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giovedì 18 ottobre 2018

Decreto Fisco, l’articolo fantasma pro Croce rossa: 84 milioni all’insaputa di Conte e ministri. Poi il premier lo stralcia. - Thomas Mackinson

Decreto Fisco, l’articolo fantasma pro Croce rossa: 84 milioni all’insaputa di Conte e ministri. Poi il premier lo stralcia

Il governo approva il decreto ma alla vigilia era spuntato uno stanziamento in favore della gestione commissariale della Croce Rossa. Il premier chiede ai ministri, nessuno sa nulla. Imbarazzo generale, poi le ammissioni del capo di Gabinetto di Tria. La tensione tecnici-politici torna così massimi livelli, e alla fine Conte stralcia: "Troppi dubbi". Mef: "Norma per superare ambiguità e lacune".

Domenica sera, preconsiglio dei ministri, vigilia di approvazione del Decreto Fiscale. Attorno al tavolo ci sono Giuseppe Conte, i suoi ministri e sottosegretari, vari tecnici. Arrivano le bozze aggiornate del decreto e, racconta chi c’era, il capo del governo in persona alza il sopracciglio: “Scusate, che roba è?”. Tra le mani tiene il testo dell’articolo 23: due commi che muovono 84milioni di euro in tre anni intitolati a “Disposizioni urgenti relative alla gestione liquidatoria dell’Ente strumentale alla Croce rossa Italiana”. Righe così urgenti, che nessuno sa chi le abbia scritte: si materializza, insomma, la solita “manina”, l’eterna burocrazia senza nome che sa erigere muri sulle virgole e abbattere montagne in una riga. E così facendo, fatalmente, comanda.
La norma, in soldoni, stabilisce che i 117 milioni di euro l’anno appena stanziati dal Mef a favore della Croce Rossa siano da rimodulare almeno in parte, conferendo annualmente una quota significativamente maggiore alla struttura commissariale retta da Patrizia Ravaioli, già direttore generale della Cri e liquidatore, nonché moglie di Antonio Polito, notista politico e vice direttore del Corriere della Sera. Il commissario, evidentemente, ha bisogno di soldi per il personale e per le “spese correnti di gestione”. E prontamente qualcuno li trova.
Nel decreto che ha sbloccato i fondi, quelli per l’ente liquidatore si fermavano a 15.190.765 l’anno per tre anni. La rimodulazione spuntata nel ddl ne assegna alla struttura oltre dieci di più, sempre a valere sul Fondo sanitario nazionale, arrivando così a 28,1 l’anno. Magari è un bene, magari no. Il punto è che nessuno,  a quanto pare, ne sapeva nulla. Un “dettaglio” che fa correre nuova bile tra tecnici e politici ormai ai ferri cortissimi, come ha rivelato il famoso trovino i soldi o li cacciamo tutti”, lanciato come un guanto di sfida dal portavoce di Conte, Rocco Casalino, ai cronisti. E rilanciato dallo stesso Luigi Di Maio che a stretto giro ha attaccato i dirigenti del Mef e il Ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco (“C’è chi rema contro, faccio controllare ogni norma dai miei collaboratori perché non mi fido).
Letta la norma, stando a ricostruzioni convergenti, Conte ha fatto un rapido giro di consultazione tra i presenti e nessuno l’ha rivendicata. Non il ministro della Difesa Trenta che, non ha più competenze sul riordino della CRI. Non quello della Salute Grillo, che pure è autorità vigilante (e non nasconderà di nutrire alcune perplessità sulle cifre).
Alla fine sarà Roberto Garofoligrand commis del Mef, a spiegare ai presenti che la norma è stata effettivamente scritta dal Mef, a livello di Ragioneria Generale dello Stato, al seguito di una interlocuzione con l’ente in liquidazione e col ministero. Garofoli è il capo di Gabinetto di Tria, lo era anche di Padoan e prima ancora di Patroni Griffi. Ma è stato anche segretario della presidenza del Consiglio con Enrico Letta, prima ancora capo del legislativo con D’Alema e Prodi. Inutile bussare alla sua porta per dettagli, non risponde. “Di quell’articolo non so nulla”, taglia corto il commissario Ravaioli che, a precisa richiesta, non fa nomi, ma a sua volta chiama in causa il Ragioniere dello Stato e il ministero della Salute. Prevedendo poi la bufera, precisa: “Io sono un tecnico, mi attengo alle opzioni politiche che stanno in capo al ministro”.
Nella serata di ieri il Mef ha poi inviato una nota tecnica per spiegare la genesi della norma e rivendicarne la bontà (scarica). Sarebbe legata alle perplessità sulla possibilità di finanziare (con il decreto di metà settembre) alcune voci di costo della gestione liquidatoria, diverse e aggiuntive rispetto al costo del trattamento del personale funzionale alla liquidazione richieste dall’ente. Perplessità comunicate al Ministero della Salute ma non raccolte, che vengono ripresentate e sciolte ora con un finanziamento che in parte compensa anche il fatto che i 15,2 milioni di euro appena conferiti all’ente commissariale non comprendono l’importo di circa 7 milioni di euro che l’ente valuta di dover pagare nel 2018 a titolo di trattamento di fine rapporto.
Sia come sia la “manina” resterà ufficialmente ignota, e il testo non passerà. Conte in persona, stando a chi c’era, l’avrebbe giudicato  estraneo al decreto per materia e scritto in modo da non diradare del tutto il sospetto che risorse stanziate per servizi finiscano a coprire altre spese. Così, è arrivato l’aut-aut: o mi sapete indicare esattamente a quale urgenza risponde, come e perché o questa cosa non passa. E così è stato, ma per fermarla c’è voluto l’intervento diretto del Presidente del Consiglio. Perché la guerra di potere, ormai, si combatte ai più alti livelli.
Fonte: ilfattoquotidiano del 16/10/2018

giovedì 30 giugno 2016

Revisori e controllori, in Italia sono 170mila. Ma tra tangenti e crac, nel 2015 solo 7 depennati da elenchi dei ministeri. - Thomas Mackinson

Revisori e controllori, in Italia sono 170mila. Ma tra tangenti e crac, nel 2015 solo 7 depennati da elenchi dei ministeri

Un esercito di avvocati, commercialisti e notai è retribuito per vigilare sulla correttezza dei conti in enti pubblici e privati. Negli elenchi tenuti dai dicasteri dell'Economia e della Giustizia, in un anno solo una manciata di loro è stata "punita" in seguito a condanne e interdizioni. Nonostante i tanti casi di cronaca che evidenziano buchi nella sorveglianza. Il difetto del sistema: sono i controllati a scegliere e retribuire i controllori.

L’Italia malata di corruzione campa su un singolare paradosso: insieme a quello del malaffare, detiene anche il record dei “controllori”. Sparsi per lo Stivale ci sono ben 153mila revisori legali e 17mila controllori dei conti degli enti locali, tutti abilitati al ruolo in appositi registri detenuti dal ministero dell’Economia e da quello della Giustizia. Questo non piccolo esercito di commercialisti, avvocati e notai vigila per legge sul rispetto delle procedure e la corretta redazione del bilancio di esercizio delle società pubbliche, ma entra in azione anche nelle srl e nelle società per azioni, dove il controllo può essere attribuito al collegio sindacale solo a condizione che al suo interno ci sia almeno un revisore legale abilitato. Insomma, i controllori sono dappertutto e possono pretendere ogni atto amministrativo e contabile della società che controllano, fino all’ultima fattura. Potrebbero dunque essere l’antidoto naturale a scandali e sprechi prima che si si muova la magistratura o la Corte dei Conti, ma lo fanno davvero?
Partiamo da un dato. Nel 2015 su 153.816 revisori legali solo sette sono stati cancellati a seguito di condanne o interdizioni dall’apposito registro professionale presso il Ministero dell’Economia e Finanze. Uno ogni 21.428 iscritti, lo 0,0046% del totale. Un numero infinitamente piccolo rispetto agli scandali e alle inchieste degli ultimi anni, dal Mose all’Atac, passando per Expo e Mafia Capitale. Dov’erano i controllori? È evidente che le guardie non rincorrono i ladri e a volte si adoperano per coprire anziché scoprire le loro malefatte. Tanto nessuno li controlla, quasi mai qualcuno li punisce.
Banca Etruria, buco da un miliardo. Ma il bilancio era "veritiero".
Esempio recente, tra i mille: Banca Etruria e il suo buco da un miliardo. La voragine salta fuori quando le sofferenze sono già state scaricate sugli incolpevoli risparmiatori. Dov’erano i revisori legali? Negli anni in cui l’istituto fiorentino collassava, tra il 2009 e il 2015, certificavano che “i bilanci  rappresentano in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale, finanziaria e il risultato economico”. La firma era di tal Alessandro Parrini, partner di PricewaterhouseCoopers (Price) che sfornava relazioni senza rilievi e incassava dalla banca assegni sempre più generosi, fino al milione di euro. Ancora peggio hanno fatto i revisori di Banca Marche: l’istituto era già schiantato sotto una montagna di sofferenze non stimate e non correttamente contabilizzate, ma le relazioni restituivano agli investitori un quadro sereno dei conti. Si scoprirà poi che chi le firmava, Fabrizio Piva, era stato già multato da Bankitalia per “omesse comunicazioni all’organo di vigilanza” come revisore di Banca Esperia. Per questi professionisti s’ipotizza ora una chiamata in concorso con gli amministratori. E proprio qui sta uno dei punti deboli del sistema di controllo: chi sbaglia, prima o poi, paga?
I bilanci rappresentano in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale”. Poi Etruria fa crac.
Partiamo dagli sbagli. Più che a “distrazioni” o scarse capacità sono da imputare al congenito conflitto d’interesse che espone i controllori a “sintonie sospette”: a nominarli, infatti, è direttamente il controllato che ne stabilisce pure i compensi. Questo vincolo li espone a pressioni volte a blandirne, condizionarne e modificarne i giudizi fino a comprometterne del tutto l’imparzialità e la veridicità. Il legislatore è ben consapevole di questo rischio, tanto da punire l’impedito controllo, ma lo tratta come un pericolo astratto e ben si guarda dal risolverlo alla radice, prevedendo ad esempio incarichi attribuiti per sorteggio, come avviene per i loro “cugini poveri”.                                                                    
NEL PUBBLICO, COMPENSI TAGLIATI. E CHI DENUNCIA E' UNA MOSCA BIANCA 
Eh sì, perché ci sono anche i 17.117 revisori dei conti degli enti locali (7.362), iscritti nell’apposito registro del Ministero dell’Interno, i cui requisiti di onorabilità vengono autocertificati al momento dell’iscrizione e decadono solo se l’ordine d’appartenenza li cancella e lo comunica, cosa non scontata. Il loro tallone d’Achille? La fame. Lo Stato dovrebbe remunerarli il giusto per incentivarli a un controllo serrato ma fa l’esatto contrario: li remunera secondo massimi tabellari da 2mila a 17mila euro l’anno (lordi) secondo la consistenza demografica degli enti da controllare. Nel 2010 i loro compensi sono stati pure ridotti del 10% per essere poi aggiornati trimestralmente per decreto: il decreto, sei anni dopo, non è ancora arrivato. In queste condizioni quanti si improvvisano paladini della legalità a tutti i costi? Quanti sono disposti a ingaggiare irriducibili scontri con i vertici politico-amministrativi degli enti, contestando i loro atti e le loro decisioni?
Spulciando bandi e gare ho fatto il mio dovere”. Così Giovanna Ceribelli ha dato il via all’inchiesta su Lady Dentiera
E qui s’impone il tema dei controllori fuori controllo. Le norme che regolano le due categorie di revisori fanno molto affidamento sulla “diligenza” dei professionisti che attiene però alla sfera soggettiva dei singoli. Idem per l’analiticità e la profondità del controllo da eseguire, definiti in modo tanto ampio quanto generico. Così il controllore, a seconda dei casi, può rappresentare una spina nel fianco oppure un fiancheggiatore che per interesse o debolezza fa da paravento ai disonesti. Sempre revisori sono. Valga, per tutti, il monito di Giovanna Ceribelli, la tenace sindaca del collegio di vigilanza dell’Ospedale di Desio-Vimercate che ha fatto deflagrare lo scandalo di Lady Dentiera in Lombardia: “Spulciando bandi e gare ho fatto il mio dovere – diceva al fattoquotidiano.it – ma a sindaci e revisori dico: non fatevi condizionare, intimorire, blandire ma denunciate”.
IL CASO VENUTI. ARRESTATO PER IL MOSE, CONTROLLORE DI PADOVA FIERE
L’Ordine dei commercialisti, come si conviene, difende la categoria ricordando che “i revisori possono essere comunque chiamati rispondere in solido agli amministratori delle società che devono controllare”. Il nostro dato di partenza dice però che questo accade assai di rado e non mancano casi di controllori che restano in lizza anche quando vengano accertate a loro carico “condotte contrarie ai doveri d’ufficio”.
La commissione ministeriale conferma all’unanimità l’incarico. Al fiscalista che aveva patteggiato due anni.
Ecco un esempio. Era un fiscalista di grido, gran collezionista di incarichi in società pubbliche e private del Veneto nonché commercialista di fiducia dell’ex governatore Galan. Due anni fa Paolo Venuti, padovano del ‘57, viene arrestato per lo scandalo del Mose. I finanzieri del Gico lo bloccano all’aeroporto di Venezia. In mano, una valigetta zeppa di contratti di compravendite societarie e operazioni commerciali dell’ordine di 50 milioni di euro, prevalentemente diretti in Indonesia, dove il Fisco italiano non ha cittadinanza. Venuti uscì dall’inchiesta patteggiando due anni e 700mila euro. Ammise d’aver fatto da prestanome per l’ex ministro. Ma non ha cambiato mestiere. Nonostante quella vicenda il suo nome è rimasto nel libro mastro dei revisori legali tenuto al Mef. E infatti, un anno dopo il patteggiamento, Venuti sarà riconfermato come presidente del collegio dei revisori di PadovaFiere, spa a maggioranza pubblica. Rimase in carica tre mesi, finché dovette rinunciare “sponta​nea​mente” all’incarico per porre fine a comprensibili polemiche. La sua conferma era stata però all’unanimità e la commissione ministeriale che vigila sui requisiti e l’idoneità dei professionisti iscritti al Registro dei revisori non aveva fatto una piega.
LA RIFORMA POSSIBILE: ESTRARLI A SORTE. MA NESSUNO LA PROPONE 
Tutto normale. Si scopre così che perfino i “controllori-dei-controllori” non controllano, che al ministero delle Finanze la mano destra che verifica i requisiti di idoneità dei revisori non sa cosa fa la mano sinistra che li arresta. Epilogo: a ottobre dell’anno scorso Venuti è stato sospeso dall’ordine dei Commercialisti, colto da un tardivo sussulto e non potrà esercit​are fino al 2017. Incredibilmente, però, il suo nome è ancora oggi nel registro dei revisori legali con la dicitura “attivo”. Come nulla fosse successo. “Una cosa gravissima”, commenta Lidia D’Alessio, che oltre a fare l’assessore al Bilancio di De Luca in Campania è una stimata docente di economia aziendale, presidente del collegio dei revisori in diversi consorzi pubblici e componente della commissione centrale presso il Mef che vigila sul registro, o almeno dovrebbe.
Perfino i controllori-dei-controllori non controllano. Nonostante una “dote” da 12 milioni l’anno
La legge che disciplina la professione del revisore prevede espressamente che gli iscritti siano soggetti a un “controllo di qualità da parte del Ministero che lo esercita tramite un’apposita Commissione centrale per il Registro dei revisori tramite ispezioni, richiesta di documenti, assunzione di notizie, verifiche incrociate, audizioni personali dei singoli iscritti”. Dal Mef e dal Viminale fanno però presente che i fondi a disposizione per queste attività sono pochi, compatibili al massimo con iniziative di controllo a campione. Ma è davvero così? Ogni iscritto paga ai due ministeri un contributo obbligatorio di 25 euro l’anno a titolo di copertura delle spese di mantenimento nel relativo registro. Quindi, esiste una “dote” annuale da spendere che solo negli ultimi tre anni, per i soli revisori, ha portato all’Erario ben 12 milioni di euro. Quanto venga speso per l’attività di vigilanza non è dato sapere ma in ogni caso, se non bastano, lo si potrebbe alzare graduandolo in base al reddito professionale dei singoli iscritti, molti dei quali hanno plurimi incarichi con gettoni a molti zeri. Ma è una proposta che converrebbe a tutti (i cittadini) e a nessuno (degli interessati). E infatti nessuno, finora, si è sentito di farla.