Pubblicato in Italia un saggio del 1992: secondo l'attivista femminista (scomparsa pochi anni fa), tutto parte dal corpo, che viene studiato quale costruzione sociale, materiale e simbolica, che genera una differenza essenzializzata, carica di sfruttamento, oppressione, discriminazione.
Non fu il solo, Michel Foucault, nel Novecento a occuparsi dello stretto e ambivalente legame che intercorre tra sesso e potere. Pionieristica e poco tradotta in Italia, l’opera della sociologa Colette Guillaumin (1934-2017) è stata una ricerca incessante per scindere, teorizzare e scardinare i rapporti di dominazione. Ancorché obliata, fu una delle intellettuali che più hanno coadiuvato la riflessione sul rapporto tra corpo, sesso e razza.
Al centro delle sue riflessioni, due temi intrinsecamente connessi: l’ideologia razzista intesa come una costruzione e rappresentazione che tende a naturalizzare le differenze sociali e, dall’altra, i rapporti fra i sessi, intesi come effetto storico-sociale di una particolare forma di “razzizzazione”. In un contesto, come quello odierno, in cui la lettura biologica del mondo sociale continua a guadagnare terreno, la sua critica della legittimazione naturalista dei rapporti sociali di razza e sesso costituisce uno degli apporti maggiori e mai inattuali della studiosa. Se oggi, infatti, l’idea che il “naturale” sia costruito dalla cultura ha guadagnato terreno in alcuni ambiti delle scienze umane, è grazie a Guillaumin.
Per questo, le vanno doverosamente versate alcune righe biografiche: Guillaumin è stata sociologa e antropologa, ricercatrice presso il Centre National de la Recherche Scientifique en France (Cnrs) e docente ospite presso le università di Amiens, Ottawa, e Montréal. Negli anni ’70 e ’80 ha fatto parte del collettivo di Questions Feministes e della redazione di Le Genre Humain, ambedue riviste francesi. I suoi titoli più noti sono L’idéologie raciste. Genèse et langage actuel (1972); Sexe, Race et Pratique du Pouvoir (1992). Quest’ultimo, ripreso e rilanciato con grande fermento negli anni 2000 dal grande editore francese Gallimard, è uscito in Italia: Sesso, razza pratica del potere (edizioni ombre corte, a cura di Sara Garbaroli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz, pp. 245, euro 22).
Guillaumin, dunque, è stata tra le più inflessibili teorizzatrici dei nessi tra sessismo e razzismo. Tutto parte dal corpo, che viene studiato quale costruzione sociale, materiale e simbolica, che genera una differenza essenzializzata, carica di sfruttamento, oppressione, discriminazione. Esso viene determinato dal corpo “altro” (cioè il corpo dell’altro e dell’altra) e dalle ideologie sessiste e razziste. Il tentativo teorico di Guillaumin è quello di snidare il luogo dove si situa il fenomeno razzista e sessista prima ancora delle sue manifestazioni materiali. Quale sia dunque il sistema di sensi e significati che vede attivi contemporaneamente il razzizzante e il razzizzato. Guillaumin spiega si tratta di schermi di relazione inconsapevolmente interiorizzati con ciò che è socialmente designato e dunque avvertito come differente. “Vale a dire – scrive la sociologa – che non è all’ordine del contenuto, sia esso di immagini o di valori, che si fa riferimento, ma a quello dell’organizzazione ideologica latente”. Essere altri per natura – per questioni di razza e di sesso – induce a ricevere un trattamento di appropriazione, esclusione e dominio.
La visione di Guillaumin è radicale: le razze e i sessi non esistono al di fuori della biologia. Sono “fatti sociali” ma non realtà. Sono il razzismo e il sessismo come ideologie che producono la nozione di “razza” e di “sesso”; non sono il “sesso” e la “razza” a produrli. Le razze al pari dei sessi sono “costruzioni sociali” e il razzismo come il sessismo una struttura ideologica legata alla naturalizzazione dei fenomeni sociali. Guillaumin combatte la strana e diffusissima idea che le azioni di un gruppo umano, di una classe, siano “naturali”, che cioè siano indipendenti dai rapporti sociali, e che preesistano a tutta la Storia, a tutte le condizioni concrete determinate. Ogni gesto, attuato o subito, fisico o mentale, anche il più innato, è un risultato. Ed è qui che mette in luce la doppia esistenza di un “sistema dei marchi” (assimilabile al concetto di “ghetto” e “ghettizzazione”). Da una parte c’è l’applicazione, dall’esterno, di un marchio alla persona, per rendere visibile l’appartenenza a un gruppo sociale: un esempio, l’abbigliamento; altro esempio, le persone possono essere marchiate con un segno permanente, direttamente sul corpo, come gli schiavi e i deportati. Dall’altra parte, esiste quel marchio che strumentalizza elementi somatici a fini sociali, economici e politici. Il concetto di marchio, che classifica e divide gli individui all’interno di una gerarchia, è basilare per la formazione dell’ideologia razzista e sessista.
L’analisi che fa della nozione di differenza è implacabile. “Dietro l’idea di differenza – scrive Guillaumin – si cela la dominazione: in altre parole l’ideale che tutti appartengano allo stesso universo, che tutti possiedano lo stesso referente ma in termini di differenti forme dell’essere, per sempre fissate”. L’autrice, dunque, già negli anni 80 metteva la società in guardia rispetto al pericolo ideologico del “diritto alla differenza culturale” perché il rischio che si correva era di sottolineare troppo le specificità culturali dei gruppi dominanti rispetto alle minoranze. Basta sfogliare un qualsiasi giornale e lanciare un’occhiata alla cronaca (italiana o estera) per comprendere quanto abbia avuto e abbia ancora ragione.
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