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giovedì 13 giugno 2024

La guerra per la lingua. - Guendalina Middei

 

In questi giorni è uscito un saggio pubblicato da Einaudi: La guerra per la lingua; l’ho acquistato d’impulso e adesso dal mio comodino occhieggia la quarta di copertina che recita: «chi riesce a controllare la lingua, deciderà ciò che pensa la gente». La lingua è il terreno di scontro della politica. E la lingua che usiamo è sempre una questione politica, di un certo tipo di politica almeno. La lingua usata nei giornali, nelle radio, nelle televisioni, la lingua d’elezione delle classi dirigenti rivela molto sulla politica interna ed estera di un paese. 

Oggi leggere i giornali significa barcamenarsi tra una sfilza di anglicismi come long warjobs actgreen economyrecovery plan, calchi linguistici e pessimi adattamenti come il caso di smart working, letteralmente lavoro intelligente che in italiano chissà perché ha preso il significato di lavoro da remoto. Il compianto linguista Tullio de Mauro nel 2016 parlava di tsunami anglicus; per il professor Jeffrey Earp gli italiani usano l’inglese «più per mostrarsi colti o moderni che per comunicare nella maniera più chiara possibile».

Ne sono stati scritti a migliaia di articoli sugli anglicismi, qual è allora la necessità di tornare a rimarcare un fenomeno su cui è stata già stata spesa un’abbondanza di parole? Quando si parla di anglicismi si lancia sempre un appello accorato in difesa della lingua italiana, quasi mai ci si arrischia ad analizzare fino in fondo questo fenomeno. Sembra un aspetto marginale, mentre sta esattamente al centro del delicatissimo sistema socio-politico e socio-culturale di un paese. Ma per capirlo fino in fondo bisogna fare un passo indietro e andare a ripescare un classico della letteratura russa: Guerra e pace

Chi legge per la prima volta Guerra e Pace non può non sentirsi confuso, spaesato, perfino infastidito. Il famoso ricevimento di Anna Pavlovna che dà il là al romanzo è scritto quasi interamente in francese. Nel salotto della leonessa di Pietroburgo gli invitati parlano in francese. Metà delle frasi sono in francese, l’altra metà abbonda di parole come mon amichère, charmant, ridicule, caustique, ma tante.  Non si tratta di una trovata letteraria, Tolstoj, da maestro del realismo qual era, ha descritto fedelmente l’atteggiamento linguistico della nobiltà russa. Nel XIX secolo il francese ha conquistato la Russia diventando la lingua ufficiale dell’aristocrazia. Parlare in francese è una moda, un lusso, un segno distintivo. Al contrario l’eroe del romanzo, Pierre, usa di rado il francese, perché crede nell’uguaglianza tra gli uomini e non ritiene di doversi dimostrare superiore a nessuno, nemmeno alla servitù. 

Che cosa contiene allora la lingua, che cosa custodisce, che cosa esprime? Una cultura. La lingua riflette un’identità culturale, innata, mancante o acquisita. Nel II secolo d.C. il greco diventa la lingua d’elezione di un’altra identità culturale e politica. Ai tempi dell’irriverente Luciano di Samosata che ridicolizza questo fenomeno, parlare in greco significava appartenere a quell’élite di intellettuali – allora chiamati neosofisti – che contrapponevano la propria grecità al potere politico romano. 

Gli esempi storici non mancano e ci vorrebbe un’analisi molto accurata, oggi mi limito a dire che la lingua è da sempre ed è sempre stata una questione politica. Quando una cultura ne assorbe e ne soppianta un’altra, lo fa lo attraverso la lingua. Chi conquistava una terra aveva il diritto d’imporre sul popolo assoggettato la sua lingua. Il conquistatore impone la sua lingua, il conquistato la subisce. Nel racconto biblico Dio dà ad Adamo il compito di dare un nome agli animali. Adamo è il primo uomo, il primo della sua dinastia. Dio lo nomina «signore degli animali e delle creature del paradiso terrestre» e in quanto signore ha il diritto d’imporre il nome a tutte le creature che fanno parte del suo regno. Nell’antica Grecia si credeva che un uomo potesse acquisire potere su un altro apprendendone il nome. Quando gli antichi romani volevano cancellare la memoria di una persona, ne cancellavano il nome. I nomi hanno potere. Noi acquisiamo potere sulle cose dandogli un nome. Dire è creare, ma è anche avere potere sulle cose. 

L’incipit di Lolita, il celebre romanzo di Nabokov, ha inizio proprio con un cambiamento di nome: «Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. […] Era Dolores sulla linea punteggiata dei documenti. Ma nelle mie braccia fu sempre Lolita». Humbert Humbert dà alla sua figlioccia dodicenne il nome di Lolita. La fantasia morbosa di Humbert prende possesso di Dolores, si appropria della sua identità, della sua storia, la modella a suo piacimento e lo fa innanzitutto dandole un altro nome. Dolores dunque diventa Lolita. 

Assegnare un nome alle cose, nominarle e rinominarle, lasciare su di esse l’impronta della propria lingua è un atto di possesso, di conquista, di supremazia. La lingua è uno strumento di controllo di sociale: i regimi in ogni tempo ed epoca hanno maneggiato, rivoltato e tentato di togliere significato alle cose e di chiamarle con un altro nome. E le trasformazioni linguistiche riflettono l’avvicendarsi di primati culturali e supremazie politiche. Il linguaggio musicale abbonda di parole italiane, testimonianza dell’influenza che l’Italia esercitò sul canto e la musica; in ambito informatico la supremazia americana è stata indiscussa e questa supremazia si è tradotta in una «lingua informatica» mutuata direttamente dall’inglese. L’inglese però è anche la lingua della finanza, dell’economia, della politica, dell’industria farmaceutica, della sanità. Già, ma perché? Perché gli Stati Uniti esercitano un’egemonia su finanza, economia, politica, sanità

Cosa rivela allora la massiccia influenza di una lingua su un’altra? Una sudditanza psicologica, culturale e politica. Difficile negare l’influenza degli Stati Uniti sulla vita politica italiana e di riflesso sulla cultura italiana e sulla nostra lingua. Viviamo all’ombra di una civiltà più forte, dinamica e agguerrita della nostra che ha affermato su di noi la sua egemonia. E lo fa attraverso le nostre classi dirigenti. I vettori principali dell’immissione di parole inglesi nella nostra lingua sono la televisione, la radio, i giornali, la politica, le istituzioni. Apparati che dall’alto propagano messaggi verso il basso e che già per Pasolini rappresentavano l’opinione e la volontà di un’unica fonte d’informazione: quella del Potere. 

In definitiva non è possibile criticare e contestare l’uso sproporzionato di parole inglesi nella nostra lingua, se non mettiamo prima in discussione i nostri rapporti politici e culturali con la nazione che ne è l’origine. 

[di Guendalina Middei, in arte Professor X]

https://www.lindipendente.online/2024/06/12/la-guerra-per-la-lingua/


Già Churchill aveva proposto in passato di governare il mondo attraverso la lingua, proponendo l'uso dell'inglese come lingua globale da utilizzare: https://italofonia.info/6-settembre-1943-churchill-teorizza-linglese-globale-gli-imperi-del-futuro-sono-quelli-della-mente/

sabato 29 gennaio 2022

Quelle figuranti del capo leghista per la “carta rosa”. - Maddalena Oliva

 

È l’alba delle maratone tv. La giornata, nel suo epilogo, sembra avere dell’incredibile, ma sono ancora solo le 12. Un interrogativo avanza in diretta. Ci colleghiamo con Matteo Salvini, ha convocato alla Camera una conferenza stampa. “Ha accanto Erika Stefani e Laura Ravetto, non so se ci sia una ratio nelle posizioni…”, dicono da studio. “Nella stessa sala dove un altro Matteo aveva accanto due parlamentari di sesso femminile, ma almeno lì la presenza era dovuta al fatto che le due stavano per dimettersi da ministre. La presenza oggi di Ravetto e Stefani a cosa va attribuita?”. Già, a cosa andrà attribuita l’eccezionale presenza di due donne accanto al Segretario, se non “a sottolineare che è una candidatura femminile quella della presidente del Senato”? Donne come figuranti e pure in versione testimonial/supporter. E così, con tale premessa, tra i vari spettacoli che il grande gioco del Quirinale ci sta restituendo in questi giorni, abbiamo assistito anche a questo. Ovvero a un condensato di idiozie, arretratezze culturali, vittimizzazioni secondarie e stereotipi di genere, in formato conferenza stampa.

Salvini – Chi mi è vicino non è stato scelto a caso… (figurine sì, ma con ratio). Do la parola per un minuto a Laura Ravetto (in quanto capo io ti concedo, donna, il diritto di parlare, giusto per un minuto però) responsabile Pari opportunità e poi Erika Stefani, ministro alle disabilità (mistero del genere).

Ravetto – Sono orgogliosa di avere un leader che per primo nella storia (Ravetto, come predisposizione, deve essere rimasta ai tempi dell’adorazione di B.) propone il nome di una donna alla presidenza della Repubblica. Oggi c’è l’occasione di praticare davvero le pari opportunità (che vanno praticate, mi raccomando)… Avere una donna alla Presidenza della Repubblica permetterebbe di avere un’alleata ancora più forte (un uomo, no) sulle tematiche di questo settore (“settore”). Penso alle battaglie per un fondo per le giovani madri, al bonus bebè… (per chi avesse dubbi sul modello di donna del loro immaginario).

Stefani – Come ufficio della disabilità stiamo seguendo molti temi (ha esordito davvero così, ministra della Repubblica). C’è un Paese dove una parte di cittadini è stata dimenticata (per proprietà transitiva, l’equazione evidentemente è: disabile = soggetto debole; soggetto debole = donna; donna = disabile). Abbiamo previsto un fondo per l’autismo per interventi socio-assistenziali… E poi quello abbiamo fatto per l’accesso alle Ztl… La presidente Casellati ha dato prova di sensibilità sul tema, ha fatto visite… (attenta e caritatevole, come si vuole una donna).

Una conferenza stampa che mostra il livello della classe politica di un Paese, il nostro, in cui la questione della rappresentanza politica delle donne non è riuscita, almeno finora, a fare quel salto di “normalità” che altrove, invece, si è verificato. Tutto è eccezionale, se si parla di donne. Tutto è strumentale. Tutto diventa sminuente. Dietro i tanti appelli (più o meno retorici) per una donna al Colle – “Una donna al Quirinale” “E se fosse donna?” “Perché non una donna?” “Ipotesi donna” – c’è pure la stessa logica: la bandiera che diventa figurina. Basta che sia rosa, e che si possa scartare. Meglio senza nome (così è stato per giorni), e senza che si discuta del profilo. Essere donne non significa essere “categoria da proteggere” o “vittime”. Qualcuno a Salvini lo spieghi (e non solo a lui). E se alla fine, pur se per disperazione che convinzione, si arriverà a un Presidente della Repubblica dal profilo di Elisabetta Belloni o di Paola Severino, per i vari Matteo della nostra politica si chiuderà come per Riccardo III: disarcionati dal proprio destriero, a terra. “Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/29/quelle-figuranti-del-capo-leghista-per-la-carta-rosa/6472727/