Lucrare sulla pelle dei detenuti è diventato un gioco da ragazzi. E il via libera arriva direttamente dai piani alti. La ditta che fornisce il vitto è la stessa che ha in mano il servizio di spesa extra e per massimizzare i profitti impone un’offerta limitata a pochissimi marchi, tra i più costosi in commercio. E poco importa se il direttore di un carcere è costretto a mandare indietro camion carichi di frutta e verdura di scarto venduti come merce di prima qualità. “Nessuna azienda è disposta a fornire tre pasti al giorno a meno di tre euro, quindi alla stessa viene affidata anche il sopravvitto perché non lavori in perdita” spiega Alfonso Sabella, a capo della Direzione generale dei beni e servizi del Dap. Va avanti così dal 1920. Risale a quell’anno infatti il Regolamento generale per gli stabilimenti carcerari, che disciplina la prestazione congiunta di fornitura pasti e gestione dello spaccio (articolo 1, capitolato d’appalto). Una manna per le quattordici ditte che si sono aggiudicate entrambi i servizi nelle 206 carceri italiane. In pratica, un oligopolio con guadagno doppio e assicurato.
La Saep spa, per esempio, da anni gestisce gli spacci interni di 26 carceri italiane (di cui otto in Lombardia) e nel 2010 ha registrato oltre 4 milioni di utili. È una delle tredici società controllate dalla Tarricone holding srl, con sede a Balvano in provincia di Potenza e un giro d’affari niente di meno che nel gioco d’azzardo: gestisce due sale bingo (Gioco 2000 e Medusa), una piattaforma telematica per il poker online (Poker mondial network) e la raccolta di scommesse sportive e ippiche (Betflag). Un bel pacchetto di licenze garantito dalla nostra Repubblica. Poi c’è la Arturo Berselli & c. spa, con sede a Milano, che vince appalti dal 1930. È attiva in 20 istituti e nel 2012 ha fatto utili per oltre un milione e mezzo di euro. Altra presenza storica è Claudio Landucci, titolare della ditta omonima, alle spalle una carriera a capo dell’Associazione nazionale appaltatori degli istituti di pena (Anafip), e oggi attivo in sedici prigioni dello Stivale.  
C’è di più. Per volontà del ministero della Giustizia, gli appalti delle forniture di vitto devono essere effettuati limitando l’ammissione alla gara “alle sole ditte che nel triennio precedente abbiano regolarmente svolto rapporti analoghi con enti pubblici”. Una condizione che non piace all’Antitrust, che il 17 giugno 2005 con una segnalazione al ministero ha chiesto di tenere conto del principio di concorrenza da bilanciare con le esigenze di sicurezza, come stabilito dalla normativa europea. Perfino la sezione delle Marche e della Lombardia della Corte dei Conti per due volte ha respinto i decreti con cui i Dap regionali assegnavano alle ditte gli appalti. Il motivo? Vizi nelle procedure previste dalla legge. Ma dopo otto anni il copione si ripete. E nessuno, neanche per sbaglio, sembra avere intenzione di fare un passo in avanti. È rimasta lettera morta anche la circolare diffusa da Franco Ionta nel 2011, in cui l’ex capo del Dap pretendeva che in sopravvitto ci dovessero essere almeno “tre o quattro articoli per lo stesso genere”. In un’altra circolare del 1996 si chiedeva che il tariffario modello 72 (quello della spesa del sopravvitto) fosse il più ampio possibile. Parole al vento. Alla fine della fiera il detenuto è condannato due volte, alla sua pena e alla negligenza delle istituzioni. 

martedì 5 novembre 2013

Caso Ligresti: Anna Maria Cancellieri, un Guardasigilli ricattabile? - Peter Gomez

A dimostrazione di come in Italia, una volta toccato il fondo, sia sempre possibile mettersi a scavare arrivano le annunciate non dimissioni di Anna Maria Cancellieri. La ministra della Giustizia a poche ore dall’arresto di un noto pregiudicato per tangenti (don Salvatore Ligresti) ha telefonato alla sua compagna. E, dopo essersi scusata per non aver chiamato prima (il minimo, visto che lo storico mazzettaro era sotto inchiesta da mesi per falso in bilancio e aggiotaggio), ha espresso solidarietà alla donna. Poi, per la gioia degli azionisti della FonSai rovinati dalle scorribande dell’indagato e della sua famiglia, le ha ripetuto per due volte che quanto era accaduto non era “giusto”. Infine ha chiuso e ha detto: “Qualsiasi cosa io possa fare, conta su di me, non lo so cosa possa fare, però guarda son veramente dispiaciuta”.
In qualunque democrazia degna di questo nome una telefonata come questa sarebbe bastata da sola per spingere qualsiasi governo a dare alla Cancellieri il ben servito. Qui no. Nel Belpaese arriva invece la fiducia a prescindere ancor prima che la Guardasigilli chiarisca dettagliatamente in Parlamento i suoi rapporti con il pregiudicato.
Vedremo cosa accadrà alle Camere (poco immaginiamo). Per ora si può solo dire che, pure dopo le numerose interviste, i fati da spiegare restano ancora molti. Qualche esempio: don Salvatore era il proprietario della casa dove viveva e vive il figlio della ministra ed era l’azionista di maggioranza della società per cui il giovane manager lavorava (ne è uscito con una liquidazione da 3,6 milioni di euro). Tutto questo ha influito sulla decisione della Guardasigilli di chiamare una persona che non sentiva da mesi? E ancora: perché la Cancellieri dopo l’inchiesta Mani Pulite che aveva portato in carcere sia Salvatore che suo fratello Antonino (quest’ultimo ha confessato tangenti alla Guardia di Finanza per 150 milioni di lire) ha continuato a frequentarli? Era opportuno e giusto per un funzionario dello Stato?
Non pensa la ministra che così facendo ha permesso a don Salvatore di sostenere, in un interrogatorio di pochi mesi fa, di averla sponsorizzata con Silvio Berlusconi in occasione di un passaggio importante della sua carriera prefettizia? Affermazione che se è vera (ma lei smentisce) racconta come la Cancellieri avesse dei debiti di gratitudine nei confronti del pregiudicato siciliano. E che se è falsa conferma invece la grave imprudenza dimostrata nel coltivare l’amicizia con dei personaggi come i Ligresti e nel continuare a rivendicarla (“con Antonino abbiamo un rapporto trentennale”, dice ora).
Di tutto questo però in un paese messo in ginocchio dai tengo famiglia e degli amici degli amici si discute assai poco. Si sprecano invece gli elogi perché la Guardasigilli ha di fatto mantenuto la parola data alla compagna di don Salvatore: un mese dopo la telefonata del “conta su di me” la Cancellieri parla infatti con l’altro mazzettaro di famiglia (Antonino) e poi segnala alla direzione delle carceri le cattive condizioni di salute di una delle figlie di don Salvatore, Giulia, detenuta nonostante una fortissima anoressia e per questo poi scarcerata dalla magistratura.
Così oggi, con il sostegno di quasi tutte le larghe intese, la ministra ripete di essere orgogliosa di come si è comportata e spiega di essersi mossa solo per “umanità”, esattamente come aveva fatto con altri 110 carcerati. A suo dire il fatto che la procura di Torino abbia ricordato come la giovane Ligresti sia uscita di prigione senza che sui pm fossero avvenute pressioni di sorta, conferma la correttezza del suo operato.
L’autodifesa, va detto chiaro, è però solo una squallida furbata. È un inganno che finisce per infangare anche le parti buone della carriera – prima come prefetto e poi come governante – di Anna Maria Cancellieri.  Ma c’è poco da stupirsi. Per preoccuparsi della propria reputazione è necessario averne una. Ma ormai la Guardasigilli dei Ligresti una reputazione non ce l’ha più.
In questa storia, infatti, il punto non sono i poteri del ministro che, come responsabile delle carceri, segnala ai vertici del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) i casi di detenuti a rischio di cui viene a conoscenza . In discussione ci sono invece i suoi doveri.
Un esponente di governo non telefona alla compagna di un pregiudicato appena riarrestato e men che meno si mette a disposizione. Se lo fa, immaginando oltretutto che la linea sia sotto controllo, accetta il rischio di infangare se stesso e l’istituzione che rappresenta. Un prefetto come la Cancellieri può benissimo essere amica e frequentare, senza saperlo, dei corruttori, ma quando scattano le manette e poi arrivano le condanne interrompe i rapporti. Oppure cambia mestiere.
Se non lo fa spalanca la porta a qualsiasi sospetto. Persino a quello infamante di essere in qualche modo ricattabile: o dai Ligresti o dal blocco di potere da sempre presente alle loro spalle. Se non tronca subito ogni relazione permette ai cittadini di pensare che anzi è stata messa lì proprio per quello. Seduta a Roma su una poltrona chiave, la Giustizia, che ora non per caso nessuno, o quasi, le vuole togliere.