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mercoledì 1 settembre 2021

Gian Carlo Caselli - “Limitare le misure cautelari? Nelle corde dei radicali, meno del carroccio”. - Gianni Barbacetto

Gian Carlo Caselli - “Limitare le misure cautelari? Nelle corde dei radicali, meno del carroccio”.

Gian Carlo Caselli, già procuratore della Repubblica a Torino e a Palermo, prevede un effetto boomerang, a proposito dei referendum radicali e leghisti sulla giustizia: “Possibili effetti negativi per l’amministrazione della giustizia e per l’interesse generale, ma anche un boomerang per i promotori”.

Dottor Caselli, si riferisce al quesito sulla custodia cautelare?

Non solo a quello. Il quinto quesito prevede che i potenziali autori seriali di gravi reati, se questi non sono commessi con armi o con violenza, non possano più essere assoggettati a misure cautelari in base – come avviene ora – alla previsione della possibile ripetizione dei reati. Si possono riscrivere le norme sulla custodia cautelare riducendone gli spazi: è un’operazione nelle corde dei radicali, assai meno della Lega. Se passa il referendum, ci saranno casi delicati e complessi, in cui sarebbe utile se non necessario ricorrere alla custodia cautelare, che non potrà invece scattare, in forza della nuova normativa. L’opinione pubblica, la piazza, rifiuteranno questa situazione, si genererà sconcerto, ci saranno proteste sul funzionamento della giustizia, che sarà accusata di lassismo. Gli effetti, per la magistratura, già in profondissima crisi dopo lo scandalo Palamara, saranno devastanti. Ancora una volta si darà la colpa di tutto ai giudici. Un boomerang per la giustizia. Ma anche per la Lega che è tra i promotori del referendum e che ha sempre chiesto massima severità per chi compie certi reati, come lo stalking.

In difesa del referendum è intervenuta anche Giulia Bongiorno, in passato sostenitrice di misure dure per chi compie reati contro le donne.

Proprio sul Fatto, la senatrice ha sostenuto che questo referendum vuole evitare gli abusi, ma non riduce le tutele, perché “per applicare le misure cautelari sarà sufficiente che il giudice ravvisi nella condotta dello stalker elementi sintomatici di una personalità incline al compimento di atti di violenza” e il giudice dovrebbe cercare “i sintomi” di una possibile violenza futura. È una forzatura della legge che genera un cortocircuito. La prognosi astratta di futura effettiva violenza è, se non impossibile, almeno molto difficile, opinabile, sicura rampa di lancio di incertezze, discussioni interminabili e polemiche feroci.

Strana alleanza, quella tra i Radicali e la Lega?

Ognuno in politica si allea con chi vuole, ma in questo caso tra i due ci sono enormi differenze. L’area radicale comprende l’associazione “Nessuno tocchi Caino” e ha una filosofia opposta a quella della Lega incentrata sul classico “legge e ordine”. Due mondi così diversi, al punto da far temere un’alleanza strumentale: in un momento difficile per la magistratura, sull’orlo del baratro per una crisi terribile, questo per qualcuno potrebbe sembrare il momento giusto per sferrare l’attacco finale, per fare i conti definitivi con i giudici. Ma vorrei segnalare, a questo proposito, un quesito referendario ancor più pericoloso.

Quello sulla separazione delle carriere?

Sì. Si basa sull’affermazione che i giudici sono appiattiti sul pm, dunque bisogna separarli. È una prospettazione sostanzialmente falsa. In tutti i Paesi in cui la separazione c’è, la conseguenza è sempre una sola: il pm prende ordini o direttive dal potere esecutivo. Fine dell’indipendenza della magistratura, fine della speranza che la legge possa essere uguale per tutti. Così torneremmo indietro rispetto a una situazione che in molti Paesi europei viene invidiata: in un articolo di Le Monde del giugno 2020, autorevoli rappresentanti della magistratura francese indicavano di fatto la situazione italiana come traguardo da raggiungere, per liberare i magistrati d’accusa francesi dal peso di dover analizzare gli affari “sensibili” in base ai possibili interventi del potere. E noi invece in Italia vogliamo fare il contrario.

ILFQ

mercoledì 19 maggio 2021

Cari giudici di Strasburgo, su B. non avete capito un granché. - Gian Carlo Caselli

 

Grazie! Grazie signori giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo! Sono stato critico con voi nel caso Contrada e per l’ergastolo ostativo spalancato ai mafiosi. Ma ora no. Avete regalato alla malandata giustizia italiana una boccata d’ossigeno, provvidenziale per sopravvivere ai miasmi delle vicende Palamara e Amara. Perché se voi ci avete messo quasi otto anni per leggere un ricorso, i tempi biblici della giustizia italiana non sono più uno scandalo di cui vergognarsi.

E poi, signori della Corte, mi avete ricordato una faglia del nostro sistema, quella che – a volte inconsapevolmente – può portare ad avere più riguardo per i “galantuomini”, cioè le persone considerate perbene a prescindere, in ragione della posizione sociale ed economica che consente loro di garantirsi costose e agguerrite difese di primissimo livello. Proprio come quella dei magnifici sei (nomi che lasciano basito un povero magistrato in pensione come me) che compongono il collegio difensivo di Silvio Berlusconi. È di lui, infatti, che stiamo parlando, della sua condanna per frode fiscale di quasi otto anni fa, della quale oggi voi, signori Giudici, chiedete all’Italia conto e ragione, formulando una raffica di quesiti che al di là delle vostre intenzioni servono principalmente a seminare dubbi dove non ce ne possono più essere.

Dubbi sintetizzabili nella domanda se il ricorrente Cavaliere abbia avuto un processo equo a opera di un giudice imparziale, indipendente e costituito per legge. Complimenti! Ancora un grazie, ma questa volta a nome di tutti i condannati di questo mondo, posto che non ce n’è quasi nessuno che non sia straconvinto di essere stato vittima di un processo iniquo.

Gira e rigira, i quesiti riesumano la tesi insostenibile del complotto giudiziario contro Berlusconi, evocato per anni con lo studiato sistema di trasformare in verità – a forza di ripeterli – anche i falsi grossolani. Ma un minimo di conoscenza della realtà consente di affermare che soltanto in Italia il fondato e motivato esercizio dell’azione penale nei confronti del capo del governo ha determinato la contestazione in radice del processo, da parte dello stesso leader e della sua maggioranza; con la delegittimazione pregiudiziale dei giudici (indicati tout court come avversari politici).

Questo è ciò a cui si è assistito nel nostro Paese, in un crescendo che ha visto, oltre all’attacco quotidiano a pubblici ministeri e giudici, l’approvazione di varie leggi ad personam . Tra cui la legge Cirami e il lodo Schifani, utilizzabili rispettivamente per sottrarre il processo al giudice naturale e allontanare indefinitamente nel tempo la celebrazione di un dibattimento. Guarda caso, due punti oggetto dei quesiti Cedu.

A stupire, in particolare, è il quesito se l’imputato abbia potuto disporre del tempo necessario a preparare la sua difesa. Non solo perché la pattuglia di avvocati italiani che lo assisteva non era certo di livello inferiore a quella europea. Soprattutto perché di tempo ne è trascorso così tanto che tre dei reati contestati sono caduti in prescrizione!

In ogni caso, tutti i quesiti Cedu riguardano questioni già valutate e respinte da tutti i giudici italiani (di merito e di legittimità). Per cui non riesco proprio a vedere come il governo italiano (chiamato dalla Cedu a presentare la “giustificazione”, neanche fossimo a scuola…) possa affermare cose diverse. Sarebbe un oltraggio al principio della separazione dei poteri. Vero è che la maggioranza dell’attuale governo ha ripescato, anche tra i suoi componenti, il partito di Berlusconi. Ma a tutto c’è un limite…

IlFQ (18/5/2021)

sabato 17 aprile 2021

Nuovo assalto della politica all’indipendenza dei giudici. - Gian Carlo Caselli

 

“Quod non fecerunt barbari fecerunt barberini”: è quel che fa venire in mente il progetto di una commissione parlamentare d’inchiesta sulla magistratura di vari deputati (FI, Lega, Iv e Az). C’è infatti un precedente che non ha funzionato ma che ora si ripropone sperando di farcela. Protagonista del precedente (2003) fu il parlamentare di FI Bondi: per verità un politico-poeta, nient’affatto un barbaro, per cui la “pasquinata” gli va stretta. Ma di fatto fu un precursore dei “barberini” di oggi. Bondi, mentre l’alleato leghista discettava sul “costo delle pallottole” per i magistrati, aveva pensato a una Commissione parlamentare “per accertare se ha operato e opera tuttora nel nostro paese un’associazione a delinquere con fini eversivi, costituita da una parte della magistratura, con lo scopo di sovvertire le democratiche istituzioni repubblicane”. Occorreva “sistemare” i magistrati che davano fastidio, non rispettando certi “santuari” tradizionalmente impuniti. Di quel progetto non si fece nulla, ma chi non crede nella giustizia vi trovò una spinta formidabile. Può accadere anche oggi, tanto più che si tratta di colpire un corpo (sia pure con lodevoli eccezioni) culturalmente indebolito e tramortito da crisi non solo di efficienza, ma anche di credibilità. Crisi che da tempo erodono la fiducia nella magistratura, da ultimo con il pingue contributo del caso Palamara (motore di un Sistema di cui ora si proclama vittima) e della pandemia che non ha risparmiato il servizio giustizia.

Certo, non è più quella di Bondi la formula oggi usata. Vi si parla di correnti, attribuzioni di incarichi direttivi e funzioni del Csm, di fatto accusato di “far come gli struzzi” a fronte delle sconvolgenti rilevazioni del sullodato Palamara. Ma la sostanza rimane la stessa: indagare sul supposto uso politico della giustizia e sul lavoro delle toghe in generale, compreso il Csm nell’esercizio nelle sue funzioni istituzionali. Si può rigirarlo fin che si vuole, ma resta – come ai tempi di Bondi – un attacco all’indipendenza della magistratura. E se allora l’iniziativa era stata di un “semplice” parlamentare, portavoce di FI, oggi tra i primi promotori troviamo addirittura un esponente dell’esecutivo, la ministra, sempre di FI, Gelmini. Ma certe cose non si possono fare in uno Stato democratico fondato sul principio della separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario): una conquista storica e politica della civiltà occidentale che garantisce l’indipendenza dei giudici. In Italia mai gradita dai poteri (pubblici e privati) restii al controllo di legalità, che in vari modi han sempre cercato di regolare i conti in sospeso, ricacciando i magistrati nel loro “tradizionale” angolo di sottomissione. La voglia di indagini parlamentari sulla magistratura per un verso o per l’altro tende sempre a questo scopo, tipico di chi si sgola per chiedere più giustizia ma in realtà ne vuole sempre meno. L’obiettivo sembra oggi a portata di mano grazie al clima mefitico che incombe. E allora ecco che invece delle serie riforme di ampio respiro assolutamente necessarie (quelle impostate dai ministri Bonafede e poi Cartabia), una certa politica innesca un’indebita ingerenza nell’esercizio di un altro potere dello Stato e quindi un conflitto fra poteri istituzionali le cui conseguenze potrebbero essere devastanti. Prima di tutto per l’indipendenza della magistratura: patrimonio dei cittadini che credono nell’uguaglianza, non della “casta” dei magistrati. Che però devono essere i primi a difenderlo, scacciando “i mercanti dal tempio” per recuperare l’orgoglio e la responsabilità che in momenti ben peggiori (terrorismo e stragi) han saputo esprimere.

IlFattoQuotidiano

mercoledì 21 ottobre 2020

Csm, non scordiamoci i tanti meriti di Davigo. - Gian Carlo Caselli

 

La maggioranza del Csm ha deciso: Piercamillo Davigo, regolarmente eletto a far parte dell’Organo di governo autonomo della magistratura per gli anni 2018-2022, deve lasciare la carica prima della scadenza del mandato, in ragione del compimento dell’età pensionabile.

Festeggiano, anche in maniera scomposta, tutti coloro che hanno sempre sostenuto (e ancora oggi ne rivendicano le ragioni) le crociate contro il pool di Milano anti corruzione nel quale aveva un ruolo centrale proprio il “dottor sottile” Davigo. Crociate avviate dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in seguito – non è un mistero – ai numerosi processi a suo carico e di alcuni dei suoi più stretti collaboratori. Questi processi non potevano essere credibilmente contestati da soli. Meglio mettere sotto accusa l’intera stagione giudiziaria in cui essi si inserivano, così da nascondere l’interesse di parte.

Il primo punto di attacco era suggestivo: perché le indagini esplodono solo nei primi anni Novanta? In verità c’erano stati anche prima significativi processi per fatti di corruzione politica: vicende come l’Italcasse, i Fondi neri Iri, la Lockeed, i vari scandali petroliferi, i casi Teardo, Zampini, Longo e Nicolazzi appartengono purtroppo alla storia italiana. Il successivo imponente aumento dei processi per corruzione si spiega con il concorso di molteplici fattori: primo, uno sviluppo del malaffare diventato incompatibile con le esigenze dell’economia; secondo, lo “scaricamento” di personaggi intorno ai quali il sistema aveva in precedenza fatto quadrato, a seguito di uno scontro politico senza esclusione di colpi; terzo, la crescita di efficienza e di capacità investigativa di alcuni apparati di polizia; quarto, il graduale incrinarsi di quel sostanziale blocco omogeneo fra potere politico e parte della magistratura (consapevole o inconsapevole) di cui per lustri era stata simbolo la Procura di Roma, “porto delle nebbie” responsabile di artifici e acrobazie arditi pur di non turbare gli assetti di potere esistenti; quinto, la contestuale riduzione della tradizionale prudenza e sobrietà della cosiddetta “giustizia politica” nelle autorizzazioni a procedere (emblematica al riguardo la prima indagine genovese sul contrabbando petrolifero dei primi anni Settanta; accertati versamenti illeciti per oltre tre miliardi di lire in favore di cinque ministri dell’Industria per alcuni provvedimenti; ma alla fine tutto prescritto, grazie anche – obiettivamente – al tempo trascorso per le “cure” assicurate alla vicenda dal Parlamento).

Un altro punto di attacco riguardava specificamente quanto accaduto dopo l’arresto nel febbraio 1992, del mariuolo milanese Mario Chiesa. Una sorta di effetto valanga, battezzato dai media come Tangentopoli o Mani pulite. Secondo il presidente del Consiglio, “un’azione lungamente studiata dai comunisti, che hanno introdotto nella magistratura elementi propri che hanno fatto politica attraverso indagini, processi, sentenze”. A questa garbata sintesi si contrappose (anche tra i magistrati) la trionfalistica evocazione di una rivoluzione per via giudiziaria, alla base del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Non fu, in realtà, né l’una né l’altra cosa, ma più semplicemente l’emergere in sede giudiziaria (tra malaffare e settori dell’amministrazione, dell’imprenditoria e della politica) di un intreccio diffuso e apparentemente inarrestabile, diretto prevalentemente (ma non solo) al finanziamento illecito dei partiti. Mani pulite e le inchieste che si diffusero da Milano (epicentro del fenomeno) in tutt’Italia di certo non furono un’operazione indolore. Furono anzi un vero e proprio terremoto. Ma il problema vero è: fu un terremoto fondato su fatti, o su sospetti infondati, o su forzature, o su impropri teoremi? La risposta è nelle carte e negli esiti processuali.

E oggi, ad anni di distanza, si può agevolmente constatare che Mani pulite non è stata una stagione di persecuzioni giudiziarie (o l’anticamera di una stagione siffatta), ma il doveroso e corretto dispiegarsi del principio di obbligatorietà dell’azione penale e di un controllo di legalità diffuso.

E tuttavia i componenti del pool di Milano sono stati ingiustamente sbattuti nell’occhio del ciclone di un assalto spesso selvaggio. Davigo in testa. Anche per la sua indiscutibile abilità nel ribattere le accuse, intervenire sui problemi della giustizia con posizioni, sempre argomentate, esposte con linguaggio non felpato (bandito il “giuridichese”) e spesso urticante, perciò temuto da chi preferisce le cortine fumogene.

Tutti meriti che gli vanno riconosciuti anche in questo momento difficile, che per qualcuno potrebbe costituire una rivincita.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/21/csm-non-scordiamoci-i-tanti-meriti-di-davigo/5973842/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=commenti&utm_term=2020-10-21

sabato 8 agosto 2020

Falcone dimezzato per zittire i pm. - Gian Carlo Caselli

Strage di Capaci, 28 anni fa l'uccisione di Giovanni Falcone - Il ...
Con l’avvio del dibattito parlamentare, il confronto sulla separazione delle carriere fra pm e giudici si fa sempre più rovente. Chi non è d’accordo è liquidato – senza complimenti – come un troglodita irrecuperabile, un giustizialista nemico giurato dello Stato di diritto. Per taluno, l’argomento tranchant (definibile, se si trattasse di dialettica processuale, “pistola fumante”) è che anche Giovanni Falcone era favorevole alla separazione! Et de hoc satis: basta con le menate sull’indipendenza della magistratura e via cavillando.
Ora, non v’è dubbio che le opinioni di Giovanni Falcone meritano il massimo rispetto. Ma rispetto sempre, in un quadro di coerenza: non semplicemente quando fa comodo. Ora, coloro che osteggiano la separazione delle carriere sono di solito nemici irriducibili anche del “concorso esterno” e del 41-bis. Mentre si dà il caso che su questi temi Falcone (mai citato!) fosse invece schierato su posizioni di indiscusso favore. Anzi, il 41-bis è stato addirittura ideato da lui nonostante sapesse perfettamente che la riforma avrebbe fatto inferocire le belve mafiose (Riina dirà ai suoi che si sarebbe giocato i denti, intendendo quel che di più prezioso aveva). Vediamo allora come stanno le cose.
Quanto al concorso esterno, Falcone e gli altri magistrati del pool, nell’ordinanza-sentenza del “maxi-ter” (17 luglio 1987), hanno sostenuto che le “manifestazioni di connivenza e di collusione […], tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti [sono] sussumibili – a titolo concorsuale – nel delitto di associazione mafiosa. Questa ‘convergenza di interessi’ col potere mafioso[…] costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa Nostra e della sua natura di contropotere, nonché, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali”. Parole chiare e univoche, scritte in atti giudiziari ufficiali (quindi in linea col mantra dei giudici che devono parlare solo con le sentenze…), per cui il Falcone ricordato ora sì ora no rischia di essere – parafrasando Calvino – un Falcone “dimezzato”.
Quanto al 41-bis è noto che Falcone, umiliato e cacciato da Palermo, trovò al ministero una specie di asilo politico-giudiziario che utilizzò da par suo elaborando la moderna antimafia, fatta di Procure specializzate (nazionale e distrettuali), Dia e banche dati. In questo “arsenale” rientrava pure il 41-bis – approvato dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio – con cui Falcone voleva un “regime differenziato” per i mafiosi che mettesse fine a una situazione di grave illegalità all’interno del sistema carcerario. Prima del 41-bis, infatti, i boss in carcere potevano permettersi di tutto, perfino decidere e organizzare delitti, mentre un collaudato circuito di informazione, assistenza e solidarietà dall’esterno garantiva la continuità e coesione dell’organizzazione. In sostanza, per Cosa Nostra era “naturale” essere più forte dello Stato perfino dietro le sbarre, ma così il discredito dello Stato era devastante. Tutto ciò andava bene a chi la battaglia antimafia la voleva perdere. Falcone invece la voleva vincere anche con il 41-bis, che difatti funzionò alla grande creando una slavina di “pentiti”. Queste verità, oggi, sono tutta una “fuffa” forcaiola per coloro che vedono nel “famigerato” 41-bis solo sistematiche violazioni dei diritti umani equiparabili di fatto a torture. E quasi sempre si tratta dei medesimi soggetti che armano crociate alla conquista della separazione delle carriere.
In verità, se c’è un’operazione che presenta margini amplissimi di azzardo se non di arbitrarietà è proprio evocare i morti. Bisognerebbe chiedersi cosa mai penserebbero oggi, ma è impossibile saperlo. Tuttavia, pur con ogni ragionevole cautela e assumendo il dubbio come chiave di lettura, si possono formulare alcune osservazioni. Vari processi (in particolare Tangentopoli a Milano e Mafiopoli a Palermo) hanno dimostrato che i rapporti di parti consistenti della politica con il malaffare sono una questione di respiro nazionale. Ma la politica non ha saputo bonificarsi essa stessa neutralizzando le spinte malefiche. Purtroppo l’Italia è ancora oggi caratterizzata da una corruzione diffusa, da collusioni con la mafia, da mala-amministrazione nelle più svariate accezioni, vale a dire da vicende oscure che coinvolgono pezzi rilevanti della politica. Conviene che proprio “questa” politica (refrattaria a ogni forma di responsabilità extra-giudiziaria) possa anche ordinare ai pm dove indagare e dove invece far finta di niente, come di fatto avviene ovunque vi sia separazione delle carriere? Per l’Italia che ancora spera nella legge uguale per tutti sarebbe un suicidio. Financo le odiose leggi ad personam diverrebbero inutili se la persona interessata (o qualcuno della sua cordata) potesse pretendere dal pm quel che più le piace. Per l’Italia delle regole sarebbe una forma di “masochismo istituzionale”.
Infine, un accenno alla tesi (propagandata da avvocati e politici) che con la separazione il nostro Paese si allineerebbe alle democrazie più avanzate. In realtà, l’allineamento potrebbe comportare un pesante arretramento. Un riscontro viene da Le Monde del 28/29 giugno, che ha pubblicato un intervento di Katia Dubreuil e Céline Parisot, presidenti di due sindacati della magistratura, intitolandolo “È tempo di garantire l’indipendenza dei magistrati del parquet” (cioè dei pm). Vi si parla di un “cocktail esplosivo” di cui sono ingredienti la nomina dei pm da parte dell’esecutivo e il fatto che ogni decisione in affari “sensibili” è analizzata in base ai possibili interventi del potere; concludendo che soltanto una riforma istituzionale potrebbe mettere fine ai sospetti di interferenze del potere esecutivo sul corso della giustizia. Ne deduco che le anime candide nostrane che propugnano la separazione delle carriere (inesorabilmente destinata a far dipendere il pm dell’esecutivo) vorrebbero costringerci a una situazione che i francesi gelosi dello Stato di diritto stanno disperatamente cercando di cambiare. Quanto basta per convincersi che gli epigoni del teatro dell’assurdo sono fra noi.

giovedì 7 maggio 2020

Caro Nino Di Matteo, caro ministro basta guerre tra persone perbene. - Gian Carlo Caselli

Sentenza Cedu su Provenzano, l'opinione di Caselli e Di Matteo
Di Matteo e Caselli
Difficile non intervenire, anche se avrei preferito starne fuori. Perché – lo confesso – sono molto tormentato e diviso. Da una parte Nino Di Matteo, magistrato che stimo da sempre per il coraggio e la capacità professionale dimostrati in processi complessi, spesso di importanza che va ben oltre il perimetro del fascicolo per investire la tenuta stessa della nostra democrazia. Dall’altra, Alfonso Bonafede, del quale – come ministro della Giustizia – apprezzo varie iniziative (fra tante: la “spazzacorrotti”; la prescrizione finalmente interrotta; gli interventi sul versante antimafia, ultimo il coinvolgimento del Procuratore nazionale nelle decisioni riguardanti la scarcerazione di mafiosi, cosicché anche il profilo della pericolosità sia valutato bilanciandolo con gli altri). Ovviamente, stima e apprezzamento non escludono che su specifici punti possano esserci nel reciproco rispetto opinioni divergenti. Per esempio, il proclama del ministro che ieri alcuni media hanno sintetizzato con lo slogan “rimando dentro tutti i boss finito il rischio Covid”, potrebbe impallarsi sull’autonomia della magistratura.
Tanto premesso, confesso che le reazioni scatenatesi dopo la trasmissione tv di Massimo Giletti di domenica scorsa, presto degenerate in una tremenda bagarre, appaiono per svariati profili anomale. Andiamo con ordine. Giletti raccoglie alcune opinioni che accennano a “trattative” (termine usato da alcuni ospiti in studio) per la nomina nel 2018 del capo del Dap. Giletti chiede al parlamentare europeo dei 5 Stelle Dino Giarrusso perché non fu scelto Di Matteo che sembrava quello più giusto. Giarrusso risponde di non sapere nulla nel merito e aggiunge che “quelle erano trattative, contatti tra ministro e Di Matteo in cui io non c’entro”. Telefona Di Matteo e subito rivendica energicamente: “Non ho mai fatto trattative con nessun politico né ho mai chiesto nulla”. Segue la ricostruzione dei colloqui avuti con Bonafede nel 2018 circa la sua eventuale nomina a capo del Dap o dell’ufficio Affari penali. All’irruzione di Di Matteo segue a ruota quella del ministro Bonafede e si innesca – in una sede comunque impropria – un cortocircuito istituzionale (Di Matteo è attualmente componente del Csm).
La mia potrà sembrare una lettura minimizzante, ispirata a uno psicologismo d’accatto, ma penso che la molla, il fattore scatenante dell’intervento di Nino Di Matteo sia stata la parola “trattativa”. Non solo perché la sua esperienza professionale è legata al processo definito proprio come “trattativa”, ma soprattutto perché un magistrato come lui non può assolutamente tollerare che il suo nome sia accostato all’ipotesi di trattative con chicchessia, men che mai per attività d’ufficio. Lo confermano alcuni passaggi delle due interviste che Di Matteo ha rilasciato ieri a Repubblica e a La Stampa, che al riguardo contengono alcuni passaggi piuttosto illuminanti. Cito alla rinfusa: domenica sera ho sentito fare il mio nome inserendolo in una presunta trattativa; sapevo e so che non devo chiedere niente; non sono uno che fa calcoli; i colloqui col ministro si sono svolti su suo invito e per sua iniziativa; non sono stato io a chiamarlo; non è mio costume chiedere niente ai politici; sono un soldato della Repubblica. E non è un caso che Bonafede – con la stringata risposta nel “question time” di ieri – abbia precisato che quelle con Di Matteo furono “normali interlocuzioni per formare una squadra”.
Dato atto a Di Matteo che l’idiosincrasia per ogni indebito intreccio fra la sua figura e la parola “trattativa” è comprensibile e giustificata; preso atto altresì (intervista a La Stampa) della sua esplicita dichiarazione: “Io non faccio illazioni. E non penso minimamente che il ministro Bonafede sia colluso con la mafia”; è troppo sperare che la violentissima querelle possa placarsi e concludersi?
Senza dubbio gioverebbe una chiara ammissione del ministro: vale a dire che, ferma restando la sua autonomia in scelte di quel livello, era e rimane criticabile la nomina a capo del Dap non di Di Matteo, ma di un magistrato con ben altre caratteristiche. Mentre Di Matteo dovrebbe convincersi che abbandonare il proprio cuore alla tristezza e alle recriminazioni non aiuta. Rischia anzi di lasciare macerie sul terreno dell’antimafia quando finiranno i rantoli di questa guerra. Una guerra fra persone perbene (Di Matteo e Bonafede), ambedue ben consapevoli che ci si può dividere su tutto ma non nella lotta alla mafia. Che invece rischia proprio lacerazioni profonde nel surreale clima creato ad arte da chi fino a ieri considerava Di Matteo un laido giustizialista incompatibile con lo Stato di diritto: e oggi invece lo usa strumentalmente come uno splendente totem in funzione anti- Bonafede.

domenica 1 marzo 2020

Giustizia, Caselli: “La prescrizione? Una patologia che nega elementari principi di equità e alimenta un doppio processo”. - Rossella Guadagnini



Lungaggini dibattimentali e procedure barocche hanno trasformato il processo in un percorso accidentato, pieno di ostacoli, insidie e cavilli, osserva il magistrato. Un ‘brodo di coltura’ per avvocati spregiudicati, grazie anche alla prescrizione che non si interrompe mai. Nel nostro sistema penale coesistono due distinti codici: uno per i ‘galantuomini’, l’altro per i cittadini comuni.

Tutti i nodi vengono al pettine: quando c’è il pettine, chiosava con perfidia lapidaria Leonardo Sciascia, scrittore e formidabile ragionatore. Da questione tecnica la prescrizione in Italia è divenuta "una questione politica nel senso peggiore del termine, una rissa da stadio. Si parla di orrore, catastrofe, follia, apocalisse, ergastolo permanente, bomba atomica, si arriva al tanto citato ‘vaffa’, si parla di ricatti... Non è così". A sostenerlo è l'ex procuratore di Palermo e di Torino, Gian Carlo Caselli a cui abbiamo chiesto di fare chiarezza su questo nodo gordiano della giustizia.

Prescrizione sì, prescrizione no, prescrizione forse: a che punto siamo?
L’interruzione definitiva della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, la cosiddetta riforma Bonafede, è legge dello Stato dal 1 gennaio di quest’anno e quindi adesso è pienamente in vigore. All’interno del progetto di riforma del processo penale - approvato dal Consiglio dei Ministri nei giorni scorsi - è stato inserito un emendamento che, in sostanza, fa scattare la prescrizione definitiva soltanto dopo la sentenza di condanna di primo grado e non anche dopo quella di assoluzione. Peraltro, modi e tempi dell’eventuale approvazione dell’emendamento sono tutti da stabilire. Intanto, sulla riforma Bonafede si sta scatenando una battaglia campale, con tentativi di cancellarla del tutto portati avanti dalla minoranza parlamentare, appoggiata in modo spregiudicato dal gruppo renziano. In ogni caso, la riforma Bonafede ci avvicina agli altri Paesi europei: il nostro, infatti, è l’unico - con la Grecia - a non prevedere interruzioni definitive della prescrizione, ma soltanto sospensioni temporanee.

Lei l’ha paragonata a una patologia: in che senso?
Il combinato disposto delle lungaggini processuali, delle procedure barocche, dei troppi gradi di giudizio e dei costi elevati ha finito per fare del processo un percorso accidentato, pieno di ostacoli e trappole, infarcito di regole travestite da garanzie che, in realtà, sono insidie o cavilli: un brodo di coltura ideale per gli avvocati agguerriti, spregiudicati e costosi che puntano all’impunità, grazie anche alla prescrizione che non si interrompe mai. Con il risultato che nel nostro sistema penale hanno finito per coesistere di due distinti codici. Uno per i "galantuomini" (cioè le persone che appaiono, in base al censo o alla collocazione politico-sociale, per bene a prescindere...); l’altro per cittadini “comuni”. Nel primo caso il processo mira soprattutto a che il tempo si sostituisca al giudice, vuoi con la prescrizione che inghiotte ogni cosa; vuoi - male che vada - ammorbidendone gli esiti con indulti, condoni, scudi e leggi ad personam assortite. Nel secondo caso, invece, pur funzionando malamente, spesso il processo segna irreversibilmente la vita e i corpi delle persone.

C’è dunque una specie di ‘doppio binario’ della giustizia?
Sta qui l’origine della patologia della prescrizione, perché - per come era congegnata prima della riforma - è stata (ed è storia anche degli ultimi 50 anni) al centro del sistema fondato su un doppio processo, fonte di ingiustizia e disuguaglianze che si risolvono nella negazione di elementari principi di equità. Un sistema dove, in realtà, è la prescrizione infinita (senza mai uno stop definitivo) che contribuisce fortemente a far proseguire certi processi. Ciò che, sul versante costituzionale della ragionevole durata, dovrebbe preoccupare anche quanti pongono il problema “a senso unico”, ossia guardando unicamente ai presunti effetti della riforma della prescrizione. Mentre a indignare dovrebbe essere proprio il ‘doppio processo’, che costituisce di per sé un ossimoro costituzionale davvero insostenibile.

E’ usata così largamente la prescrizione?
La percentuale italiana di prescrizioni è del 10/11%, contro quella dello 0,1/2% degli agli altri paesi europei; a fronte - va sottolineato - di statistiche che collocano la magistratura italiana ai primi posti per produttività (altro che “fannulloni”…). Significa che ovunque la prescrizione funziona come mero rimedio fisiologico contro i pochi scarti che l’ingranaggio non è riuscito a trattare, mentre da noi ha finito per strutturarsi come fenomeno assolutamente patologico. Nel senso che da misura circoscritta a pochi casi limite, è stata trasformata in una voragine che inghiotte senza ritorno processi in quantità enorme. Sicché il sistema giustizia, in tutti questi casi, produce il suo esatto contrario: denegata giustizia per le vittime e verso i presunti responsabili. Ciò accade, di solito, per i processi di maggior impatto politico-sociale: penso al disastro ferroviario di Viareggio.

La sua riforma è cosa da giustizialisti?
La contrapposizione tra giustizialisti e garantisti è sempre più ridicola e strumentale. La praticano soprattutto coloro che si autoproclamano garantisti, spesso ignorando che il vero garantismo è veicolo di eguaglianza: non può essere degradato a strumento di sopraffazione e privilegio, con l’obiettivo di disarmare la magistratura di fronte al potere economico e politico, oppure di graduare le regole in base allo status sociale dell’imputato. Quanto alla parola giustizialismo, pochi ricordano che essa non esisteva neppure nel lessico italiano, se non con riferimento... al peronismo. Se non sbaglio fu Giuliano Ferrara a trasferirla ai problemi della giustizia, facendone una specie di cartellino rosso da brandire “a prescindere” (per squalificarlo) contro chi la pensa altrimenti. Giustizialista - per i sedicenti garantisti – è, in sostanza, chi cerca soluzioni non di comodo, ma è animato dall’etica della responsabilità dei risultati nel rispetto delle regole.

Una diatriba che assomiglia a una scusa o, meglio, a un’accusa.
Sotto la contrapposizione fra garantismo e giustizialismo si nasconde, a mio avviso, il conflitto fra illogicità e buon senso. Prendiamo il caso della polemica furibonda che - dopo quella sulla prescrizione - è scoppiata sull’uso delle intercettazioni. Il problema era questo: se intercettando una persona per un reato se ne scopre un altro, la registrazione è utilizzabile anche per il nuovo reato oppure va cancellata? Discutere sull’utilizzabilità, in un processo diverso, di prove riguardanti gravi reati legittimamente acquisite in un’altra inchiesta, si può anche fare, purché si sappia che l’alternativa è tra due comportamenti: il non trascurare nulla che serva all’accertamento della verità (il buon senso), oppure privilegiare formalismi e cavilli che della verità non si curano (l’illogicità).

Gli effetti della prescrizione saranno evidenti solo nel 2025: tanto rumore per nulla dunque?
E’ proprio così: tanto rumore per nulla. Le statistiche del Ministero della Giustizia del 2018 ci dicono che la prescrizione ha colpito 117.367 processi di cui 57.707 nelle fasi iniziali (Pm, Gip); 27.747 in primo grado; 2.250 davanti al Giudice di pace; 29.216 in Appello; 646 in Cassazione. Quindi, poiché la riforma Bonafede si applica solo ai processi già conclusi in primo grado e tenuto conto che, in Cassazione sono pochissimi i processi che si prescrivono (l’1,1 %), la riforma riguarderà il 26% circa dei processi prescritto. Ossia appena il 3% dei processi trattati ogni anno. Non propriamente una catastrofe che giustifichi i toni apocalittici dei profeti di sventura contrari al provvedimento.

La riforma Bonafede in effetti scontenta molti tra magistrati, avvocati e giuristi.
A fronte dei due o tre (per altro autorevoli) che hanno fatto notizia in occasione dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario, i magistrati scontenti sono ben pochi. Gli avvocati, invece, quasi tutti e si capisce bene perché. Ma se lo dici ti saltano addosso per lesa maestà. Spesso si dimenticano i sondaggi, che valgono quello che sappiamo, ma in ogni caso concordano nel dire che i cittadini sono favorevoli alla riforma Bonafede. E qualcosa, anche questo dato, vorrà pur dire.

Quale strada le appare più percorribile?
Occorre - come dicevo al principio - restare, realisticamente ancorati ai profili tecnici dei problemi della prescrizione e delle intercettazioni. Lasciamo da parte slogan ed esagerazioni propagandistiche messe in campo contro chi ha opinioni diverse, leggiadramente etichettato come ‘forcaiolo’ o ‘manettaro’; al punto che ‘giustizialista’ appare ormai appellativo perfino garbato.

E l’Europa ci approva…
Sì, una conferma ulteriore viene ora dal “Rapporto sull’Italia” di approvazione recentissima da parte della Commissione Europea, dove si legge che la riforma della prescrizione è “benvenuta” anche perché “in linea con una raccomandazione specifica” formulata al nostro Paese, che l’Europa aveva fatto a suo tempo. La Commissione esprime un giudizio favorevole anche sulla “spazza-corrotti” e sulla lotta alla corruzione che “sta migliorando”. Seppure non faccia sconti - sia sul piano civile, che penale - circa la lunghezza del contenzioso e l’efficienza del processo, soprattutto nel grado di appello. E fornisce una serie di direttive assimilabili, in buona parte, al “disegno di legge recante deleghe al governo per l’efficienza del processo penale”.

Tutti i modi dunque vengono al pettine, per parafrasare Sciascia. E il pettine, a quanto pare, stavolta c’è.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/giustizia-caselli-la-prescrizione-una-patologia-che-nega-elementari-principi-di-equita-e-alimenta-un-doppio-processo/

giovedì 13 settembre 2012

Caselli: Su quel palco c’ero anch’io, Sabelli sopra le righe. - Gian Carlo Caselli



C’ero anch’io, alla festa del “Fatto” di Marina di Pietrasanta, domenica scorsa. E non fra le seimila persone assiepate sotto e intorno al palco. Proprio sul palco. Insieme con Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Marco Travaglio e Marco Lillo. Per assistere e partecipare – dall’inizio alla fine – all’iniziativa organizzata in occasione della consegna di oltre 150 mila firme di cittadini raccolte dal “Fatto” per solidarietà verso i magistrati della Procura di Palermo. Posso quindi dire – serenamente – che le reazioni del collega Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), mi sono sembrate decisamente sopra le righe. 

Sostiene Sabelli che la legittimazione della magistratura si fonda sulla fiducia e non sulla ricerca del consenso della piazza. Vero. Ma a Marina di Pietrasanta i magistrati di Palermo si sono limitati a prendere atto che un numero enorme di cittadini voleva esprimere loro proprio e solo fiducia. Fiducia per il lavoro di complessità assolutamente eccezionale che essi stanno svolgendo. Con un coraggio intellettuale non comune, essendosi inoltrati consapevolmente – guidati soltanto dall’interesse generale all’osservanza della legge – nel labirinto vischioso rubricato alla voce delle “trattative” fra Stato e mafia che si sarebbero variamente intrecciate, persino dandovi causa, con le stragi del 1992 / 93. Un labirinto nel quale si intravvedono o si intuiscono – oltre ad interessi propriamente criminali – altri interessi, non meno oscuri e torbidi. 

L’idea di raccogliere le firme è stata di Margherita Siciliano, una signora di Collegno, lettrice del “Fatto”, apparsa poi (anche lei era sul palco) piuttosto timida. Nulla che evochi piazze esagitate. Semplicemente un’iniziativa autenticamente popolare e spontanea, non richiesta né sollecitata in alcun modo dai magistrati. Un’iniziativa che il capo del Sindacato della magistratura dovrebbe apprezzare, anche perché ha determinato una valanga di adesioni (ben oltre ogni più ottimistica previsione) che rappresentano una formidabile manifestazione di fiducia verso la categoria. Esattamente quello che Sabelli chiede e che si inserisce nella situazione di difficoltà e di isolamento dei colleghi palermitani come una preziosa boccata d’ossigeno. 

Questa situazione di isolamento è stata denunziata soprattutto da Nino Di Matteo, che ha anche lamentato il silenzio assordante dell’Anm. Bè, dal capo dell’Anm mi sarei aspettato un contraddittorio basato sull’analitico e scrupoloso elenco degli interventi svolti a sostegno della Procura di Palermo, da tempo nell’occhio del ciclone di polemiche spesso pretestuose. Invece nulla di simile. Anzi, una stizzita presa di posizione che si è risolta in una serie di bacchettate su vari versanti: dall’accusa di sovraesposizione a quella di comportamenti oggettivamente politici che rischiano di offuscare l’imparzialità, soprattutto se si è titolari di inchieste che si prestano a strumentalizzazioni. Accuse che la magistratura palermitana (e non solo) sente ripetere da tempo e che possono facilmente essere contrastate dalla constatazione che non è la magistratura a essersi inventata i rapporti fra mafia e politica. Essi sono realtà della storia di ieri e di oggi del nostro Paese, e Ingroia – parlandone – non fa politica ma storia, peraltro senza mai entrare nel merito delle inchieste, ma proprio al fine di contrastare le strumentalizzazioni che giustamente preoccupano Sabelli. Il quale ha anche sostenuto che i magistrati presenti sul palco avrebbero dovuto dissociarsi, magari alzandosi e andandosene, da alcune considerazioni espresse nei confronti del presidente Napolitano. 

Senonché, dopo la consegna delle firme, l’iniziativa è proseguita non con un confronto-dibattito ma con l’esposizione di vari contributi autonomi. Difficile condividere la tesi che vi sarebbero responsabilità in caso di mancata esplicita dissociazione quando uno dei partecipanti all’iniziativa esponga sue opinioni su argomenti obiettivamente controversi. Fino a pretendere una qualche forma di dissenso plateale, quasi si trattasse di un talk-show qualunque. Credo che in questo modo si finisca per fare, involontariamente, un torto allo stesso presidente Napolitano. Perché non siamo più ai tempi (1852) del consigliere di cassazione Ignazio Costa della Torre, condannato ad una pesante sanzione (poi condonata in parte) perché in un opuscolo in difesa del privilegio della giurisdizione ecclesiastica aveva sostenuto, offendendo la persona sacra ed inviolabile del Re, che un ministro gli aveva posto in bocca il discorso della corona. Dallo Statuto Albertino siamo passati alla Costituzione repubblicana. Che impone ai magistrati, come a tutti i cittadini italiani, di rispettare l’istituzione Capo dello Stato, ma non impedisce di discutere – ad esempio – sull’opportunità o meno di sollevare il noto conflitto avanti alla Consulta. 


http://temi.repubblica.it/micromega-online/caselli-su-quel-palco-c%E2%80%99ero-anch%E2%80%99io-sabelli-sopra-le-righe/