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sabato 12 febbraio 2022

Energie rinnovabili, in Puglia il primato non basta: pronta l’autorizzazione di altri 500 impianti. - Rosanna Lampugnani

 

Eolico e fotovoltaico, la regione produce il 70% in più del suo fabbisogno. Il nodo del consumo di suolo: gli agricoltori sono penalizzati. Ora serve un piano strategico.

Iren energia, società multiutility attiva in Piemonte, Liguria e in Emilia Romagna, puntando sulle produzioni rinnovabili, ha acquistato in Puglia il più grande parco solare d’Italia, il “Troia solar park” che si estende su circa 150 ettari e produce 103 megawatt, e quello più piccolo di Palo del Colle, di circa 70 ettari, che produce 18,5 megawatt, con una capacità energetica complessiva di 121,5 megawatt. L’operazione sarà formalizzata entro questo trimestre e avrà un valore di 166 milioni - ha spiegato la società che ha ceduto gli impianti, la danese European energy , che detiene anche un gasdotto italiano di circa 2 Gw di capacità e investirà nei prossimi quattro anni 800 milioni. Iren energia e European energy hanno anche siglato un accordo sulla pipeline di sviluppo della società danese pari a 437,5 mwp, distribuiti tra Lazio, Sicilia e Puglia. Dunque la Regione persegue nella sua vocazione energetica alternativa, come sottolineano i dirigenti dell’assessorato Sviluppo economico.

Puglia prima in Italia per produzione di energie alternative.

In Italia la Puglia è la prima produttrice di energia da fonti alternative, pari a 3621,5 Gw/h, il 50% di ciò che viene consumato nella regione. Complessivamente, calcolando anche le produzioni fossili, la Puglia produce il 70% in più del fabbisogno e il surplus è ceduto a Campania e Basilicata in cambio dell’acqua necessaria al Tacco. In particolare, restando alle energie alternative, sono in esercizio 174 impianti, di cui 79 di fonte eolica, 87 da fonte fotovoltaica, 6 per la produzione di biomasse e 2 per l’energia da fonte cogenerativa. Sono in corso di realizzazione 83 impianti, di cui 60 di energia eolica, mentre in fase autorizzativa da parte della Regione sono 148 gli impianti eolici e 322 quelli fotovoltaici. La distribuzione territoriale non è omogenea perché – come sottolinea anche il sindaco di Troia, Leonardo Cavalieri – è la provincia di Foggia quella maggiormente interessata, con 46 impianti eolici e 105 fotovoltaici.

Energie rinnovabili, la scelta di Foggia.

Ma perché Foggia? Come mai European energy prima e Iren energia poi hanno scelto di investire soprattutto nella Daunia? «Perché vicino al nostro Comune c’è il casello autostradale della rete di Terna», fondamentale per immettere nel sistema l’energia prodotta, ricorda il sindaco, il quale, pur non opponendosi alle rinnovabili, pone due questioni: «Gli impianti, una volta realizzati e gestiti da remoto, non danno occupazione, piuttosto ne sottraggono, perché i terreni agricoli cambiano funzione, snaturando l’economia del territorio». Cavalieri, pur sapendo che la compravendita dei terreni avviene tra un privato e una società, lamenta l’impossibilità dell’ente locale di esprimersi sulle transazioni: «Grazie al Piano all’utilizzo del Piano urbanistico, legato comunque al Piano paesaggistico regionale, possiamo fissare limiti per gli impianti». Infatti il “Troia solar park” ridimensionato conta “solo” 275mila pannelli solari, distribuiti su un’area equivalente a 200 campi di calcio. In sostanza il sindaco denuncia la mancanza di concertazione tra i vari soggetti istituzionali, così come la Regione cui tocca decidere l’idoneità dei terreni per l’installazione degli impianti, nella bozza della relazione sui dati energetici, sottolinea la necessità di porre la massima attenzione «sul potenziale ulteriore consumo del suolo, senza rallentare la ricerca di nuove tecnologie che porteranno all’implementazione delle rinnovabili».

Nel documento dell’assessorato guidato da Alessandro Dell Noci, si aggiunge che se per utilizzare al meglio i fondi del Pnrr lo Stato ha accentrato una serie di competenze (il 18 gennaio si è insediata la commissione speciale per la valutazione di impatto ambientale dei progetti per gli impianti di energie rinnovabili, voluta da Draghi e guidata da Massimiliano Atelli), tuttavia il decreto semplificazioni 77 del maggio scorso «non reca alcuna indicazione utile, ma contiene invece una serie di rinvii alle Regioni che non aiutano in alcun modo il raggiungimento dei risultati che il governo si aspetta». Quanto agli enti locali, aggiungono i dirigenti dell’assessorato, «la partecipazione di questi alle conferenze di servizi è sporadica e quasi sempre l’intervento procedimentale non sfrutta gli strumenti che le norme mettono a disposizione (opere di mitigazione, ristoro ambientale, possibilità di realizzazione di progetti di interesse locale a compensazione degli interventi da fonte Fer)».

Energie rinnovabili, in Puglia serve un progetto strategico.

In conclusione, se è positivo che la Puglia diventi sempre più green sul fronte energetico, è necessaria l’elaborazione di un progetto strategico che tenga dentro un’idea per il futuro della Regione e gli strumenti per realizzarlo, anche perché, come sottolineato recentemente dal presidente regionale di Confindustria, «il nostro territorio è fortemente provato nella sua vocazione produttiva dagli aumenti di luce e gas (55% e 41,8% nel 2022) e dai rincari delle materie prime. Siamo al punto che i nostri prodotti non solo hanno un costo aumentato enormemente, ma, in più, devono confrontarsi con le differenti politiche energetiche degli altri Paesi europei». Sergio Fontana, quindi, ribadisce la necessità di una transizione energetica sostenibile, ma al contempo addita la Francia che sta pensando «al nucleare di nuova generazione». Insomma, bisogna fare chiarezza, e in fretta, guardando all’Agenda 2030 per la strategia della biodiversità e al 2026, scadenza del Pnrr.

https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/bari/cronaca/22_febbraio_09/energie-rinnovabili-puglia-primato-non-basta-pronta-l-autorizzazione-altri-500-impianti-0561677c-8984-11ec-ae73-595424bfd521.shtml

sabato 3 aprile 2021

RECOVERY FUND/INVESTIRE SUL SUD COME LA GERMANIA FECE SULL’EST. - Isaia Sales

 

In Europa, a partire dal secondo dopoguerra, ci sono stati solo due imponenti tentativi di recupero di vaste aree sottosviluppate all’interno della stessa nazione. Si tratta del Sud d’Italia (dal 1950 in poi) e della Germania dell’Est (dal 1990 ad oggi). I tentativi hanno interessato una consistente fetta di popolazione, 16 milioni e mezzo di abitanti nell’Est (un quinto dell’intera popolazione tedesca) e 20 milioni nel Sud (un terzo di quella italiana); molto estesa la superficie territoriale coinvolta (il 30% in Germania, il 41% in Italia). Anche altre nazioni europee hanno messo in piedi politiche specifiche per territori arretrati, ma nessuna di esse ha riguardato territori così ampi, così geograficamente compatti, con un tale numero di abitanti e così cospicue risorse investite.

I risultati di queste due straordinarie esperienze sono in genere valutati dagli studiosi e dai commentatori politici con giudizi radicalmente opposti: si passa dall’uso disinvolto della parola “fallimento” a quella enfatica di “miracolo”; per alcuni si tratta del più vasto spreco di denaro pubblico mentre per altri del più efficace intervento statale nella storia dei rispettivi Paesi. Formulare, dunque, un giudizio basato sui dati economici e finanziari non è facile: mentre conosciamo le cifre investite per l’Italia meridionale, non ci sono ancora cifre del tutto condivise su quanto effettivamente si è finora speso nella Germania dell’Est.

Gli investimenti. Per il Sud d’Italia le cifre sono queste: in cinquantotto anni, cioè dall’avvio della Cassa del Mezzogiorno nel 1950 al 2008 (cioè fino all’inizio della crisi economica globale che ha chiuso definitivamente qualsiasi politica pubblica per il Sud lasciandola solo all’utilizzo del fondi europei di coesione) sono stati investiti 342,5 miliardi di euro. In Germania Est si è investito in 30 anni quasi 5 volte in più di quello che si è speso in circa 60 anni nel Sud d’Italia, cioè tra i 1500 e i 2000 miliardi di euro. Nelle regioni orientali tedesche 70 miliardi di euro in media all’anno, nel Mezzogiorno 6 miliardi l’anno. La Germania ha investito nel suo “Mezzogiorno” (cioè nelle regioni che prima della riunificazione facevano parte di un altro Stato, la RDT) tra il 4 e il 5% dell’intero suo Pil, una cifra enorme, fatta di ingentissime risorse statali (procurate con emissione di titoli di Stato e attraverso la fiscalità generale con una tassazione ad hoc di tutti i redditi dei tedeschi) e da investimenti esteri per 1.257 miliardi di euro.

Nel Sud d’Italia invece, per tutto il periodo del cosiddetto “Intervento straordinario” non si è mai superato la soglia dell’1% del Pil. Chiusa la Cassa per il Mezzogiorno (la struttura speciale che guidò l’intervento pubblico nei territori meridionali) la percentuale è scesa ulteriormente.

Il confronto Vediamo ora i risultati in termini di reddito pro capite. Nel 1989 il Pil per abitante della Germania Est era la metà di quello della Germania Ovest (addirittura un terzo, secondo altre fonti), nel 2009 era salito a due terzi, nel 2018 al 75,1%. Certo, non l’eliminazione del divario come aveva promesso Helmut Kohl, ma comunque un balzo in avanti di almeno 25 punti. Un risultato ancora più significativo perché inizialmente la scelta discutibile di smantellare l’apparato industriale e privatizzarlo comportò una spaventosa disoccupazione di massa e l’emigrazione di 1 milione e ottocentomila persone dall’Est all’Ovest. Ancora oggi la disoccupazione è più alta ad Est, così come i salari sono inferiori in media del 20%, lo spopolamento di alcune aree è vistoso, il peso delle esportazioni è fortemente squilibrato tra le due aree e il malcontento tra la popolazione è elevato (come dimostra il sostegno a formazioni naziste in un territorio ex comunista!). Ma basta fare un confronto con il Sud d’Italia per comprendere come si tratti comunque di risultati notevoli: prima della pandemia, cioè nel 2019, il prodotto per abitante nel Mezzogiorno italiano è stato pari al 55,1% rispetto a quello del Centro-Nord, quasi 20 punti in meno della differenza che intercorre oggi tra le due aree tedesche. Il tasso di disoccupazione, sempre nel 2019, è stato del 17,6% nel Sud e del 6,9% nell’Est tedesco; la disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni) è stata del 45,5% nel Sud, e solo dell’8,6% negli ex Lander dell’Est.

L’economia dietro la politica. La riunificazione tedesca è indubbiamente un evento epocale, tra le più difficili e complesse operazioni di pace del Novecento. La Germania ha per due volte riunificato territori in cui si parlava la stessa lingua e ci si sentiva accomunati dalla stessa storia e dalla stessa cultura: una prima volta nel 1871 e la seconda a fine Novecento. Alcuni studiosi ritengono che l’unità nazionale sia un valore che trascende la logica economica, un’aspirazione che travalica qualsiasi contabilità dei costi, un sacrificio da sopportare in cambio di una soddisfazione civile e “morale”: unire territori diversi è politicamente entusiasmante, ma economicamente devastante. D’altra parte come non ricordare il salasso che costò al bilancio del regno sabaudo la spesa per unificare l’Italia (in gran parte per sostenere le guerre). Ma non è affatto così. Dietro un disegno politico c’è sempre una convenienza economica, soprattutto se il disegno è davvero ambizioso e sostenuto da forti motivazioni pratiche oltre che ideali. Nel caso dell’unità raggiunta dall’Italia e dalla Germania a dieci anni di distanza l’una dall’altra, in ritardo rispetto alle altre nazioni europee, fu determinante la necessità del capitalismo dei rispettivi Paesi di allargare il mercato a dimensioni sufficienti a reggere le ambizioni nazionali. L’unità politica corrispondeva ad una esigenza anche economica. Ma anche le riunificazioni possono avere lo stesso miscuglio di aspirazioni politiche e di valutazioni economiche.

La lezione tedesca. La Germania sta lì davanti ai nostri occhi a provarcelo contro ogni ragionevole dubbio. Perché mai in Italia una reale convergenza tra due aree così differenti, quali sono il Nord e il Sud del Paese, viene percepita invece come un danno o un pericolo? Non ha bisogno anche l’Italia di una sua effettiva riunificazione? E può essere quello tedesco un modello? Diversi studiosi hanno delle perplessità su questo punto, anzi ritengono che si sia trattato di una vera e propria “annessione” più che una riunificazione, confermando il parere che diede già nel 1990 Gunter Grass. In ogni caso, si tratta di uno dei tentativi più coraggiosi, più originali, più dispendiosi fatti in Europa per ridurre le distanze tra realtà territoriali che, per varie ragioni storiche, si erano trovate separate e diversamente sviluppate.

Tre lezioni per l’Italia. Che insegnamenti se ne possono trarre per il dibattito politico ed economico in Italia? 

1) Ogni divario tra diverse parti di uno stesso Paese è superabile, e lo si può fare (se lo si vuole) in pochi decenni anche partendo da situazioni peggiori di quelle che ci sono in Italia tra Nord e Sud. Avvicinare due territori diversamente sviluppati (in un lasso di tempo ragionevole) è un obiettivo assolutamente alla portata di qualsiasi nazione ben motivata. È una strategia che appartiene alla politica e non all’utopia. In economia e in politica non esistono situazioni irrecuperabili. 

2) Il ritardo economico non è un fatto antropologico, non appartiene alla razza, all’indole, al carattere, al clima, non è uno stigma morale. Sembra assurdo doverlo ripetere, ma la Germania dimostra come il vantaggio di un’area non si possa spiegare e giustificare con l’arretratezza antropologica dell’altra. Infatti fino al 1949, cioè all’atto formale della divisione della Germania in due entità statali distinte, quella occupata dai sovietici e quella occupata dalle truppe alleate, i Lander orientali erano la parte più sviluppata, facevano parte nel passato della “grande Prussia”, una delle realtà industriali più avanzate d’Europa. Nel 1937 i territori che poi diventeranno la Germania dell’Est avevano il reddito per abitante più alto in Europa, superiore del 27% rispetto ai territori della Germania dell’Ovest, con la presenza di imprese modernissime nel campo della meccanica di precisione, dell’ottica, della chimica e della produzione aereonautica. Dunque, sono le vicende storiche, gli accadimenti politici, le scelte strategiche che possono modificare radicalmente l’economia e la vita di un territorio e la sua collocazione nelle vicende generali di una nazione. I popoli non sono immobili, né tantomeno i territori. 3) Non è vero che i soldi spesi nelle aree più arretrate sono uno spreco, una perdita secca per lo Stato e per i territori più ricchi. Colmare i divari economici è una operazione che si ripaga ampiamente, è un affare per tutti e non un sacrificio. D’altra parte ciò si è dimostrato vero anche in Italia: il periodo in cui il nostro Paese è cresciuto a tassi elevatissimi (1950/1980) corrisponde al periodo in cui decollava anche il Sud grazie agli investimenti della Cassa del Mezzogiorno. Recuperando una parte meno sviluppata, la ricchezza investita si trasforma in ricchezza generale.

Un esperimento keynesiano. La Germania di oggi è di gran lunga la nazione europea economicamente più ricca di quanto lo fosse nel 1989, prima della riunificazione e prima dei grandi investimenti nell’Est. Anzi nel 1989 l’economia tedesca stava attraversando un periodo di stagnazione e di difficoltà. Si è trattato, dunque, di una particolare sperimentazione di politiche keynesiane territoriali. I benefici generali sono stati nettamente superiori ai costi investiti. Se negli anni 1980/1989 la crescita complessiva della Germania Ovest era stata in media dell’1,8%, negli anni successivi alla riunificazioni si sfiorarono tassi di crescita molto alti, un più 4,5% nel solo 1990 e un più 3,2 per cento nel 1991. L’economia tedesca ricevette dall’unificazione e dai massicci investimenti all’Est uno straordinario stimolo di crescita che le permise di proiettarsi tra le prime potenze industriali e commerciali del mondo, assurgendo a un ruolo geopolitico inimmaginabile a pochi decenni dalla sconfitta della seconda guerra mondiale. Certo, la Germania non è l’Italia, il Sud non è l’Est tedesco. E in Italia il divario territoriale dura da 160 anni. Ma il Mezzogiorno ha conosciuto anch’ esso un suo periodo d’oro. Si è verificato tra il 1950 e il 1973. In quel ventennio il Pil meridionale registrò il più alto tasso di crescita dal 1861 in poi. Nel 1973 il Pil pro capite del Sud arrivò al 60,5 di quello del Centro-Nord (quasi otto punti in più rispetto al 1950, quando era fermo al 52,9) un risultato mai più raggiunto negli anni successivi. I progetti di investimenti nella prima fase erano rigorosi, i tecnici di alto livello. Poi ci fu una degenerazione clientelare, e dalla crisi petrolifera del 1973 l’Italia decise progressivamente di lasciar perdere.

Il passato che insegna. Il trentennio d’oro dell’Italia , quello culminato con il boom economico, si realizzò principalmente perché il Sud fu parte integrante delle strategie di sviluppo della nazione, con la sua manodopera emigrata che rese possibile il balzo industriale del Nord (ben 2 milioni e mezzo di meridionali emigrarono tra il 1955 e il 1975), con la costruzione di infrastrutture che fecero uscire dal Medioevo intere comunità, con l’allargamento della sua base industriale e agricola, con la piena partecipazione alla società dei consumi di una parte consistente della sua popolazione, con la scolarizzazione di massa che permise a diverse generazioni di cambiare radicalmente il mestiere dei padri.

Il Sud fu tra gli anni cinquanta e la prima metà degli anni settanta del Novecento parte attiva della ricostruzione nazionale. Senza gli investimenti nel Sud, l’Italia sarebbe rimasta una piccola nazione, ininfluente sullo scenario internazionale, come tutto sommato lo era stato nel corso della sua storia precedente, dal 1861 in poi. Fu in quel periodo, cioè nella ricostruzione del secondo dopoguerra, che il Sud divenne fino in fondo parte dell’Italia, quando nei fatti concorse al suo sviluppo economico e se ne avvantaggiò.

Un’altra obiezione che si può fare a quanto finora sostenuto è che in Italia non ci sono le risorse e le condizioni politiche e finanziarie per fare quello che si è fatto in Germania. Eppure qualcosa sembra rendere possibile ciò che fino a qualche tempo fa sembrava impossibile. Cospicue risorse pubbliche arriveranno dall’Europa come arrivarono nel secondo dopoguerra dai prestiti americani e internazionali.

Fu grazie a quei prestiti che si avviò una politica straordinaria per il Mezzogiorno e fu quella politica che diede una svolta all’economia italiana. Quanti soldi investiti nel Sud sono ritornati all’economia del Nord? Molti. La Svimez ha calcolato che per ogni euro investito nel Sud 40 centesimi tornano all’economia del Centro-Nord in termini di beni e servizi per le imprese settentrionali; al contrario, per ogni euro investito nel settentrione solo 6 centesimi ritornano nel meridione.

D’altra parte in quell’epoca a spingere per massicci investimenti al Sud c’erano uno statista come Alcide De Gasperi (trentino) e un grande banchiere come Domenico Menichella (pugliese) e tanti tecnici settentrionali appassionati delle terre meridionali. A Menichella in gran parte si deve il miracolo economico italiano. Egli fu anche il fondatore della Svimez nel 1946. E fu lui ad ideare la Cassa per il Mezzogiorno nel 1950 utilizzando i prestiti in dollari della Banca Mondiale destinati agli investimenti nelle aree depresse del mondo.

Una nuova occasione Draghi ha davanti a sé la possibilità di ripetere un nuovo miracolo economico. Non si potrà certo replicare il modello della Cassa per il Mezzogiorno, ma la nazione ha bisogno di una strategia che inglobi il suo Sud.

D’altra parte le risorse europee sono tante proprio perché assegnate sulla base delle difficoltà economiche delle regioni meridionali. L’Italia non ce la farà a riprendersi riattivando un solo motore produttivo; ha la possibilità di accenderne un secondo che renderà più veloce ed efficiente il primo. Far crescere il Sud è un affare per l’economia italiana. L’occasione si ripresenta. Come nel secondo dopoguerra, come in Germania.

Libertàgiustizia da La Repubblica

lunedì 23 novembre 2020

La metà dei prestiti garantiti al Nord. Sud a rischio usura. - Patrizia De Rubertis

 

Le imprese chiedono sempre più liquidità, anche perché la ottengono a basso prezzo grazie alle garanzie statali. Ma il flusso di questi soldi si ferma soprattutto al Nord, con un rischio usura nelle regioni del Sud. A otto mesi dall’avvio dei prestiti garantiti, introdotti dal dl Liquidità, da una parte ci sono i dati forniti dall’Associazione bancaria (Abi) che rilevano l’ingente crescita delle richieste di finanziamento arrivate al Fondo centrale di garanzia che hanno smosso crediti per oltre 106 miliardi. Dall’altra parte ci sono i numeri che arrivano dal territorio elaborati dal sindacato dei bancari Fabi che mostrano uno “squilibrio” nell’erogazione dei soldi: oltre il 52% dei finanziamenti garantiti dallo Stato sono andati a quattro Regioni (Lombardia 23%, Veneto 11,4%, Emilia-Romagna 10,2%, Toscana 8,2%) dove opera, però, appena il 37% di Pmi e partite Iva. Due facce della stessa medaglia.

Dal 17 marzo al 20 novembre, ha spiegato il direttore generale dell’Abi Giovanni Sabatini, nel corso di un’audizione in commissione Bilancio, sono arrivate 1 milione e 290 mila domande al Fondo di garanzia per le Pmi per un importo che ha già superato i 100 miliardi di liquidità, soglia ipotizzata dal governo all’emanazione del decreto. Di queste domande, 991 mila (oltre 19,4 miliardi) sono per prestiti fino a 30 mila euro con garanzia statale del 100% e durata di 10 anni concessi in automatico senza necessità di un’istruttoria. Poco più di 277 mila le richieste di finanziamento fino a 800.000 (non si deve superare il 25% dei ricavi) per un totale di 82,2 miliardi. Si tratta di prestiti con durata massima di 72 mesi e garanzia al 90%, ma estendibile fino al 100%.

Una massa senza precedenti di denaro che si è fermata a Bologna. La rilevazione della Fabi mostra evidenti discrepanze su base territoriale. Gli estremi sono dati da Lombardia ed Emilia-Romagna che hanno ricevuto più di un terzo del totale. dall’altra parte c’è il Molise con 4.854 richieste pari allo 0,5% del totale e 89 milioni di euro complessivi. È nelle Regioni del Centro-Nord che si concentra sia l’erogazione dei mini-prestiti che di quelli fino a 800.000 euro. Eppure in questi territori la maggior parte delle fabbriche non ha chiuso durante il lockdown di marzo e aprile. Mentre al Sud, dove c’è più bisogno di liquidità, i prestiti garantiti scarseggiano spingendo il ricorso a forme alternative di finanziamento non legali. “In una situazione così difficile non bastano i finanziamenti: sono indispensabili anche stanziamenti a fondo perduto anche per evitare che famiglie e imprese possano essere costrette a chiedere denaro agli usurai”, commenta il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni. Tanto che nei primi sei mesi dell’anno, le segnalazioni di operazioni sospette lavorate dalle banche hanno raggiunto quasi 50 miliardi, di cui il 99% relativo al rischio riciclaggio.

Le moratorie sui crediti scadranno il 31 gennaio. Al ministero dell’Economia stanno valutando la possibilità di prevederne un ulteriore prolungamento da inserire nella manovra o nel Milleproroghe. Con un occhio alla possibile esplosione dei crediti deteriorati da parte di imprese e famiglie che potrebbero non essere in grado di restituire i prestiti ottenuti.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/22/la-meta-dei-prestiti-garantiti-al-nord-sud-a-rischio-usura/6012174/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-11-22#

lunedì 11 novembre 2019

Report: del leghista Giancarlo Giorgetti che se la dà a gambe davanti ai microfoni ne vogliamo parlare?

Report: del leghista Giancarlo Giorgetti che se la dà a gambe davanti ai microfoni ne vogliamo parlare?
Foto "il Messaggero"
Ragazzi: adesso anche il servizio pubblico della RAI ha messo a nudo – con i ‘numeri’ e non con i commenti – lo scippo del Centro Nord Italia ai danni del Sud. Il commento di Pino Aprile sull’ex sottosegretario della Lega, Giancarlo Giorgetti, che scappa perché non sa cosa dire ai cronisti di Report!
Il servizio che un paio di giorni fa Report – la trasmissione d’inchiesta della RAI – ha dedicato al Sud (che potete approfondire sulla Facebook di Terroni di Pino Aprile) ha aperto un dibattito interessante. Volendo, nella storia della Seconda Repubblica, è la prima volta che il servizio pubblico televisivo racconta la verità su come l’Italia ha trattato e continua a trattare il Mezzogiorno d’Italia.
Molto centrato il commento dello scrittore e giornalista Pino Aprile, leader del Movimento 24 Agosto per l’Equità Territoriale, soprattutto là dove mette in evidenza le contraddizioni della Lega di Matteo Salvini e del suo vice, Giancarlo Giorgetti. Infatti, davanti al giornalista di Report, che gli chiedeva conto e ragione della mancata applicazione della legge nazionale sul federalismo fiscale – legge voluta proprio dalla Lega – Giancarlo Giorgetti è letteralmente scappato!
Di cosa si era accorto, Giorgetti? Che se la legge – ribadiamo: voluta dai leghisti – fosse stata applicata, lo Stato avrebbe dovuto togliere soldi al Centro Nord e darli al Sud! Così la documentazione è sparita.
Scrive Pino Aprile:
“La fuga: dinanzi a dati, domande vere, non addomesticate, i ladri di diritti e verità sono scappati. Quando il cronista chiede a Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega, che fine hanno fatto i documenti sullo scippo progettato a danno del Sud (e ordinati da lui quando era presidente della Commissione parlamentare che avrebbe dovuto garantire uguali diritti a tutti e invece li rubava ai meridionali), lui farfuglia, scappa, cambia direzione, accelera, sparisce. China il capo e gira la faccia, come per non farsi riconoscere. Conservate nella memoria e in cima alle vostre pagine social quell’immagine: è la sintesi di un delitto e di una ammissione di colpa”.
Ce n’è anche per un altro leghista, Roberto Maroni:
“Quando, dopo le solite puttanate razziste sugli amministratori del Nord più onesti, per definizione e sé-dicenti – scrive Pino Aprile – l’intervistatore elenca i nomi di quelli lombardi e veneti incarcerati per mazzette, furti, appalti truccati, l’ex presidente della Lombardia Roberto Maroni, che vide il suo vice finire in galera (e lui stesso ha qualche problemino…) si alza e fugge. Conservate l’immagine nella memoria e sulle vostre pagine social: dice di che gente si sta parlando, il loro livello, e dice che hanno coscienza di quel che hanno fatto”.
Non può mancare una ‘pennellata’ su qualche esponente della ‘sinistra’ italiani in bilico tra il PD e Italia Viva di Renzi. E’ sempre Pino Aprile che scrive:
“E l’incredibile Luigi Marattin nato a Napoli, ex-PD ora Italia Viva, già consigliere economico di Renzi, e presidente della Commissione tecnica sui fabbisogni standard, indistinguibile dal peggior leghista, quando i meridionali venivano derubati di risorse e diritti, che dice: «I 35 euro in meno a un campano serve a riconoscere paradossalmente il fatto che la spesa storica è stata più bassa»! Per capirci, il cotale dice che per ‘far riconoscere’ che i terroni sono stati fottuti dallo Stato, tramite i partiti (tutti), li fottiamo di nuovo. Metti che poi uno non se ne accorge, se smetti di derubarlo… La Lega porta la nomina, ma tutti i partiti sono al servizio del potere nordico, con uso massiccio di ascari del Sud (il PD manda i dirigenti del Nord a capeggiare almeno la metà delle liste elettorali al Sud; la Lega lascia fare il lavoro sporco agli indigeni, poi invia i commissari in tutte le regioni meridionali, ad amministrare le colonie)”.
La “spesa storica”: l’ultima trovata della Lega e dei partiti politici nazionali per gabbare i circa 20 milioni di abitanti del Sud: siccome i Terroni hanno sempre avuto meno soldi, beh, che continuino ad avere meno soldi!
“Si possono scrivere molte cose della puntata di Report – scrive sempre Pino Aprile – su come il Sud è depredato, ma dopo il successo di libri meridionalisti su cui nessuno avrebbe scommesso un soldo; dopo il dilagare sul Web di verità storiche e contemporanee taciute dalla macchina nazionale della comunicazione (inclusa, e anzi in prima fila, quella di Stato); dopo l’ottima trasmissione di Riccardo Iacona; la puntata di Report sdogana gli ultimi dubbi: l’informazione sui furti di risorse e diritti ai danni dei meridionali, da parte dello Stato, tramite i partiti ‘nazionali’ complici del potere politico ed economico del Nord (tutti, e inclusi, ripeto, i rappresentanti del Sud), è uscita dalle catacombe dei ‘sudisti’ (lo dicono in termini dispregiativi), dei neoborbonici (dispregiativo, ovvio), eccetera. Non è più roba da lamentela terronica e ‘rimboccatevi le maniche'”.
Ragazzi: questa volta è stata la RAI a mettere in luce le magagne di un Centro Italia che toglie risorse al Sud, peraltro non su commenti, ma sulla base di dati ufficiali, oggettivi, impossibile da smentire: non a caso il leghista Giorgetti se l’è data a gambe!
“Quindi, è fatta? – si chiede e chiede Pino Aprile -. No, ovvio. Ora dobbiamo temere l’uso di questa informazione, da parte di chi si è scoperto alfiere dei diritti negati al Sud qualche minuto fa (e può succedere, non è una corsa a chi arriva prima), ma per renderla ancora una volta funzionale, però ‘da Sud ribelle (quasi…)’, ai soliti interessi. Non dimentichiamo il piano dei primi anni Novanta, concertato fra Lega e mafia, per la creazione di ‘leghe’ meridionali apparentemente contro quella Nord, di fatto al suo servizio (l’ideologo razzista Gianfranco Miglio scese a Catania per incontrare il latitante boss Nitto Santapaola)”.
“Ora diventa persino più difficile gestire e analizzare l’informazione, però parliamo di qualcosa che non c’era e adesso c’è, che è poca, ma cresce e può dilagare da un momento all’altro; se lo fa nella direzione sbagliata, sarà difficile correggerla. Un problema. E finalmente il problema è questo! Fatemelo ripetere: vederli, quei prepotenti e ladri di equità, fuggire dinanzi a una domanda, alla loro colpa, alla vergogna… Tante volte ti chiedi “ma chi me lo fa fare!”; ecco quella può essere una risposta. Ne vale la pena”, conclude Pino Aprile.
Ah, dimenticavamo: Giancarlo Giorgetti è quello che, da sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, durante il Governo Giallo-Verde, si è reso protagonista della seguente furbata:
“Ha fatto mettere, nero su bianco, che le risorse del Fondo di Sviluppo e Coesione verranno utilizzate man mano che i progetti saranno ‘cantierabili’, cioè esecutivi, cioè pronti per essere realizzati. Peccato che non sono stati specificati i luoghi dove la ‘cantierabilità’ dei progetti si materializzerà. Che significa? Semplice: che siccome il Sud ha pochi progetti ‘cantierabili’, mentre nel Centro Nord ci sono già tanti progetti ‘cantierabili’, una parte delle risorse del Fondo di Sviluppo e Coesione – che sono fondi del Sud – andrà al Centro Nord Italia!”
“Un ‘meraviglioso’ scippo silenzioso ai danni del Sud targato Lega di Matteo Salvini-Giancarlo Giorgetti. A quanto ammonterebbe questo nuovo scippo al Sud in salsa leghista? A circa 10 miliardi di euro. C’è un rimedio? Certo: il Ministro del Sud, Giuseppe Provenzano, dovrebbe bloccare subito questa furbata: e pazienza se leghisti, renziani e PD ci resteranno male!

domenica 20 gennaio 2019

Matera, capitale del deserto. - (Marcello Veneziani)

Arriva come un sasso nello stagno l’anno di Matera capitale culturale d’Europa. Comincia ufficialmente oggi, con Mattarella e Conte, anche se da mesi e poi nella notte Rai di Capodanno, se ne parla come di un evento-riscatto per il sud a partire dal suo luogo più pittoresco e più arretrato.
È bella Matera, suggestiva come una fortezza mistica d’oriente, una località di Cappadocia oppure afghana, o una specie di Betlemme scivolata in Europa. Ha un fascino arcaico, Matera, sembra sospesa in un’età magica e preistorica, come un’età della pietra, lo splendore della miseria, il presepe delle origini; ma suona grottesco definirla capitale culturale europea, perché Matera non ha i tratti di una capitale né di un luogo culturale né di un centro europeo. Ed è scollegata da tutto.
Turismo a parte, è una capitale nel deserto, come una Fortezza Bastiani sospesa nel vuoto in attesa dei Tartari, come nel famoso romanzo di Buzzati. Per deserto non intendo semplicemente i suoi paraggi, la sua provincia, le sue campagne. Intendo il sud, il meridione intero, che è ormai un deserto dei tartari, sempre più disabitato. I tartari qui sono di volta in volta gli emigrati, gli immigrati, i disoccupati. Ma tartari cioè latitanti, sono pure gli investimenti, i progetti, le grandi opere, la cultura, l’editoria. Sempre meno gente legge al sud, altro che capitale culturale europea.
Un tempo il sud aveva mille handicap ma qualcuno, come l’Avvocato Agnelli, poteva ironizzare sugli intellettuali della Magna Grecia. A trovarne, adesso. Anche gli intellettuali, la cultura umanistica, i vecchi professori, come il mitico Aristogitone su cui ironizzava Arbore alla radio rilanciando i suoi ricordi liceali, non ci sono più. Non sono arrivati i manager, in compenso sono spariti gli intellettuali, i loro circoli, i tavolini di caffè in cui si faceva taglio e cultura, pettegolezzo e filosofia.
Il sud non esiste più. La famiglia tipo oggi al sud è costituita da padre, madre e niente più. I figli sono partiti per il nord, e non si portano nemmeno il caciocavallo che “impuzzolisce” le valigie, come recita uno spot della Conad, dove la mamma è una cretina: mette il cacio sopra le camicie, quando mai lo farebbe una mamma del sud; solo il padre ne capisce perché si affida all’ipermercato. Ma i ragazzi partono e al sud lasciano il cacio, non il cuore. Non tornano.
Il divorzio dei figli dai genitori è la prima emergenza del sud. La seconda sono i migranti che stazionano nel nulla col cellulare e la bici in molti centri meridionali d’accoglienza; e per ingannare il tempo, il sesso e magari procurarsi i soldi per vivere, combinano un po’ di guai. Resta in piedi del passato solo la brutta piaga del caporalato, coi braccianti neri o romeni ingaggiati per due soldi per raccogliere olive e pomodori, quando non arrivano anche questi dal medio oriente. Al sud è fiorente solo il filone comico, da Checco Zalone, che da solo fattura per ogni film più della Fiera del levante, a Frassica e alla scuola meridionale di Arbore, a Fiorello, più i comici che imperversano nei video terroni.
Era l’estate del ’64 e sotto un sole “ferocemente antico” Pasolini girava Il Vangelo secondo Matteo a Matera, alias Gerusalemme. La Madre di Gesù era la mamma di Pasolini. Un film all’epoca ritenuto blasfemo, oggi addirittura considerato il più cristiano dei film dedicati a Cristo in croce. Matera, al tempo, era la città più primitiva d’Italia, dove i Sassi evocavano la preistoria e la miseria ancestrale. Ma intorno a Matera già serpeggiava sulle strade e nelle case meridionali lo sviluppo del Mezzogiorno. Un sud in pieno boom, non solo economico ma demografico. Si facevano figli e autostrade, quartieri nuovi, sorgevano le prime industrie, arrivava la luce e l’acqua corrente dappertutto. Poi vennero le Regioni e fu il principio della fine, il raddoppio della malapolitica e degli sprechi. Tornando adesso trovi, si, Matera come uno splendido sito turistico di richiamo globale, ormai lanciato dai film (qui venne pure Mel Gibson con la sua Passion di Cristo), una location mitica, perfetta per la tv; più l’effetto riflesso della vicina Puglia che è diventata meta di forte attrazione.
Ma cos’è il sud, oggi? È un luogo desolato, e non solo perché una fetta larga di sud è nelle mani della criminalità organizzata. Ma perché non si costruisce futuro, non si vive il presente, si fugge e non si fanno figli. Il mondo si è posizionato al nord, i giornali del sud languono o sono in grave crisi (l’ultimo a rischio è la Gazzetta del Mezzogiorno). Rincuorerà qualcuno a sud sapere che in Italia “comandano i terroni”, come scriveva Libero qualche giorno fa. Ma a che vale avere nei Palazzi romani le facce meridionali di Mattarella e Di Maio, di Fico e Conte, se il Sud non conta niente in Europa, in Italia e perfino a casa sua? Se non fa sistema, se non fa rete, se è tutto un regredire, un perdere, uno spopolarsi? Magari fosse realizzabile quel progetto leghista di fare del nostro Mezzogiorno una zona franca, come il Portogallo e le Canarie, con fisco, bellezze e clima invitanti per i pensionati del nord Europa. Quindi con la necessità di creare infrastrutture, così creando occupazione per i ragazzi del sud.
E in questa landa desolata sarebbe oggi il cuore del comando italiano? Ma no, dai, non confondiamo emissari, figuranti, maggiordomi, masanielli e pazzarielli col potere effettivo. I terroni stanno a terra, alcuni sottoterra, lo dico da terrone avvilito, non da nordista che li detesta. Per questo Matera è la capitale del Sahara italiano. E poi giù il deserto…
La Verità 19 gennaio 2019

martedì 6 dicembre 2016

Istat, un residente su quattro in Italia è a rischio povertà o esclusione sociale: al Sud quasi il 50%.

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La metà delle famiglie vive con duemila euro al mese. Cresce il divario tra nuclei più e meno abbienti.


Secondo l'Istat oltre una persona su quattro, il 28,7% delle persone residenti in Italia, nel 2015 è "a rischio di povertà o esclusione sociale". Percentuale quasi raddoppiata al Sud, dove il pericolo riguarda quasi un individuo su due. L'Istituto sottolinea che il dato è "sostanzialmente stabile rispetto al 2014 (era al 28,3%)". Il risultato è sintesi di "un aumento degli individui a rischio di povertà (dal 19,4% a 19,9%) e del calo di quelli che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (dal 12,1% a 11,7%)".
La quota è sostanzialmente stabile rispetto al 2014 (era al 28,3%) a sintesi di un aumento degli individui a rischio di povertà (dal 19,4% a 19,9%) e del calo di quelli che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (da 12,1% a 11,7%). Resta invece invariata la stima di chi vive in famiglie gravemente deprivate (11,5%).

Situazione più grave al Sud - "I livelli di rischio povertà sono superiori alla media nazionale in tutte le regioni del Mezzogiorno, con valori più elevati - spiega l'Istat - in Sicilia (55,4%), Puglia (47,8%) e Campania (46,1%)". La quota è in aumento anche al Centro (da 22,1% a 24%) ma riguarda meno di un quarto delle persone, mentre al Nord si registra un calo dal 17,9% al 17,4%.

Metà famiglie vive con duemila euro al mese - In Italia la metà delle famiglie residenti può contare su un reddito netto non superiore a 24.190 euro, ovvero a 2.016 euro al mese. Rispetto all'anno precedente, l'Istat rileva un "valore sostanzialmente stabile". Una novità visto che il reddito familiare in termini reali interrompe "una caduta in atto dal 2009, che ha comportato una riduzione complessiva di circa il 12% del potere d'acquisto delle famiglie".

In difficoltà soprattutto le famiglie numerose - Le persone che vivono in famiglie con cinque o più componenti sono quelle più a rischio di povertà o esclusione sociale: passano a 43,7% del 2015 da 40,2% del 2014, ma la quota sale al 48,3% (da 39,4%) se si tratta di coppie con tre o più figli e raggiunge il 51,2% (da 42,8%) nelle famiglie con tre o più minori.

Target Ue ancora lontani - Il rischio povertà riguarda in pratica 17 milioni e 469mila persone, una cifra che "allontana" ulteriormente gli obiettivi prefissati dalla Strategia Europea 2020: entro tre anni, infatti, l'Italia dovrebbe ridurre gli individui a rischio sotto la soglia dei 12 milioni e 882mila. Attualmente la popolazione esposta è invece "superiore di 4 milioni 587 mila unità rispetto al target previsto".

Cresce il divario tra famiglie ricche e povere - Secondo l'Istat il 20% più ricco delle famiglie italiane percepisce il 39,3% dei redditi totali, mentre il 20% più povero ne percepisce il 6,7%. In altri termini, il reddito delle famiglie più abbienti è ben 5,9 volte quello delle famiglie appartenenti al primo quinto. Se si include l'affitto figurativo, la disuguaglianza diminuisce e le quote passano rispettivamente a 7,7% e 37,3%: le famiglie più ricche percepiscono cioè un reddito pari a 4,9 volte quello delle famiglie del primo quinto.

martedì 2 febbraio 2016

CIMITERO NAZIONALE DI SCORIE NUCLEARI IN VENETO? - Gianni Lannes



Nonostante il popolo italiano si sia pronunciato per ben due volte con i referendum (1987 e 2011), contro l'energia atomica, ben cinque centrali nucleari non sono state ancora bonificate, e così le officine ed i laboratori di fabbricazione del combustibile atomico, senza contare gli arsenali atomici degli Stati Uniti d'America nel belpaese. Inoltre, ogni anno, in media vengono sfornate ben 550 metri cubi di scorie radioattive dalle produzioni industriali e sanitarie. Secondo l'agenzia Askanews, con molta probabilità il deposito unico dei rifiuti radioattivi sorgerà nel Nord Italia. A svelare la possibile ubicazione è stato alcuni giorni fa, durante un convegno, il sottosegretario del Ministero dello Sviluppo economico, Simona Vicari.

«A breve - ha dichiarato il sottosegretario - il Governo rivelerà l'esatta localizzazione del deposito unico nazionale. Posso dire che al Nord alcune località più di altre si stanno attrezzando per accoglierlo. Al di là della sindrome nimby, non dimentichiamo che il deposito nazionale è una grande opportunità di sviluppo che comporta anche vantaggi economici per la località che lo ospiterà». Perché la carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) non è stata ancora resa di dominio pubblico, ma addirittura sottoposta a segreto di Stato in violazione della Convenzione europea di Aarhus, ratificata dalla legge italiana numero 108 del 2001?

«La parole del sottosegretario allo sviluppo economico Simona Vicari, raccolte a margine dell'Italian Energy Summit, sono fuori luogo. Invece di far uscire indiscrezioni, il Governo dovrebbe rispettare la legge, che prevede tempi certi per rilasciare la carta con l'indicazione dei siti candidati ad ospitare il deposito unico per i rifiuti nucleari, per avviare una opportuna discussione con le comunita' locali e le amministrazioni interessate. Tempi, questi, ampiamenti scaduti» dichiara il presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti, detta 'Ecomafie', Alessandro Bratti. «Rimane poi un fantasma l'Ispettorato per il nucleare- Isin, la cui nomina del direttore e' ferma da mesi, con il nome del candidato ritenuto da tanti inidoneo, rimasto nel limbo, in attesa di chissa' quale evento. Cio' detto, la dichiarazione del sottosegretario Vicari potrebbe far immaginare una trattativa sotterranea su ipotetici siti nel Nord Italia, con una procedura perlomeno curiosa», conclude Bratti.

Sono per caso in corso trattative sotterranee con i politicanti della regione Veneto, e con Palazzo Balbi in particolare, dopo l'impugnazione governativa dei referendum su autonomia e indipendenza? E’ stato scelto l’ex mitico nordest, forse perché la gente del luogo è ritenuta pacifica e remissiva, a differenza di quella del Mezzogiorno d'Italia (nel 2003 Scanzano Ionico docet)? Forse perché in questo territorio di frontiera, esistono già depositi nucleari dismessi dalle autorità militari di Washington, come nel caso documentato di “site Pluto” a Vicenza e altrove? Il primo ministro pro tempore Matteo Renzi, è in grado di smentire con dati di fatto questa solida indiscrezione? 

In Italia, sul nucleare è stata bruciata una quantità impressionante di denaro pubblico, ma nessun risultato operativo è stato ancora raggiunto. E', in particolare, fallimentare la ricerca di un deposito per lo scorie nucleari ad alta radioattività. Anche perché nuovi problemi continuano ad accumularsi. Circa sei mesi fa doveva essere presentata la mappa dei possibili luoghi dove sistemare le scorie nucleari. Era un impegno solenne del governo Renzi. Poi sono cominciati rinvii incomprensibili e, tuttora, sei mesi dopo, non si sa niente al riguardo, a parte la recentissima esternazione della Vicari. Si conoscono solo i criteri utilizzati per individuare il sito adatto o meglio per escludere luoghi ove sarebbe pericoloso sistemare sostanze tanto dannose alla salute.
Il 2 gennaio 2015, la SOGIN ha consegnato a ISPRA la proposta di Carta delle aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito. Il 13 marzo, ISPRA ha presentato la sua relazione ai ministeri dello Sviluppo economico e dell'Ambiente. Il 16 aprile i due ministeri hanno rimandato il rapporto a SOGIN e ISPRA chiedendo approfondimenti tecnici, mai specificati. Anzi tenuti rigorosamente segreti, alla faccia della tanta conclamata trasparenza renziana.
Quello che dice la Vicari fa immaginare che in questi giorni il dossier sul deposito radioattivo stia completando l'ultima tappa a Palazzo Chigi. Non ci sarà quindi la gara fra tanti comuni per aggiudicarsi il deposito, come aveva preconizzato un altro sottosegretario qualche mese fa. La decisione sarebbe già stata presa, il che spiegherebbe gli incomprensibili rinvii: trattative riservate con Comuni e Regioni. Era previsto e considerato necessario anche un dibattito aperto a tutti.  Ma in che termini dibattere, considerata la dichiarazione della Vicari?

Peraltro il costo della gestione fallimentare della stagione nucleare italiana è decisamente elevato. Nella bolletta elettrica per le scorie paghiamo da decenni una cifra attorno ai 250 milioni di euro annui. E per il cosiddetto decommissioning i costi complessivi si aggirano attualmente sull'ordine della decina di miliardi, ma sono destinati a lievitare ancora senza alcun risultato positivo.  

«Non c'è chiarezza su cosa realmente si intenda fare e per questo si corre il serio rischio che le popolazioni facciano saltare il banco - afferma il senatore Cinque Stelle, Gianni Girotto - Sono troppi i punti oscuri. La normativa prevede la definizione di un programma nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi con la partecipazione del pubblico; prevede la creazione dell'Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare, un ente con funzioni di controllo e di vigilanza delle attività nucleari; prevede l'adeguamento della classificazione dei rifiuti radioattivi alle normative internazionali. Ma su nessuna di queste questioni è stata ancora data una risposta soddisfacente».

Comunque solide contestazioni potrebbero essere rivolte al piano che prevede la realizzazione di un deposito nazionale per i rifiuti a bassa e media attività (restano pericolosi per almeno 300 anni), che però dovrebbe ospitare «in modo temporaneo» anche i rifiuti ad alta attività (pericolosi per centinaia di migliaia di anni). Le scorie a bassa e media attività vanno custodite in un deposito di superficie, le altre in un deposito geologico di profondità (che al momento nessuna nazione è riuscito a completare), capace di garantire per migliaia di generazioni la sicurezza e la trasmissione dell'informazione sul rischio.

Di fronte a queste preoccupazioni,  la Vicari elenca i presunti vantaggi che derivano dalla creazione del deposito nazionale: investimenti per miliardi di euro, realizzazione di un parco tecnologico, alcune centinaia di posti di lavoro. Insomma, la solita aria fritta. In ogni caso, se tutto è così semplice e chiaro perché tanti rinvii e tanti misteri? In tutto, secondo le stime ufficiali, dovranno trovare posto circa 75 mila metri cubi di rifiuti di bassa e media attività (per il 60% prodotti dalle attività di smantellamento degli impianti nucleari e per il 40% dalle attività di medicina nucleare, industriali e di ricerca) e circa 15 mila metri cubi di rifiuti ad alta attività (anche con circa 1.000 metri cubi di combustibile ritrattato di ritorno da Francia e Gran Bretagna).

Infine, esistono già in Italia, da nord a sud, una dozzina di depositi nucleari definitivi gestiti dalla Sogin, per non dire di tutti quelli privati e di quelli controllati direttamente dalle ecomafie, spesso per conto dello Stato tricolore. Dulcis in fundo, la centrale nucleare militare segreta in Toscana, controllata dal ministero della difesa. Allora, come si fa ancora a blaterare di deposito unico? All’orizzonte non si profila alcuna sicurezza, ma soltanto un gigantesco affare per i soliti noti padroni del vapore.



TRA PUGLIA,CAMPANIA E BASILICATA SARA' REALIZZATO IL CIMITERO ITALIANO DI RIFIUTI RADIOATTIVI 


Il cimitero italiano di rifiuti radioattivi sarà realizzato ai confini di Puglia, Campania e Basilicata. Ovviamente, a tutt'oggi all'insaputa delle popolaizoni meridionali. Infatti, la carta delle aree potenzialmente idonee (Cnapi), già vidimata da Ispra e Sogin, doveva essere resa di dominio pubblico già da tempo, ma il governo Renzi ne ha vietato la pubblicazione, viololando la convenzione europea di Aarhus, ratificata dalla legge italiana 108 dell'anno 2001. In merito, il 16 ottobre 2015 ho inviato una e-mail al presidente della regione Puglia Michele Emiliano. Dopo tre mesi e mezzo ancora non risponde. Perché? L'ineletto Matteo Renzi è in grado di smentire questi fatti con prove alla mano? Gianni Lannes

domenica 9 agosto 2015

Renzi e la direzione Pd: un riassunto. - Andrea Scanzi

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Ieri ha avuto luogo la direzione Pd. La “direzione Pd” è un rito laico che si celebra ciclicamente, il cui unico scopo è quello di ribadire il dominio totale di Renzi nei confronti dei cosiddetti “dissidenti”. Funziona così: prima della direzione Pd i “dissidenti” rilasciano dichiarazioni minacciose nei confronti di Renzi e della sua ghenga tragicomica; poi, giunti al di Lui cospetto, i “dissidenti” si fanno trattare come pezzenti e godono visibilmente nel farsi trattare così. E’ una forma di masochismo come un’altra, anche se personalmente continuo a preferire un trampling da Rosario Dawson in tacco 12 che non un insulto ricevuto da un premier caricaturale.
Ieri, durante la direzione Pd, è successo questo:
- Il ducetto pingue, protetto dalle sue ancelle photoshoppate e dai suoi paninari invecchiati, ha garantito che rilancerà il Sud. Per farlo verranno adottati provvedimenti e ricette specifiche, che Renzi e i suoi, non conoscendoli, hanno accuratamente evitato di menzionare.
- Renzi ha accusato il Sud di eccedere in piagnistei, emulando in questo uno dei tanti pesci piccoli che però – in confronto a lui – sembra quasi un gigante: Salvini.
- Renzi ha criticato il Sud per essersi affidato a politici che ne hanno acuito la crisi. Curiosamente, larga parte di quella stessa gente che ha acuito i problemi del Sud era – ed è – seduta accanto a Renzi.
- Renzi ha indicato De Luca come esempio di Sud che funziona, che è un po’ come indicare il disastro di Fukushima come obiettivo massimo per uno scienziato.
- De Luca ha allegramente insultato e minacciato Peter Gomez. La direzione Pd, democraticamente, ha riso. E’ la stessa gente che, se scrivi che la Boschi si fa ritoccare le foto (copertina Sette) per camuffare le 70-80 libbre di adipe ruspante da caviglie, cosce e glutei, grida al “sessismo”. Ed è la stessa gente che, se chiami Renzi “ducetto pingue”, grida piccata alla lesa maestà. Vamos.
- Non meno dei loro maestri berlusconiani, i renzini ultrà di fronte alle critiche non replicano, ma si aggrappano all’insulto ipotetico. Se gli dici che è democraticamente infame sfasciare la Costituzione, salvare Azzollini, fregarsene della questione morale, distruggere la scuola pubblicabombardare lo Statuto dei Lavoratori (senza con ciò ottenere mezzo risultato positivo contro la disoccupazione), avere portato al governo una classe dirigente ridicola e comportarsi come e anzi peggio di Berlusconi, loro ti dicono che la cosa grave non sono i comportamenti di Renzi ma il fatto che tu abbia usato la parola “infame”. Sono meravigliosi. C’mon.
- Durante la direzione Pd Renzi si è puntualmente atteggiato a figo, con quel suo modo di fare a metà tra il Verdone tamarro e il fanfarone del bar di provincia zimbellato (giustamente) da tutti. Ogni volta che parla, e fa quelle pause da teatrante impacciato, basterebbe che qualcuno si alzasse e gli dicesse: “O grullo, vien via e vai a casa dal babbo, su, che c’è un limite anche alle bischerate”. Ma nessuno glielo dice, e se aspettiamo Bersani, buonanotte.
- Al termine della direzione Pd, Renzi ha promesso di rilanciare il Sud, di abolire la morte e di regalare a tutti l’ultimo di Jovanotti. Lì è partita la standing ovation.
(Questo articolo è maschilista e sessista. 
Se ne consiglia l’uso previa somministrazione di Boldrinox e Boschizina).