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mercoledì 26 giugno 2024

Potere, democrazia, uguaglianza, utopia.

 

"Vuolsi cosi' colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare..."

E il "libero arbitrio", dettato da Dio secondo la religione cristiana, che fine ha fatto?
Perchè è lapalissiano che vale la regola di chi comanda, alla faccia dell'utopistica* "democrazia", parola ormai svuotata di significato.
Qui, da noi, il popolo elegge qualcuno che crede di conoscere e che, una volta seduto sullo scranno conquistato, gli volta le spalle ed esercita il proprio volere acquisendo potere e creando quelle sostanziali differenze contrastanti con l'articolo 3 della Costituzione che recita:

"Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali.
E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese."

e che, come è evidente, è stato emendato più volte ad uso e consumo di chi non accetta le uguaglianze espressamente citate e volute da chi le ha scritte.

cetta


utopia*
Dizionario
/u·to·pì·a/
sostantivo femminile
Quanto costituisce l'oggetto di un'aspirazione ideale non suscettibile di realizzazione pratica.
"è un'u. la perfetta uguaglianza tra gli uomini"
PARTICOLARMENTE
Ideale etico-politico destinato a non realizzarsi sul piano istituzionale, ma avente ugualmente funzione stimolatrice nei riguardi dell'azione politica, nel suo porsi come ipotesi di lavoro o, per via di contrasto, come efficace critica alle istituzioni vigenti.

giovedì 13 giugno 2024

La guerra per la lingua. - Guendalina Middei

 

In questi giorni è uscito un saggio pubblicato da Einaudi: La guerra per la lingua; l’ho acquistato d’impulso e adesso dal mio comodino occhieggia la quarta di copertina che recita: «chi riesce a controllare la lingua, deciderà ciò che pensa la gente». La lingua è il terreno di scontro della politica. E la lingua che usiamo è sempre una questione politica, di un certo tipo di politica almeno. La lingua usata nei giornali, nelle radio, nelle televisioni, la lingua d’elezione delle classi dirigenti rivela molto sulla politica interna ed estera di un paese. 

Oggi leggere i giornali significa barcamenarsi tra una sfilza di anglicismi come long warjobs actgreen economyrecovery plan, calchi linguistici e pessimi adattamenti come il caso di smart working, letteralmente lavoro intelligente che in italiano chissà perché ha preso il significato di lavoro da remoto. Il compianto linguista Tullio de Mauro nel 2016 parlava di tsunami anglicus; per il professor Jeffrey Earp gli italiani usano l’inglese «più per mostrarsi colti o moderni che per comunicare nella maniera più chiara possibile».

Ne sono stati scritti a migliaia di articoli sugli anglicismi, qual è allora la necessità di tornare a rimarcare un fenomeno su cui è stata già stata spesa un’abbondanza di parole? Quando si parla di anglicismi si lancia sempre un appello accorato in difesa della lingua italiana, quasi mai ci si arrischia ad analizzare fino in fondo questo fenomeno. Sembra un aspetto marginale, mentre sta esattamente al centro del delicatissimo sistema socio-politico e socio-culturale di un paese. Ma per capirlo fino in fondo bisogna fare un passo indietro e andare a ripescare un classico della letteratura russa: Guerra e pace

Chi legge per la prima volta Guerra e Pace non può non sentirsi confuso, spaesato, perfino infastidito. Il famoso ricevimento di Anna Pavlovna che dà il là al romanzo è scritto quasi interamente in francese. Nel salotto della leonessa di Pietroburgo gli invitati parlano in francese. Metà delle frasi sono in francese, l’altra metà abbonda di parole come mon amichère, charmant, ridicule, caustique, ma tante.  Non si tratta di una trovata letteraria, Tolstoj, da maestro del realismo qual era, ha descritto fedelmente l’atteggiamento linguistico della nobiltà russa. Nel XIX secolo il francese ha conquistato la Russia diventando la lingua ufficiale dell’aristocrazia. Parlare in francese è una moda, un lusso, un segno distintivo. Al contrario l’eroe del romanzo, Pierre, usa di rado il francese, perché crede nell’uguaglianza tra gli uomini e non ritiene di doversi dimostrare superiore a nessuno, nemmeno alla servitù. 

Che cosa contiene allora la lingua, che cosa custodisce, che cosa esprime? Una cultura. La lingua riflette un’identità culturale, innata, mancante o acquisita. Nel II secolo d.C. il greco diventa la lingua d’elezione di un’altra identità culturale e politica. Ai tempi dell’irriverente Luciano di Samosata che ridicolizza questo fenomeno, parlare in greco significava appartenere a quell’élite di intellettuali – allora chiamati neosofisti – che contrapponevano la propria grecità al potere politico romano. 

Gli esempi storici non mancano e ci vorrebbe un’analisi molto accurata, oggi mi limito a dire che la lingua è da sempre ed è sempre stata una questione politica. Quando una cultura ne assorbe e ne soppianta un’altra, lo fa lo attraverso la lingua. Chi conquistava una terra aveva il diritto d’imporre sul popolo assoggettato la sua lingua. Il conquistatore impone la sua lingua, il conquistato la subisce. Nel racconto biblico Dio dà ad Adamo il compito di dare un nome agli animali. Adamo è il primo uomo, il primo della sua dinastia. Dio lo nomina «signore degli animali e delle creature del paradiso terrestre» e in quanto signore ha il diritto d’imporre il nome a tutte le creature che fanno parte del suo regno. Nell’antica Grecia si credeva che un uomo potesse acquisire potere su un altro apprendendone il nome. Quando gli antichi romani volevano cancellare la memoria di una persona, ne cancellavano il nome. I nomi hanno potere. Noi acquisiamo potere sulle cose dandogli un nome. Dire è creare, ma è anche avere potere sulle cose. 

L’incipit di Lolita, il celebre romanzo di Nabokov, ha inizio proprio con un cambiamento di nome: «Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. […] Era Dolores sulla linea punteggiata dei documenti. Ma nelle mie braccia fu sempre Lolita». Humbert Humbert dà alla sua figlioccia dodicenne il nome di Lolita. La fantasia morbosa di Humbert prende possesso di Dolores, si appropria della sua identità, della sua storia, la modella a suo piacimento e lo fa innanzitutto dandole un altro nome. Dolores dunque diventa Lolita. 

Assegnare un nome alle cose, nominarle e rinominarle, lasciare su di esse l’impronta della propria lingua è un atto di possesso, di conquista, di supremazia. La lingua è uno strumento di controllo di sociale: i regimi in ogni tempo ed epoca hanno maneggiato, rivoltato e tentato di togliere significato alle cose e di chiamarle con un altro nome. E le trasformazioni linguistiche riflettono l’avvicendarsi di primati culturali e supremazie politiche. Il linguaggio musicale abbonda di parole italiane, testimonianza dell’influenza che l’Italia esercitò sul canto e la musica; in ambito informatico la supremazia americana è stata indiscussa e questa supremazia si è tradotta in una «lingua informatica» mutuata direttamente dall’inglese. L’inglese però è anche la lingua della finanza, dell’economia, della politica, dell’industria farmaceutica, della sanità. Già, ma perché? Perché gli Stati Uniti esercitano un’egemonia su finanza, economia, politica, sanità

Cosa rivela allora la massiccia influenza di una lingua su un’altra? Una sudditanza psicologica, culturale e politica. Difficile negare l’influenza degli Stati Uniti sulla vita politica italiana e di riflesso sulla cultura italiana e sulla nostra lingua. Viviamo all’ombra di una civiltà più forte, dinamica e agguerrita della nostra che ha affermato su di noi la sua egemonia. E lo fa attraverso le nostre classi dirigenti. I vettori principali dell’immissione di parole inglesi nella nostra lingua sono la televisione, la radio, i giornali, la politica, le istituzioni. Apparati che dall’alto propagano messaggi verso il basso e che già per Pasolini rappresentavano l’opinione e la volontà di un’unica fonte d’informazione: quella del Potere. 

In definitiva non è possibile criticare e contestare l’uso sproporzionato di parole inglesi nella nostra lingua, se non mettiamo prima in discussione i nostri rapporti politici e culturali con la nazione che ne è l’origine. 

[di Guendalina Middei, in arte Professor X]

https://www.lindipendente.online/2024/06/12/la-guerra-per-la-lingua/


Già Churchill aveva proposto in passato di governare il mondo attraverso la lingua, proponendo l'uso dell'inglese come lingua globale da utilizzare: https://italofonia.info/6-settembre-1943-churchill-teorizza-linglese-globale-gli-imperi-del-futuro-sono-quelli-della-mente/

giovedì 15 giugno 2023

SILVIO BERLUSCONI: SE NE VA UN UOMO DI POTERE O DEL POTERE? - Megas Alexandros

 

E’ morto Silvio Berlusconi, per tutti il Cavaliere, e con lui certamente si chiude un’epoca!

Quando muoiono personaggi del calibro del Silvio nazionale i bilanci sono d’obbligo come o forse più delle condoglianze, e stante la prolungata influenza che il suo operato di uomo pubblico ha avuto sulle nostre vite, ognuno di noi ha tutto il diritto di non attendere la Storia, per giudicare un uomo piacevole e simpatico ma che ne ha fatte di cotte e di crude.

Silvio Berlusconi un uomo di potere o del “Potere”? Questa è la domanda che tutti noi ci siamo sempre posti pensando a cosa ha fatto e dov’è riuscito ad arrivare nella sua vita, ma soprattutto per quello che non ha fatto, per le nostre di vite, quando ha avuto tutto il potere per farlo.

Il percorso terreno di Berlusconi in relazione al suo operato, va diviso in modo netto in due parti: quello che ha fatto da imprenditore prima e quello da politico poi.

Fermo restando che anche i successi nel mondo imprenditoriale, quando raggiungono i livelli che ha raggiunto Berlusconi, sono sempre frutto di una liaison di interessi quanto mai stretti con il mondo politico e le lobby che lo comandano. La storia del Cavaliere, è l’ennesima conferma della totale metamorfosi che ogni uomo subisce quando da normale cittadino si trova catapultato nello spregevole mondo della politica.

L’imprenditore di grande successo nel campo immobiliare, il precursore dei tempi in quello televisivo ed il presidente di calcio più titolato al mondo, hanno lasciato il posto al politico che ha contribuito (naturalmente insieme agli altri che si sono alternati), a catapultare il nostro paese nei suoi anni peggiori, dal punto di vista del benessere comune e del degrado morale raggiunto negli ultimi trenta anni.

L’imprenditore che creava migliaia di posti di lavoro ed inanellava successi e miliardi uno dietro l’altro ed il presidente della squadra del Milan, che vinceva in tutti campi del mondo, ha lasciato il posto al politico che ha condotto l’Italia nell’euro, condividendo in pieno tutto il progetto europeo funzionale al saccheggio del paese messo in atto dalle nostre élite, che ha portato disoccupazione, precarietà ed un impoverimento generalizzato mai visto fin dai tempi delle guerre mondiali.

Tra la figura imprenditoriale e quella politica di Silvio Berlusconi c’è poi un comune denominatore, che unisce queste due parti inversamente proporzionali tra loro in fatto di risultati. Un comune denominatore, che si compone dalla classica invidia per chi ha successo. Elemento questo che ha però reso poi difficile decifrare dove sia la verità sulla reale provenienza dei capitali che hanno dato l’avvio alla sua ascesa e che, come sappiamo, sono a tutt’oggi ancora oggetto di indagini in alcune procure.

La classica e fisiologica invidia che alberga tra la gente non sarebbe stata un ostacolo alla verità, se le nostre istituzioni che gestiscono la “Giustizia” non fossero anch’esse state prese d’assalto dagli stessi poteri profondi a cui Berlusconi stesso apparteneva. Finendo per creare quella voluta confusione, dove indagini e processi servono più alle campagne elettorali che a determinare quella verità che uno stato di diritto ed il suo popolo meriterebbero.

Persino le accuse di contiguità con la Mafia che da anni vengono attribuite a Berlusconi, finiscono per lasciare il tempo che trovano, in un paese dove oggi il cancro mafioso è totalmente asservito alla metastasi massonica.

Non voglio e non mi interessa entrare su questi aspetti della vita di Berlusconi, lo faranno i magistrati di Firenze (dove ancora sono in corso le indagini sulle stragi di mafia); naturalmente, se riusciranno a staccarsi dal Sistema di potere che sappiamo ancora essere ben presente nei nostri luoghi di giustizia.

C’è una cosa però che mi interessa in modo particolare dell’operato del Berlusconi-politico; una cosa che, a dire il vero, interessa a tutti noi italiani e che ci dà la risposta alla domanda oggetto del titolo del presente articolo.

In questi giorni, dopo la sua morte, stiamo ascoltando di tutto sulla vita di Silvio Berlusconi. La stampa main- stream, come sempre si divide a metà tra i suoi detrattori e gli innamorati cronici, ma nessuno (e sottolineo nessuno) ricorda quel fatidico anno 2011, quando la nostra democrazia subì un vero e proprio “golpe bianco”.

Gli stessi poteri che nel 1992, con ancora caldo nelle strade il sangue di Falcone e Borsellino, abbatterono la prima Repubblica – e scelsero Silvio Berlusconi come l’uomo che a breve avrebbe fondato un nuovo partito dal nulla (Forza Italia) per condurre il paese – solo pochi anni dopo, con Draghi e l’allora presidente Napolitano al comando, decisero che per la democrazia nel nostro paese l’ora della fine era scoccata.

La storia la conosciamo tutti, Berlusconi se ne va ed arriva a Palazzo Chigi Mario Monti, per mettere in atto le famose politiche fiscali lacrime e sangue, per un massacro sociale funzionale al saccheggio del paese e tenersi l’euro; una valuta di stampo coloniale sostanzialmente a cambio fisso, con la quale è stato ricreato un “gold standard” di fatto, per mantenere intonsi i risparmi delle élite nostrane.

Berlusconi, che negli anni a venire ha poi dimostrato di conoscere il funzionamento della moneta moderna, e quindi cosa sarebbe successo al paese con l’arrivo del governo tecnico, di fronte al golpe ed in totale spregio al bene degli italiani, col quale sempre si sciacquava la bocca nei suoi innumerevoli discorsi pubblici, si fece da parte come un agnellino e addirittura andò anche in sostegno del governo-Monti.

Arrivarono immediatamente la distruzione della domanda interna e quella di un tessuto produttivo che ci aveva reso i migliori al mondo. A fermare lo spread ci pensò immediatamente Draghi, con le ormai note politiche monetarie che avrebbe potuto mettere in atto anche con Berlusconi. Ma quello che ai poteri interessava fermare, per continuare il saccheggio, erano le politiche fiscali e la certezza che gli stessi potessero ricevere 80 miliardi all’anno di interessi dal sangue degli italiani.

Tutto questo Silvio Berlusconi lo sapeva ma, come un vigliacco più totale, rinnegando se stesso e gli italiani, decise di tacere per ordine di scuderia e, naturalmente, per interesse personale.

Non solo, la discesa morale di uomo che invecchiando non si poteva più guardare – noi in TV e lui allo specchio – è continuata quando in seguito, per esclusiva finalità di campagna elettorale, ci ha fatto capire che sapeva benissimo come stavano le cose e cosa stava succedendo al suo popolo.

Basterebbe ascoltare il suo discorso del 2013 al Consiglio Nazionale del Popolo delle Libertà (che riporto qua sotto), per comprendere come Silvio Berlusconi sia stato un appartenente fedele, di quelli che tengo famiglia, alla stregua di un Bagnai qualsiasi (tanto per fare un nome, all’interno dei numerosi esemplari che il Parco della nostra politica contiene):

https://www.facebook.com/100008866261137/videos/638413197899476/

Era il 2012, aveva da poco ceduto la poltrona a Mario Monti quando, in vista della nuova campagna elettorale, Silvio fingeva di minacciare la UE con quello che non aveva fatto appena un anno prima sulla poltrona di governo:

«vi dico l’idea pazza: la Banca d’Italia stampi euro», se la Bce non vuole farlo. «Se l’Europa non dovesse ascoltare le nostre richieste – ha poi aggiunto – dovremmo dire “ciao ciao” e uscire dall’euro» [1]

L’ultima considerazione su Berlusconi la voglio fare a livello morale. Non vi è dubbio che in quel fatidico anno 2011 Berlusconi si è dimostrato tutt’altro che Uomo Vero, poiché invece che essere fedele agli italiani ed alla Repubblica, in virtù del giuramento fatto quando è divenuto Presidente del Consiglio, la sua fedeltà l’ha riservata alle oligarchie che hanno in mano il paese ed alle quali lui stesso apparteneva.

Questo lo rende a pieno titolo uomo del Potere!

Nel paese della normale devianza, come è il nostro attualmente; per molti certamente Berlusconi avrà scritto la storia in senso positivo. In un paese dove i deviati sono considerati normali ed i normali sovversivi, è giusto che Berlusconi si sia meritato i funerali di Stato…..

non per il sottoscritto!

di Megas Alexandros

https://comedonchisciotte.org/silvio-berlusconi-se-ne-va-un-uomo-di-potere-o-del-potere/

sabato 27 maggio 2023

Il potere del popolo. - Massimo Erbetti

 

Meloni al comizio di Catania:
"Non tanti contenti di noi al governo, ma c’è potere del popolo"
Ecco…c'è il potere del popolo…sì vero, il popolo le conferisce potere, ma quale popolo? Quanto popolo?
Il potere che ha, le è conferito da chi la vota, o da chi a votare non ci va? In una nazione dove ormai vota solo il 50% degli aventi diritto, si può credere di aver avuto il mandato dal popolo?
Si può credere, o si vuol far credere?
Il popolo…il popolo…gli italiani…il made in Italy…la difesa della razza…sono concetti che fanno leva nella mente della gente molto più delle manovre che questo governo fa contro il popolo stesso…e se questo accade non è certo colpa di chi utilizza questo metodo per ottenere potere…ma di chi si fa manipolare…il popolo.
Quel popolo che non vota…quel popolo disturbato dall'immigrato che vuole l'euro del carrello al supermercato…quel popolo infastidito da due ragazzi o due ragazze che si baciano…quel popolo che non paga le tasse giustificandosi col fatto che le tasse sono un furto di stato…quel popolo che magari non paga le tasse e si fa l'assicurazione sanitaria privata "perché in questo paese solo il privato funziona"
Quel popolo che si indigna per lo sfruttamento lavorativo e poi lo alimenta scegliendo di comprare un ortaggio proveniente da terre coltivate da vittime del caporalato…"eh ma costa meno"....e certo che costa meno, è prodotto da uno schiavo.
Il problema reale è che il popolo tanto decantato, tanto osannato, tanto amato…non esiste…questo è il problema…
E il potere che ha la Meloni…quel potere conferitole (secondo lei) dal popolo….deriva invece dalla mancanza di essere popolo…noi non siamo un popolo, noi abbiamo una cultura individualista…dove "ognuno per sé e Dio per tutti"...dove si compra (perché costa meno) da chi non paga le tasse, da chi ricicla denaro sporco…dove si accetta di pagare in nero perché si risparmia…
Non ci interessa che quel risparmio sia macchiato di "sangue"
Stessa identica cosa con le tasse…si evade per migliorare il nostro tenore di vita e "sti…" di chi si muore di fame…di chi non può permettersi di andare dal medico…"vita mia, morte tua…"
Ecco questo è il potere che la mancanza di essere "popolo" ha conferito a Meloni…
Non prendiamocela con lei, prendiamocela con noi stessi…col nostro vicino che evade…con chi acquista al nero…con chi sfrutta…con chi discrimina…con chi se ne frega del prossimo…perche la sua forza…sono le nostre bassezze umane.

domenica 26 febbraio 2023

Ma che senso ha? - Massimo Erbetti

 

Oggi avrei voluto parlare di pace, avrei voluto, ad un anno dall'inizio del conflitto ucraino, dire qualcosa in merito, e mi domando che senso abbia e se abbia un senso…

Parlare oggi di pace ti fa apparire filo russo…parlare oggi di pace ti fa apparire un povero "idiota"...solo gli ingenui parlano di pace…i "furbi" parlano di "vittoria" di "ricostruzione"...di affari…di appalti…

Perché alla fine il mondo gira così, no?
Inizia una guerra…tutti scandalizzati e traumatizzati…ma poi…alla fine ci si abitua a tutto…ai feriti, ai morti, alle fosse comuni…alle atrocità…tutto diventa normale e si pensa solo a vincere…che poi dopo centinaia di migliaia di morti da entrambe le parti che senso ha parlare di vittoria, qualcuno ancora me lo deve spiegare…

Ma l'essere umano è fatto così…e lo è in ogni parte del mondo…vi ricordate chi si "fregava" le mani dopo il terremoto dell'Aquila? Gli imprenditori se la ridevano soddisfatti…ci sarebbe stato lavoro per tutti…

E allora mi domando che senso ha parlare di pace?

La pace si racconta ai bambini, mica agli adulti, gli adulti hanno ben altre cose a cui pensare…gli adulti devono pensare al domani…e a dire il vero lo fanno molto bene…costruiscono il futuro sulla distruzione del presente…la storia è sempre la stessa ormai da millenni…conquistare e sottomettere altri popoli per far "grande" il proprio.

E poi parlare di pace non ti fa passare alla storia…quanti personaggi del passato vi ricordate perché parlavano di pace? Pochissimi…e quanti invece vi ricordate perché hanno vinto guerre?

Per cui? Che senso ha?

Avete più visto morti di guerra in tv? Forse…ma pochi, molto pochi…all'inizio se ne fanno vedere molti…all'inizio c'è bisogno di mostrare la sofferenza, la distruzione, le devastazioni…ma poi basta…ad un certo punto la guerra deve diventare una sorta di tifo da stadio…non si deve più ragionare per farla cessare…si deve invece programmare il dopo…

È proprio vero…un morto è una tragedia…e un milione di morti una statistica…ma dimentichiamo che ognuno di quel milione è stata una tragedia per chi aveva accanto, per chi gli voleva bene…

Ma queste sono solo chiacchere per sentimentali con poca spina dorsale…la realtà è un'altra…e l'abbiamo di fronte ogni giorno…quante e quali armi mandare…quali e quante zone da ricostruire…quale fetta di torta spartirsi…

Lo spessore politico di un leader non si dimostra in base alla sua capacità di cercare la pace, ma in quella di essere più influente all'interno di un conflitto.

E allora? Di che pace andiamo parlando? Che senso ha?

Beh a dire il vero un senso, almeno per me, lo ha…lo ha eccome…io non voglio essere come loro…io non voglio essere ricordato…io voglio essere dimenticato e dimenticato in fretta…voglio stare dalla parte degli "ignoti" che hanno parlato e voluto la pace…perché è sì vero che la storia la scrive chi vince…ma è altrettanto vero che la storia scritta col sangue a me non interessa.


https://www.facebook.com/photo/?fbid=10223037343747664&set=a.2888902147289

venerdì 22 ottobre 2021

Prelievo Irpef vigente fino al 2021

 


Ad oggi, 22.19.2021, gli scaglioni Irpef vigenti sono questi:

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fino a 15.000 euro di reddito, 23%;

da 15.000,01 fino a 28.000 euro di reddito, 27%;

da 28.000,01 fino a 55.000 euro di reddito, 38%;

da 55.000,01 fino a 75.000 euro di reddito, 41%;

oltre i 75.000 euro di reddito, 43%.

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Analizziamo le percentuali di aumento dell’aliquota e vediamo che sono le seguenti:

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da primo a secondo scaglione, 4%;

da secondo a terzo scaglione, 11%;

da terzo a quarto scaglione, 3%;

da quarto a quinto scaglione, 2%.

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Cosa salta agli occhi guardando questi numeri? 

Che i politicanti da strapazzo hanno fatto bene i loro conti e, invece di tassare maggiormente i redditi più alti, hanno volutamente tartassato quelli medio/bassi perchè recano il maggior numero di soldi nelle casse dell'erario in quanto provenienti dalla fascia di lavoratori più numerosa.

Se diminuissero le percentuali delle fasce intermedie e aumentassero quelle delle superiori avrebbero un gettito di molto inferiore rispetto al presente. 

Potrebbero addivenire a migliori consigli solo in un caso: imponendo l'aumento degli stipendi dei lavoratori... 

Ma sappiamo fin troppo bene che un miracolo del genere non avverrà mai, quindi, noi, il "capitale umano" che regge le sorti economiche del mondo, continuerà a foraggiare inutili servi del potere ed il potere stesso.



cetta.

giovedì 1 luglio 2021

Potentati e politica deviata contro Giuseppe Conte e il suo tentativo di rinnovamento politico. - Alfredo Morganti


Fatemi dire due parole sul caso Conte e sul trattamento che sta avendo anche da una parte del Movimento. La prendo larga. Questo Paese, ogni qualvolta abbia preso corpo un'istanza effettiva di rinnovamento politico, ha subito reagito con un colpo di coda. La stagione di Moro e Berlinguer è finita nel sangue: si scomodarono persino le Brigate Rosse e i terroristi. La segreteria Bersani, da parte sua, ha subito il durissimo contraccolpo di una congiura di Palazzo, quella dei 101. Cito questi due esempi come paradigmatici. Oggi, il tentativo Conte (prima da premier e poi da leader dei 5stelle) è stato sottoposto a un fuoco di fila senza precedenti: destra e sinistra (presunte), ma sarebbe meglio dire Lor Signori e lacchè, hanno lanciato i razzi pur di fare deragliare il suo progetto.

Tra dicembre e gennaio in Italia si sono mossi in tanti per ribaltare quello che era un governo politico legittimamente insediato. Abbiamo visto schierati contro il governo Conte, e non sempre limpidamente, Renzi, il mondo delle imprese, la destra, i settori deviati della politica e una parte del PD, persino i servizi in sosta negli Autogrill. Un festival. C'erano tanti soldi in ballo, ma soprattutto era in ballo il potere che quei soldi conferivano, trasformando persino i guitti in attori di scena. Non è bastato. Oggi a Conte si toglie di mano anche il Movimento che pure lo aveva indicato e sostenuto come premier. Perché? Perché Conte è portatore di rinnovamento politico progressista, non è affatto un populista di mezza tacca, come invece lo dipingono quelli che oggi sostengono Grillo dopo averlo schifato e deriso negli anni precedenti (destra, orfiniani, renziani, padroni e compagnia cantante).
Conte ha in mente quello che in Italia appare come uno scandalo politico, ossia la costruzione di una alleanza popolare, di progresso, tra sinistra e Movimento, che non prevede i cespugli centristi o centro-destristi, o almeno non li prevede nel ruolo a loro congeniale di ricattatori o mestatori. Conte riprende un filo rosso, come dicevo, quello che da Moro-Berlinguer è poi passato per Bersani e per il progetto di 'Italia. Bene Comune': il filo del rinnovamento politico, dello sviluppo democratico, della partecipazione organizzata, dei partiti e delle istituzioni, del progresso, dei diritti e della giustizia sociale. Questa cosa a Lor Signori e ai loro scagnozzi non va bene, non è mai andata bene, e hanno alzato le paratie pur di fermare i tentativi che si sono succeduti. Questa cosa vorrebbe dire ripristinare forme di agire politico finalizzate al rinnovamento del Paese a partire dagli ultimi, dai più fragili, da chi ha sempre pagato, da chi conosce solo il proprio lavoro (quando c'è).
Non voglio dire che il tentativo di Conte sarebbe un successo e sarebbe privo di contraddizioni, niente affatto. Voglio dire che, come in altri casi, non vorrebbero nemmeno che questo tentativo cominciasse, lo vogliono stoppare subito. Ci riusciranno? Io credo di no. O almeno non sarà facile. E comunque, da parte nostra, facciamo di tutto perché non sia facile come Lor Signori vorrebbero. Il problema non è la destra o la sinistra (presunta peraltro), come dicevo. Il problema è un fronte traversale di "resistenti" al rinnovamento, che assume varie forme (centrismo, renzismo, potentati, destra, lobby di vario genere, classe politica deviata e settori ampi del PD), che è pronto a tutto pur di intascare i soldi europei e garantirsi una via sgombra da controlli e da affari certi.
Conte ha un patrimonio di fiducia e di consenso popolare che sarà difficile comprimere. Credo persino che questi loschi tentativi lo rafforzeranno. Certo, temo che le tenteranno davvero tutte, anche di inenarrabili. Ma la sinistra e i settori contiani del Movimento, da parte loro, non devono demordere. Un sostegno non può mai mancare a chi tenta la strada del rinnovamento politico in un Paese dove la politica, intesa come agire di popolo e come impegno democratico nei partiti e nelle istituzioni, e stata infangata e dimenticata. Per questo lo sappiano sin d'ora: non finisce mica qui. Dovranno sudarsela anche stavolta. La vittoria non se la portano da casa.

Alfredo Morganti - FB

sabato 22 maggio 2021

(Non) lasciateli lavorare. - Marco Travaglio

 

Ormai non passa giorno senza un nuovo, vergognoso segnale di restaurazione. Ieri il cosiddetto ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, premio Attila ad honorem, ha dato il via libera a nuove trivellazioni nel mare Adriatico. E martedì la “Commissione di garanzia” del Senato – quella che ha appena restituito il vitalizio al corrotto Formigoni – si appresta a violare un’altra volta le regole ridando il bottino agli ex. I giornali, tutti tranne il Fatto, continuano a ignorare questo scandalo. L’andazzo generale è “tutto va ben madama la marchesa” e guai a disturbare il manovratore. Il peggio della cultura autoritaria, un tempo esclusiva della stampa berlusconiana (“Lasciatelo lavorare”, “Ghe pensa lü”), ha ora traslocato sugli house organ draghiani tipo Repubblica, dove si leggono titoli ai confini della realtà. Due mesi fa: “Draghi il Recovery se lo riscrive da solo”. E ieri: “Tasse, la strategia di Draghi. Non saranno i partiti a ridisegnare il fisco”. E chi dovrebbe ridisegnarlo, di grazia, se non le forze politiche rappresentate in Parlamento in base ai voti ottenuti alle elezioni? Cosa c’è di più politico e di meno tecnico del fisco del futuro, cioè della scelta su chi debba pagare più tasse e chi meno?

Il condono di marzo sulle cartelle esattoriali del 2000-’10 (con la scusa del Covid-19), ha già detto molto, sull’orientamento di questo governo. Il resto l’ha chiarito l’altroieri il premier, con una voce dal sen fuggita. Alla timida proposta di equità lanciata da Letta per una tassa di successione sui grandi patrimoni che finanzi le politiche per i giovani, ha risposto glaciale: “Non è il momento di prendere soldi ai cittadini, ma di darli”. E quale sarebbe il momento di dare una tosatina alle rendite e alle diseguaglianze, ingigantite dai governi B. con l’abolizione della tassa sulle eredità e dai governi Letta e Renzi con l’abrogazione dell’Imu sulle case dei ricchi, se non questo della crisi post-Covid? Per “dare soldi”, da qualche parte bisogna prenderli: e siccome si riparla di riforma delle pensioni, non vorremmo che fossero i pensionati a pagare il conto. Insieme al milione (almeno) di licenziati prossimi venturi grazie alla sciagurata revoca del blocco. E ai precari dei subappalti, che col dl Semplificazioni anticipato ieri dal Fatto diventeranno carne da cannone con una deregulation sui salari e la sicurezza che fa impallidire quelle berlusco-renziane. Alcuni buontemponi auspicano che questo governo di centrodestra in un Parlamento a maggioranza di centrosinistra duri fino al 2023. Davvero 5Stelle, Pd e Leu intendono inghiottire (e farci inghiottire) vagonate di rospi per altri due anni? E sono sicuri, a fine corsa, di trovare ancora qualche elettore disposto a votarli?

ILFQ

domenica 14 febbraio 2021

La lezione della sociologa Guillaumin: “Sesso e razza sono un’invenzione del potere.” - Angelo Molica Franco

 

Pubblicato in Italia un saggio del 1992: secondo l'attivista femminista (scomparsa pochi anni fa), tutto parte dal corpo, che viene studiato quale costruzione sociale, materiale e simbolica, che genera una differenza essenzializzata, carica di sfruttamento, oppressione, discriminazione.

Non fu il solo, Michel Foucault, nel Novecento a occuparsi dello stretto e ambivalente legame che intercorre tra sesso e potere. Pionieristica e poco tradotta in Italia, l’opera della sociologa Colette Guillaumin (1934-2017) è stata una ricerca incessante per scindere, teorizzare e scardinare i rapporti di dominazione. Ancorché obliata, fu una delle intellettuali che più hanno coadiuvato la riflessione sul rapporto tra corpo, sesso e razza.

Al centro delle sue riflessioni, due temi intrinsecamente connessi: l’ideologia razzista intesa come una costruzione e rappresentazione che tende a naturalizzare le differenze sociali e, dall’altra, i rapporti fra i sessi, intesi come effetto storico-sociale di una particolare forma di “razzizzazione”. In un contesto, come quello odierno, in cui la lettura biologica del mondo sociale continua a guadagnare terreno, la sua critica della legittimazione naturalista dei rapporti sociali di razza e sesso costituisce uno degli apporti maggiori e mai inattuali della studiosa. Se oggi, infatti, l’idea che il “naturale” sia costruito dalla cultura ha guadagnato terreno in alcuni ambiti delle scienze umane, è grazie a Guillaumin.

Per questo, le vanno doverosamente versate alcune righe biografiche: Guillaumin è stata sociologa e antropologa, ricercatrice presso il Centre National de la Recherche Scientifique en France (Cnrs) e docente ospite presso le università di Amiens, Ottawa, e Montréal. Negli anni ’70 e ’80 ha fatto parte del collettivo di Questions Feministes e della redazione di Le Genre Humain, ambedue riviste francesi. I suoi titoli più noti sono L’idéologie raciste. Genèse et langage actuel (1972); Sexe, Race et Pratique du Pouvoir (1992). Quest’ultimo, ripreso e rilanciato con grande fermento negli anni 2000 dal grande editore francese Gallimard, è uscito in Italia: Sesso, razza pratica del potere (edizioni ombre corte, a cura di Sara Garbaroli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz, pp. 245, euro 22).

Guillaumin, dunque, è stata tra le più inflessibili teorizzatrici dei nessi tra sessismo e razzismo. Tutto parte dal corpo, che viene studiato quale costruzione sociale, materiale e simbolica, che genera una differenza essenzializzata, carica di sfruttamento, oppressione, discriminazione. Esso viene determinato dal corpo “altro” (cioè il corpo dell’altro e dell’altra) e dalle ideologie sessiste e razziste. Il tentativo teorico di Guillaumin è quello di snidare il luogo dove si situa il fenomeno razzista e sessista prima ancora delle sue manifestazioni materiali. Quale sia dunque il sistema di sensi e significati che vede attivi contemporaneamente il razzizzante e il razzizzato. Guillaumin spiega si tratta di schermi di relazione inconsapevolmente interiorizzati con ciò che è socialmente designato e dunque avvertito come differente. “Vale a dire – scrive la sociologa – che non è all’ordine del contenuto, sia esso di immagini o di valori, che si fa riferimento, ma a quello dell’organizzazione ideologica latente”. Essere altri per natura – per questioni di razza e di sesso – induce a ricevere un trattamento di appropriazione, esclusione e dominio.

La visione di Guillaumin è radicale: le razze e i sessi non esistono al di fuori della biologia. Sono “fatti sociali” ma non realtà. Sono il razzismo e il sessismo come ideologie che producono la nozione di “razza” e di “sesso”; non sono il “sesso” e la “razza” a produrli. Le razze al pari dei sessi sono “costruzioni sociali” e il razzismo come il sessismo una struttura ideologica legata alla naturalizzazione dei fenomeni sociali. Guillaumin combatte la strana e diffusissima idea che le azioni di un gruppo umano, di una classe, siano “naturali”, che cioè siano indipendenti dai rapporti sociali, e che preesistano a tutta la Storia, a tutte le condizioni concrete determinate. Ogni gesto, attuato o subito, fisico o mentale, anche il più innato, è un risultato. Ed è qui che mette in luce la doppia esistenza di un “sistema dei marchi” (assimilabile al concetto di “ghetto” e “ghettizzazione”). Da una parte c’è l’applicazione, dall’esterno, di un marchio alla persona, per rendere visibile l’appartenenza a un gruppo sociale: un esempio, l’abbigliamento; altro esempio, le persone possono essere marchiate con un segno permanente, direttamente sul corpo, come gli schiavi e i deportati. Dall’altra parte, esiste quel marchio che strumentalizza elementi somatici a fini sociali, economici e politici. Il concetto di marchio, che classifica e divide gli individui all’interno di una gerarchia, è basilare per la formazione dell’ideologia razzista e sessista.

L’analisi che fa della nozione di differenza è implacabile. “Dietro l’idea di differenza – scrive Guillaumin – si cela la dominazione: in altre parole l’ideale che tutti appartengano allo stesso universo, che tutti possiedano lo stesso referente ma in termini di differenti forme dell’essere, per sempre fissate”. L’autrice, dunque, già negli anni 80 metteva la società in guardia rispetto al pericolo ideologico del “diritto alla differenza culturale” perché il rischio che si correva era di sottolineare troppo le specificità culturali dei gruppi dominanti rispetto alle minoranze. Basta sfogliare un qualsiasi giornale e lanciare un’occhiata alla cronaca (italiana o estera) per comprendere quanto abbia avuto e abbia ancora ragione.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/02/10/la-lezione-della-sociologa-guillaumin-sesso-e-razza-sono-uninvenzione-del-potere/6093976/

E non solo, anche i partiti, le religioni, le suddivisioni dei territori in nazioni, ...
L'uomo vuole comandare, possedere e per farlo si inventa assurdi paletti.
Sappiamo tutti che per governare un paese non servono tanti partiti, basterebbero poche persone scelte e preparate che si assumano l'onere di governare, senza tendenze ideologiche o meno, perché tutti siamo in grado di capire ciò che serve alla comunità, senza bisogno di ricorrere alle ideologie.
Così vale anche per le religioni, i cui capi hanno come unico scopo recepire denaro, fare vita da nababbi e dettare legge.
Stessa cosa per le suddivisioni territoriali; con queste ultime l'uomo decide che altri uomini non possono percorrere liberamente tutti i luoghi della terra, che non è appannaggio dei pochi, ma di tutti.
E così si sono inventati anche che il colore della pelle cela differenze delle quali non si conosce la natura...
Siamo tutti uguali, la terra è di tutti, l religioni sono un'invenzione - lo stesso fatto che ce ne siano tante qualche dubbio dovrebbe crearlo anche in chi crede - i partiti sono le spiagge dorate di chi ambisce al comando, anche se di pochi individui, perché, come soleva dire un personaggio d'altri tempi, "comandare è meglio che fottere!"
C.

giovedì 22 ottobre 2020

La guerra dei manager allo smart working. - Domenico De Masi

 

Tra il 28 febbraio e il 31 agosto 2020, senza nessuna preparazione, è stato realizzato in Italia il più grande esperimento organizzativo mai tentato nella storia del paese. Milioni di lavoratori – impiegati, funzionari, manager, dirigenti e imprenditori – hanno improvvisamente smesso di lavorare in ufficio e cominciato a lavorare da casa. Stessa cosa è accaduta nel resto del mondo a tre miliardi di colletti bianchi.

In tutta la storia delle scienze organizzative, l’unica rivoluzione paragonabile a questa è avvenuta in America all’inizio del Novecento ma, per estendersi da Detroit e da Filadelfia su tutto il pianeta, ha impiegato parecchi decenni. Quella rivoluzione riguardava i colletti blu; questa riguarda i colletti bianchi. In entrambi i casi, l’innovazione non è salita dal basso, ma è calata dall’alto ed è stata opera di ingegneri, non di sociologi o di politici: allora si trattò di ingegneri metalmeccanici; questa volta si è trattato di ingegneri elettronici.

Il grande esperimento ci ha improvvisamente esibito gli stati d’animo, il livello di professionalità, il grado di predisposizione al cambiamento degli impiegati, dei manager, delle aziende, dei sindacati, degli studiosi, degli intellettuali.

Prima che iniziasse, il mondo del lavoro italiano aveva già metabolizzato, quasi senza accorgersene, alcune certezze. Una di queste era che ormai negli uffici si lavorava sempre meno con persone vicine di scrivania, e sempre più con interlocutori che potevano essere fisicamente ovunque. Tra gli impiegati, senza che nessuno lo avesse deciso, vigeva la cosiddetta “regola dei 15 metri” per cui, se una persona lavorava a una certa distanza dal collega, finiva per comunicare con lui tramite email. piuttosto che a voce. A questo punto non vi era nessuna differenza tra lavorare entrambi in ufficio o lontano, magari ai punti opposti del pianeta.

Un’altra certezza era che, per la diffusione dello smart working, si trattava solo di una questione di tempo. Chi è nato nello stesso anno di Facebook, cioè nel 2004, fra dieci anni ne avrà 26; chi è nato con Instagram, cioè nel 2010, ne avrà 20. In altri termini, fra dieci anni tutti gli italiani in età lavorativa saranno digitali e, salvo in caso di mansioni non lavorabili a distanza, nessuno accetterà di lavorare per un’azienda che non gli assicura lo smart working.

Un’altra certezza evidente a tutti, consisteva nella constatazione che già prima del lockdown quasi tutti i colletti bianchi ormai lo praticavano a livello informale nei treni, nelle stazioni, nei bar, nei ristoranti, anche se l’azienda non lo riconosceva a livello contrattuale.

Se è vero che alla vigilia del lockdown vi erano 570.000 lavoratori in remoto e pochi giorni dopo ve ne erano tra i 6 e gli 8 milioni, se è vero che con il lavoro agile la produttività aumenta del 15-20%, se è vero che nulla impediva di introdurre lo smart working già da anni, in modo pianificato, come mai non è stato fatto? Perché la produttività delle aziende è stata così lungamente e intenzionalmente depressa? Chi porta la responsabilità di tutto questo? La struttura aziendale ha una forma piramidale che attribuisce potere, responsabilità e gratificazioni ai capi. Supponendo che nelle organizzazioni vi sia mediamente un capo ogni dieci dipendenti, ciò significa che, dietro 6-8 milioni di smart workers vi sono almeno 600-800mila capi diretti e migliaia di capi del personale. Questi, impedendo l’adozione del lavoro agile, hanno causato alle loro aziende e alle loro pubbliche amministrazioni – per mancanza di professionalità o di coraggio o di onestà intellettuale – un danno incalcolabile. Mettiamoci nell’ottica di uno studioso di organizzazioni come J. C. Flanagan e applichiamo la sua Critical incident technique al lockdown considerandolo appunto come un incidente critico rivelatore di pericolose disfunzioni. Del resto la parola greca “apocalisse” non significa soltanto distruzione, ma anche “rivelazione di cose nascoste”. Ebbene, il Coronavirus ci ha rivelato che questa inadempienza dei capi – soprattutto dei capi del personale – per cui hanno ignorato un’innovazione organizzativa di accertato vantaggio per l’azienda, per i lavoratori e per la società, rinvia a una sub-cultura che va messa a nudo e combattuta perché dannosa e contagiosa non meno del virus rivelatore.

Ma in che cosa consiste? Ripeto qui ciò che ho già scritto più volte: consiste nel primato onnivoro dell’economia, del profitto e degli affari; in un’assunzione del successo economico e dei consumi come misure dell’autorealizzazione personale; nella precedenza accordata alla dimensione pratica su quella estetica, alla dimensione razionale su quella emotiva, alla dimensione aziendale su quella soggettiva; nella propensione ad anteporre la concorrenza all’alleanza, la competitività alla solidarietà; nella preferenza per tutto ciò che è quantitativo, pianificato, specializzato, sotto controllo; nell’adesione alla struttura gerarchica, piramidale delle organizzazioni fino alla sistematica identificazione con i vertici e all’accettazione acritica degli ordini che vengono dall’alto; nell’idolatria dell’efficienza intesa come quantità e velocità; nella visione maschilista e aggressiva della vita e della professione; in una buona dose di cinismo verso tutto ciò che è perdente; in una dichiarazione di intenti incline all’innovazione purché non modifichi gli assetti del potere costituito; in un modernismo tecnologico accoppiato al tradizionalismo culturale; in una marcata propensione verso il dovere inteso come negazione del piacere; nella presunzione di reputarsi artefici esclusivi del progresso e del benessere di una nazione; nella difficoltà di recepire le conquiste civili come la parità di genere; nella tendenza a sottovalutare e semplificare le dinamiche sociali, rifiutare istintivamente ogni visione di ampio respiro; nella considerazione delle norme e dei sindacati come intralci da cui affrancarsi.

Eppure oggi i manager hanno davanti a sé l’orizzonte sconfinato ed esaltante della società postindustriale agli albori. Qui, l’impresa resta una istituzione fondamentale, anche se non più egemone. Da essa e da chi la dirige dipende quasi tutta la ricchezza e buona parte della democrazia destinate alle nuove generazioni. Se i manager tradiranno la missione civile che deriva dal loro potere, insistendo nella loro cultura e imponendola ai loro collaboratori, il prezzo che pagheranno sarà altissimo perché i loro ritmi, le loro preoccupazioni, le loro visioni, si ridurranno a ritmi, preoccupazioni, visioni di un sistema insensato.

Per evitare il collasso, i manager debbono intraprendere una laboriosa palingenesi, o non potranno mai diventare un ceto e una forza sociale che, promuovendo la propria libertà, potrà promuovere la libertà di tutti. Resterà un ceto e una forza non liberatrice, ma da liberare.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/22/la-guerra-dei-manager-allo-smart-working/5975241/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-10-22

Purtroppo, la guerra dei manager al lavoro a distanza ha una sua logica, anche se alquanto discutibile.
Un manager si sente manager non solo perchè gli viene affidato un incarico di responsabilità, ma perchè quello stesso incarico lo rende possessore di un potere che esercita come meglio crede: favorendo qualche raccomandato per avanzare di ruolo; mortificando i suoi sottoposti per gratificare il suo ego; esercitando la sua posizione di capo per molestare sessualmente le collaboratrici promettendo possibili ed eventuali vantaggi... e via discorrendo.
E' il potere ciò che vuole la maggior parte della gente, per cui accetta ogni incarico di responsabilità, dimenticando, una volta ottenuto il piccolo potere, la responsabilità affidatagli, e mettendo in atto ciò che il potere gli permette... anche irresponsabilmente.
Un manager è manager quando può esercitare il potere.
E poi, come far fare carriera ai raccomandati, se con il lavoro a distanza emergesse la meritocrazia?
Cetta.