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mercoledì 21 ottobre 2020

Csm, non scordiamoci i tanti meriti di Davigo. - Gian Carlo Caselli

 

La maggioranza del Csm ha deciso: Piercamillo Davigo, regolarmente eletto a far parte dell’Organo di governo autonomo della magistratura per gli anni 2018-2022, deve lasciare la carica prima della scadenza del mandato, in ragione del compimento dell’età pensionabile.

Festeggiano, anche in maniera scomposta, tutti coloro che hanno sempre sostenuto (e ancora oggi ne rivendicano le ragioni) le crociate contro il pool di Milano anti corruzione nel quale aveva un ruolo centrale proprio il “dottor sottile” Davigo. Crociate avviate dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in seguito – non è un mistero – ai numerosi processi a suo carico e di alcuni dei suoi più stretti collaboratori. Questi processi non potevano essere credibilmente contestati da soli. Meglio mettere sotto accusa l’intera stagione giudiziaria in cui essi si inserivano, così da nascondere l’interesse di parte.

Il primo punto di attacco era suggestivo: perché le indagini esplodono solo nei primi anni Novanta? In verità c’erano stati anche prima significativi processi per fatti di corruzione politica: vicende come l’Italcasse, i Fondi neri Iri, la Lockeed, i vari scandali petroliferi, i casi Teardo, Zampini, Longo e Nicolazzi appartengono purtroppo alla storia italiana. Il successivo imponente aumento dei processi per corruzione si spiega con il concorso di molteplici fattori: primo, uno sviluppo del malaffare diventato incompatibile con le esigenze dell’economia; secondo, lo “scaricamento” di personaggi intorno ai quali il sistema aveva in precedenza fatto quadrato, a seguito di uno scontro politico senza esclusione di colpi; terzo, la crescita di efficienza e di capacità investigativa di alcuni apparati di polizia; quarto, il graduale incrinarsi di quel sostanziale blocco omogeneo fra potere politico e parte della magistratura (consapevole o inconsapevole) di cui per lustri era stata simbolo la Procura di Roma, “porto delle nebbie” responsabile di artifici e acrobazie arditi pur di non turbare gli assetti di potere esistenti; quinto, la contestuale riduzione della tradizionale prudenza e sobrietà della cosiddetta “giustizia politica” nelle autorizzazioni a procedere (emblematica al riguardo la prima indagine genovese sul contrabbando petrolifero dei primi anni Settanta; accertati versamenti illeciti per oltre tre miliardi di lire in favore di cinque ministri dell’Industria per alcuni provvedimenti; ma alla fine tutto prescritto, grazie anche – obiettivamente – al tempo trascorso per le “cure” assicurate alla vicenda dal Parlamento).

Un altro punto di attacco riguardava specificamente quanto accaduto dopo l’arresto nel febbraio 1992, del mariuolo milanese Mario Chiesa. Una sorta di effetto valanga, battezzato dai media come Tangentopoli o Mani pulite. Secondo il presidente del Consiglio, “un’azione lungamente studiata dai comunisti, che hanno introdotto nella magistratura elementi propri che hanno fatto politica attraverso indagini, processi, sentenze”. A questa garbata sintesi si contrappose (anche tra i magistrati) la trionfalistica evocazione di una rivoluzione per via giudiziaria, alla base del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Non fu, in realtà, né l’una né l’altra cosa, ma più semplicemente l’emergere in sede giudiziaria (tra malaffare e settori dell’amministrazione, dell’imprenditoria e della politica) di un intreccio diffuso e apparentemente inarrestabile, diretto prevalentemente (ma non solo) al finanziamento illecito dei partiti. Mani pulite e le inchieste che si diffusero da Milano (epicentro del fenomeno) in tutt’Italia di certo non furono un’operazione indolore. Furono anzi un vero e proprio terremoto. Ma il problema vero è: fu un terremoto fondato su fatti, o su sospetti infondati, o su forzature, o su impropri teoremi? La risposta è nelle carte e negli esiti processuali.

E oggi, ad anni di distanza, si può agevolmente constatare che Mani pulite non è stata una stagione di persecuzioni giudiziarie (o l’anticamera di una stagione siffatta), ma il doveroso e corretto dispiegarsi del principio di obbligatorietà dell’azione penale e di un controllo di legalità diffuso.

E tuttavia i componenti del pool di Milano sono stati ingiustamente sbattuti nell’occhio del ciclone di un assalto spesso selvaggio. Davigo in testa. Anche per la sua indiscutibile abilità nel ribattere le accuse, intervenire sui problemi della giustizia con posizioni, sempre argomentate, esposte con linguaggio non felpato (bandito il “giuridichese”) e spesso urticante, perciò temuto da chi preferisce le cortine fumogene.

Tutti meriti che gli vanno riconosciuti anche in questo momento difficile, che per qualcuno potrebbe costituire una rivincita.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/21/csm-non-scordiamoci-i-tanti-meriti-di-davigo/5973842/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=commenti&utm_term=2020-10-21

domenica 27 settembre 2020

La sacra alleanza contro gli alieni. - Barbara Spinelli










Fobia 5Stelle - L’intesa trasversale “da salotto” nasce per proteggere da incursioni “esterne” gli interessi, le ideologie e il potere tuttora agguerrito di chi per decenni ha fatto quadrato attorno al neoliberismo.

Nonostante la vittoria ottenuta al referendum sul taglio dei parlamentari, il M5S sembra aver pienamente soddisfatto la Sacra Alleanza che da anni spera nella devastazione del movimento fondato da Grillo. La prima Alleanza nacque dopo la sconfitta di Napoleone, nel 1815, e fu presentata da Metternich come il più efficace bastione contro la democrazia, il secolarismo, gli effetti della rivoluzione francese (anche se Metternich stesso ebbe a definire la coalizione una “clamorosa nullità”).

La Sacra Alleanza del tempo presente nasce per proteggere da incursioni aliene gli interessi, le ideologie e il potere tuttora agguerrito di chi per decenni ha fatto quadrato attorno al neoliberismo e ha guardato con crescente fastidio le sconfessioni che venivano dal suffragio universale, oltre che dalla realtà. Tutti costoro sanno che la crisi (prima dei subprime e poi del Covid) ha messo in luce la “clamorosa nullità” delle ricette neoliberali, e si consolano oggi con le disfatte dei Cinque Stelle alle regionali e comunali.

La Sacra Alleanza contro gli avversari del neo-liberismo e della nuova guerra fredda ha un suo vocabolario, un blocco di luoghi comuni e di insulti automatici. I Cinque stelle sono regolarmente bollati come populisti, ideologici, segretamente sovranisti. Non sono un partito, si dice ancora, ma una mera opinione: sono capaci solo di espirare il loro inconsistente flatus vocis. Quando parlano o criticano o propongono o legiferano, le loro voci sono solitamente liquidate come prodotto di un’ideologia: è l’accusa ricorrente espressa da chi è immerso nell’ideologia fino al collo. (Tanto per fare un esempio sull’uso sempre più vacuo di quest’epiteto: qualche giorno fa un inviato del telegiornale di Mentana ha detto, a proposito dei Palestinesi piantati in asso dall’accordo Israele-Emirati: “È passato il periodo della battaglie ideologiche!” Come se reclamare uno Stato palestinese fosse una delle tante ideologie destinate al macero da chissà quale storia progressista).

Con questo non si vuol affermare che il M5S gode di buona salute, e ha davanti a sé verdi praterie. La sua sconfitta è chiara, la sua incapacità di costruire alleanze è evidente, e se il governo Conte esce rafforzato dalla prova delle regionali e del referendum è perché l’elettorato Cinque Stelle ha con le proprie forze scelto di proteggerlo, con il voto disgiunto o utile: un’operazione voluta dalla base più che dal lacerato gruppo dirigente. Vogliamo solo affermare che fare alleanze territoriali o nazionali è una soluzione solo se Cinque Stelle non si dissolvono completamente nel campo dominato dal Pd. Qui è il dilemma in cui sono oggi impelagati, ed è dilemma serio. Il Pd che dà volentieri lezioni di savoir-vivre ai propri alleati di governo dovrebbe essere più umile, e riconoscere che l’alleanza “strategica” stretta dalle sinistre classiche con gli estremisti del centro che sono i neoliberisti, negli anni ‘70 e ‘80, polverizzò durevolmente l’idea stessa di sinistra. Un modello suicida che il M5S vorrebbe evitare, sia pure in maniera del tutto confusa.

In genere si fa poca attenzione all’attività dei suoi europarlamentari, che in questi anni si sono mostrati tenaci, ben preparati e nelle grandi linee coerenti. Non sono giudicati interessanti, se si esclude il momento in cui hanno permesso con i propri voti l’elezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea. Prima ancora che si formasse la coalizione fra 5 Stelle e Pd, gli europarlamentari pentastellati hanno mostrato che le loro preferenze di voto andavano ben più spesso ai Verdi e alle sinistre che alla Lega. Nei loro comportamenti sono paragonabili all’elettorato 5 Stelle: tendono a correggere e riaggiustare, a Bruxelles, quel che a Roma si sfilaccia o si rompe.

Ma non sono perdonati, se non si limitano ad appoggiare i gruppi di centro sulle nomine o sul Recovery Fund e osano emettere qualche idea propria. Per esempio sulla democrazia diretta, che gli eurodeputati Cinque Stelle hanno difeso di frequente a Bruxelles per rendere più credibile e forte la rappresentanza democratica, non per sostituirla. Da questo punto di vista l’uscita di Grillo contro la democrazia rappresentativa è stata non poco nociva.

Altro punto di forza, a Bruxelles: il reddito minimo di cittadinanza, approvato nell’ottobre 2017 da una maggioranza spettacolare (451 voti in favore, 147 contrari, 42 astenuti). Relatrice della risoluzione era l’eurodeputata 5 Stelle Laura Agea. I commentatori invitati nei salotti televisivi tendono a far risalire la svolta europea del Movimento al secondo governo Conte e alle pressioni del Pd. Chi ha visto i deputati 5 Stelle legiferare a Bruxelles, e distinguersi più volte dalla Lega, sa che la notizia è falsa. Una notizia falsa non diventa vera perché nessuno la contraddice.

Le relazioni europee con la Russia sono un altro tema che vede i Cinque Stelle esprimere idee che indispongono la Sacra Alleanza. La recente risoluzione sull’avvelenamento di Navalny è stato un ennesimo esercizio di riattivazione della guerra fredda, voluto ancora una volta – come nella sbilanciata e sconclusionata risoluzione sulla memoria europea di un anno fa– dai deputati e governanti polacchi. Il Pd ha votato ambedue le risoluzioni, salvo qualche pentimento ex post sulla memoria europea. I 5 Stelle si sono prudentementee fortunatamente astenuti nelle due circostanze.

Non per ultima: la migrazione. Anche qui il PD non ha speciali lezioni da dare. Si accusa legittimamente Di Maio di aver parlato delle navi Ong come di “taxi del mare”, ma si dimentica che il patto della vergogna con la Libia fu negoziato dal ministro Minniti e dal governo Gentiloni. Così come fu concepito da Minniti il codice di comportamento che complica le operazioni di Ricerca e Salvataggio in mare delle navi Ong.

Il buon lavoro svolto in Europa dai Cinque Stelle ha tuttavia poco peso sui dibattiti italiani. Nei salotti del potere i rappresentanti pentastellati continuano a essere trattati come quadrupedi che ancora ignorano l’incedere dei bipedi. Ossessivamente sono chiamati a dirci “cosa faranno da grandi”. Lo chiedono imperiosamente i giornali mainstream, gli estremisti del centro come Renzi o Calenda, il Pd che si muove sul palcoscenico come se non avesse nulla da rimproverarsi nell’evaporare della sinistra italiana. Con supponenza sfoderano il monotono verdetto: “È passato il periodo della battaglie ideologiche!” È passato per tutti tranne che per loro: benvenuti nel deserto del reale!

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I meriti di Conte, “l’Innominato”. - Antonio Padellaro












“Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”.

Ludwig Wittgenstein

A una domanda del “Corriere della Sera” sul perché mai mentre in quasi tutta Europa il Covid cresce molto in Italia no, il noto virologo Massimo Galli risponde: “La mia personale impressione è che il lockdown per come lo abbiamo vissuto e sofferto, più rigoroso che altrove, abbia limitato la circolazione del virus in alcune parti d’Italia”. Ma tu pensa, soltanto che non riesco proprio a ricordarmi chi diamine fu che la sera del 9 marzo 2020 apparve improvvisamente in tv per annunciare agli italiani: stop agli spostamenti in tutto il territorio nazionale, scuole chiuse, blocco di ogni manifestazione sportiva compreso il campionato di calcio, insomma quella roba lì. Era forse Salvini? Meloni? Renzi? No, non mi sembra, eppure a pensarci bene quel tale doveva ricoprire una carica importante per imporre misure così gravi. Chissà che diavolo gli passava per la testa quel 9 marzo? Chiudere il Paese a doppia mandata, così a cuor leggero. Un irresponsabile, sicuramente. Anche perché furono decisioni senza precedenti nella storia, e l’Italia fece da battistrada in Europa mentre i governi di Francia e di Spagna esitavano (e su Boris Johnson, in Inghilterra, veniva steso un lenzuolo pietoso). Ma questo sapete chi lo va dicendo, quel Massimo Galli noto scienziato gruppettaro di sinistra. Ah, ecco ora mi sovviene che quel tale di cui (fortunatamente per lui) nessuno ricorda il nome, e neppure il cognome, cominciò a emanare a raffica certi decreti liberticidi chiamati Dpcm, imponendo agli italiani una vera e propria dittatura sanitaria. Che vergogna. Strano che il nome, e il cognome, di costui nessuno riesca mai a pronunciarlo. Tranquilli però se, malauguratamente, le cose dovessero mettersi male anche nel nostro Paese (dopo l’estate del Billionaire, del vamos alla playa e del ’mo basta co ’ste mascherine liberticide), vedrete che, come d’incanto, gli smemorati ritroveranno memoria e favella e quel nome diventerà finalmente pronunciabile. Ed esecrabile. Scommettiamo?

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/27/i-meriti-di-conte-linnominato/5945301/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=commenti&utm_term=2020-09-27

martedì 10 settembre 2019

La maschera di pietra. - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 10 Settembre.

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Il volto pietrificato di Luigi Di Maio, accanto a Giuseppe Conte, la dice lunga su quello che Padellaro chiama il Governo dei Malavoglia. Non ce la fa proprio a sorridere, il capo 5Stelle, nemmeno dopo gli inviti di Grillo. Parliamo di un giovane di 33 anni che ha bruciato tutte le tappe: deputato e vicepresidente della Camera a 27 anni, leader del primo partito a 31, vicepremier e bi-ministro del Lavoro e Sviluppo a 32, ora ministro degli Esteri. Costretto a imparare in fretta mestieri diversi e delicati, deriso come “bibitaro” mai laureato dagli stessi che ora s’indignano (giustamente) per gli attacchi alla Bellanova, ex bracciante con la terza media. Al suo posto, molti sorriderebbero a 32 denti: nessun ragazzo del Sud con quei trascorsi ha mai fatto tanta strada. Perché non sorride? Un anno fa poteva essere premier con una stretta di mano o una telefonata a B.. Invece rifiutò. E Salvini, per conto terzi, gli impose un premier terzo. Così Giggino e Grillo scelsero Conte: un bel jolly, col senno di poi. Un mese fa, dopo l’harakiri salviniano, Di Maio s’è visto offrire Palazzo Chigi sia dal Pd sia da Salvini: il Pd preferiva un leader azzoppato dalle Europee e dal naufragio giallo-verde al più popolare e ingombrante Conte; e il Cazzaro, sfumato il voto, era pronto a tutto pur di liberarsi di Conte e restare al potere.

Di Maio ha respinto entrambe le sirene e si è giocato l’ultima occasione del salto più alto: per non perdere Conte; per ricompattare il M5S, passato dal lutto del 26 maggio al nuovo entusiasmo del Grillo ritrovato; e per non diventare il parafulmine delle tensioni fra e nei partiti della nuova maggioranza. Ma l’anno scorso aveva costruito il Contratto con la Lega sul rapporto personale con Salvini, dopo 7 anni di comune opposizione ai governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni (tutti col Pd dentro e la Lega fuori). Perciò è rimasto bruciato dal tradimento dell’8 agosto. Ora un’analoga sintonia con qualcuno del Pd è impossibile: capi e capetti parlano lingue giurassiche; non si sa bene chi comandi; e il programma giallo-rosa è nato troppo vago e frettoloso, tant’è che andrebbe precisato meglio dopo il giro di boa della legge di Bilancio. Non è detto che la partenza fredda e guardinga sia di malaugurio per il Conte-2, visto l’esito degli entusiasmi che accompagnarono il Conte-1. Ma la maschera di Di Maio riassume il vero enigma del nuovo governo: riusciranno i nostri eroi a mescolare e contaminare le proprie diversità, assorbendo le poche virtù dei rispettivi alleati per migliorarsi? Ci accontenteremmo che non si facessero contagiare dai vizi altrui. Fra due litiganti, c’è sempre un terzo che gode. E sappiamo chi è.

giovedì 20 giugno 2019

Accuse pretestuose sulla Raggi. Dopo tre anni i poteri forti rivogliono il Campidoglio. - Gaetano Pedullà



Il biglietto d’auguri più affettuoso gliel’ha recapitato Il Messaggero, il giornale di Roma che non l’ha mai amata, ma che da ieri è ufficialmente un organo d’informazione nemico della sindaca Virginia Raggi. A ricordarsi dei tre anni di amministrazione della sindaca più odiata dalla criminalità e dai comitati d’affari, sono stati però anche altri, a cominciare da Matteo Salvini ormai “sparatissimo” nella campagna elettorale per prendersi il Campidoglio, fino all’ex ministra di Forza Italia Mara Carfagna, primo proponente di un commissario di Governo per sfrattare topi e gabbiani, malgrado siano residenti fissi dai tempi di Romolo e Remo.

Accusata di inerzia e incapacità, la prima cittadina ha risposto su Facebook, squarciando il velo d’ipocrisia di chi se c’era dormiva quando la città affondava nel degrado, e per di più si creava un immenso debito senza nemmeno affrontare i problemi. Ora, come i nostri lettori sanno bene, La Notizia è un quotidiano che non ha editori con le mani in pasta nei business della città o che sono ancora offesi per il no alle Olimpiadi, e non deve sostenere scalate politiche. Per questo possiamo guardare senza preconcetti al lavoro di questi tre anni, e senza negare alcuni importanti errori non arriviamo affatto alle conclusioni del giornale di via del Tritone, forse non a caso ieri letteralmente sommerso dagli insulti sui social network. Sui rifiuti, i trasporti e il ripristino della legalità questi tre anni sono stati rivoluzionari.

Per chi non ha trovato traccia sull’edizione di ieri del Messaggero ricordiamo che prima avevamo un re incontrastato del trattamento dei rifiuti, il signor Manlio Cerroni, padrone di Malagrotta, la più grande discarica d’Europa, al quale proprio l’editore del giornale che attacca la Raggi, l’ingegner Franco Caltagirone, voleva contendere lo scandaloso monopolio, tanto da voler spingere verso il business dei rifiuti l’Acea di cui era diventato grande azionista. Poi Cerroni è finito in mezzo alle inchieste giudiziarie e Caltagirone ha dato via le sue azioni dell’utility capitolina, dove da qualche tempo – guarda la coincidenza! – ha cominciato a ricomprare titoli, evidentemente nella prospettiva di affari futuri.

La Raggi intanto che ha fatto? Ha imposto a Cerroni un contratto per la raccolta dei rifiuti e oggi – ma guarda che altra coincidenza! – dobbiamo tenere l’esercito a guardia dell’impianto di trattamento di Rocca Cencia, dopo due stranissimi incendi che hanno pregiudicato lo smaltimento della spazzatura, per non parlare di oltre 600 cassonetti bruciati.

UNA FORESTA CHE CRESCE. Sul piano dei trasporti, l’azienda degli autobus, l’Atac, si portava dietro un debito superiore all’Alitalia. Si è avviato per la prima volta nella sua storia un concordato, cioè l’ultima e più faticosa azione per impedire all’azienda di non fallire, lasciando tutti a piedi, romani e turisti. Persino più compromessa era la legalità all’interno della gigantesca macchina comunale, dove ai fornitori servivano più che altro amici buoni, visto che gli affidamenti diretti andavano di moda, in attesa delle gare. Così la corruzione era diventata lo stile della casa, come ci ha fatto vedere chiaramente l’inchiesta su Mafia Capitale.

Le cose su cui si è agito, dunque, sono state profonde, alla base dei problemi che si trascinano da decenni. I romani possono essere contenti? No, perché gli effetti in superficie non si vedono, ma un’analisi priva di condizionamenti editoriali e politici non può ignorare che un albero che cade fa più rumore di una foresta che cresce, e mentre è facile fermarsi ad osservare quello che non funziona si perdono di vista i cambiamenti strutturali, quelli più ingrati ma senza i quali tra dieci anni saremo ancora qui a dirci che le strade hanno le buche e al Comune rubano tutti.

https://infosannio.wordpress.com/2019/06/20/accuse-pretestuose-sulla-raggi-dopo-tre-anni-i-poteri-forti-rivogliono-il-campidoglio/?fbclid=IwAR25njBGWUntulkqlXiINUcy_F8C3h3uKCrweroB22592WAUJ11VvFiVbuA