venerdì 12 febbraio 2010

E' l'ora dei Bertoladri. Mazzette da Roma a Milano. - Marco Travaglio

12 febbraio 2010

Più intercettazioni escono, più si capisce perché le vogliono abolire. Non c’è niente di meglio che ascoltare la nostra classe dirigente, anzi digerente, e i nostri imprenditori, anzi prenditori, per capire da chi siamo governati. Eppure, grazie alle inchieste di Espresso, Repubblica, Annozero, Report e Il Fatto, chi fossero Bertolaso e la sua band si poteva intuirlo.

Solo un’informazione serva e salivare poteva scambiare questo bluff semovente, travestito da calciatore della Nazionale, per “un servitore dello Stato nel mirino dei giudici” (Vespa, Pompa a Pompa), “il virgilio delle catastrofi, la straordinaria normalità, jeans&polo, voce piana e forte appeal, l’uomo che piace a tutti tranne che ai magistrati che provano a inzaccherargli la divisa” (Mario Giordano, Libero anzi Occupato), “un efficace organizzatore” (Sergio Romano, Pompiere della Sera), “un tecnico capace ed efficiente” (Littorio Feltri, il Geniale), “l’homus berlusconianus (sic), quello del ‘basta con le chiacchiere’, della politica del fare, dei metodi spicci, lo zar di tutte le emergenze” (Peppino Caldarola, Il Riformatorio), “un uomo che fa del bene e quindi viene perseguitato” (il Banana).

Ora, grazie alle intercettazioni, anche i non vedenti e i non scriventi sanno chi è e di chi si circonda: un cenacolo di stilnovisti che, molto fisionomisti, si autodefinivano “cricca di banditi”, “immersi in un liquido gelatinoso ai limiti dello scandalo”, “combriccola”, “gente che ruba tutto il rubabile”, “bulldozer”, tipi “da carcerare”. Infatti sono stati accontentati. Siccome anche la toponomastica ha un peso, l’appaltatore-elemosiniere di Bertolaso, Diego Anemone, risiede in via Regalìa: più che un indirizzo, una vocazione. Infatti, per rastrellare contanti per gli incontri con San Guido, si rivolgeva a un prete, don Evaldo, per gli amici “don Evà”. Ma le mazzette erano soprattutto in natura, ultima evoluzione di Tangentopoli: fuoriserie e aerei a sbafo, ristrutturazioni e divani gratis, escort e massaggi tutto compreso, assunzioni di figli e domestici. Ecco, la famiglia prima di tutto: Angelo Balducci, uno dei BertoBoys, tenta di piazzare il figlio: “Compie 30 anni e io mi chiedo come padre: che ho fatto per lui? Un cazzo”.

Un genitore esemplare. La regola è non pagare mai il conto: quando Anemone in versione marina organizza soggiorni all’Argentario per Carlo Malinconico, segretario generale di Palazzo Chigi e poi presidente degli Editori di giornali, precisa: “Mi raccomando, non è che si distraggono e gli fanno il conto!”. Non sia mai. In altre telefonate sembra di riascoltare i furbetti del quartierino. Fazio: “Ho messo la firma”. Fiorani: “Tonino, sono commosso, io ti ringrazio... ho la pelle d’oca... ti darei un bacio sulla fronte ma non posso farlo... prenderei l’aereo e verrei da te, se potessi”. Ora un altro dei BertoBoys, Fabio De Santis, meravigliosamente definito dalla burocratjia della Protezione civile “soggetto attuatore”, dice ad Anemone: “Dammi un bacio sulla fronte”. Anemone va un po’ più in giù: “Dove vuoi, pure sul culo se mi dai una buona notizia”. Altri ingredienti ricordano i sistemi di Bancopoli, Calciopoli e Parmalat, col controllo sulle sole variabili impazzite rimaste: non il Pd, figuriamoci, ma i pochi giornalisti e magistrati che ancora fanno il proprio mestiere. Il giornalista spione riferisce quel che sta per scrivere Fabrizio Gatti sull’Espresso, mentre – secondo l’accusa – il procuratore aggiunto di Roma Achille Toro spiffera notizie agl’indagati (l’avevano già pizzicato nel caso Unipol, infatti coordinava le indagini sui grandi eventi). Completano il quadro le “ripassate” di Bertolaido a Francesca e a un’altra signorina (“una fisioterapista di mezza età”, garantisce il premier, sempre informatissimo), ma a scopo di “terapia” per “riprendermi un pochettino”. E aggiungono un tocco di berlusconianitudine al tutto (il listino del Beauty Salaria include il “trattamento fango”, 65 euro tutto compreso). Ce n’è abbastanza per l’immediata nomina di San Guido a ministro, con legittimo impedimento incorporato: un Bertolodo.

da Il Fatto Quotidiano del 12 febbraio 2010

Cemento e beauty. Il club esclusivo di Bertolaso - Marco Bucciantini

Il posto della «ripassata» accoglie la fiumana di clienti con uno slogan evocativo: «Oltre l’immaginazione». Che corre fra le luci sfocate e armoniose del centro benessere e sale per una scala curva, dove un tizio si fa posto con l’asciugamano stretto in vita. Chissà se è diretto nella «stanza dei sogni», quella con il cielo stellato (gli adesivi li vendono in qualunque cartoleria), o se invece finirà spalmato d’olio nella cabina che avvolge con lo scenario dell’oceano. Al ricevimento, Maria ha già deciso: «È tutta merda...queste sono brave persone». Laura - la segretaria citata nelle intercettazioni - non c’è. Tutti vogliono Francesca: «Non sappiamo chi sia», mentono le numerose e sorridenti ragazze del personale. Qui, nelle stanze del primo piano, secondo i magistrati, Guido Bertolaso veniva all’incasso dei suoi favori, come dimostrerebbe la telefonata del 21 novembre 2008: «Sono Guido, buongiorno...sono atterrato in questo istante dagli Stati Uniti...se oggi pomeriggio Francesca potesse...io verrei volentieri...una ripassata».

Più d’una, scrivono i giudici. «Andavo allo Sport Village per delle sedute di fisioterapia - dice il capo della Protezione civile al Tg2 - e Francesca è una signora perbene alla quale ricorrevo per lo stress che ogni tanto mi colpisce». Massaggi o ripassate, venivano consumati nel centro benessere di proprietà di Diego Anemone e gestito da Simone Rossetti. I due - 50 giorni prima della ripassata - avevano organizzato «una cosa megagalattica per Bertolaso: con due, tre “situazioni”...di qualità...a lui piace così, eh la Madonna!».

«Devo accompagnarvi fuori». Il Salaria Sport Village è sulla statale, al chilometro 14,500, dove un cartello sulla destra annuncia l’abitato di Settebagni. I tre mila soci sono protetti da una pattuglia sparsa di guardie private. Dunque Francesca c’è, «sì, è una ragazza mora, ha meno di 30 anni». Ma è una caccia piccola in un posto enorme dove oggi il sospetto è massimo: buffo, intorno è tutto pressoché “illegale”, costruito in deroga sul greto esondabile del Tevere, esentasse, e una parte (l’ultima) della struttura infatti è sequestrata da otto mesi. Però i giornalisti non possono starci. Ecco invece cosa c’è: 8 campi da tennis, 5 campi di calcio di varia grandezza, piscina olimpionica, palestra da 2 mila metri quadri, bar, centro benessere, parcheggi, foresterie (41 camere), spogliatoi per diverse squadre di pallanuoto. Fermiamoci qui: foresterie e spogliatoi (sotto sequestro).

Sono una parte della ristrutturazione da 37 milioni di euro e furono giustificate così: «Serviranno agli atleti e alle Federazioni per gli allenamenti durante i Mondiali di nuoto». Ovviamente non s’è visto nemmeno un atleta, ma con quest’astuzia la ristrutturazione rientrò nella zona grigia delle ordinanze per i grandi eventi della Protezione civile. E 160 mila metri cubi di lavori sono stati realizzati senza un documento: in deroga. Anche al piano regolatore cittadino, nonostante una sentenza della Cassazione vietasse questa protervia perfino alla Protezione civile, qualora si fossero compiute opere durevoli (e questa è indelebile).

La firma del protocollo è dell’autunno del 2008, nei giorni delle telefonate fra i gestori e Bertolaso che vorrebbe la ripassata, e Anemone che sprona un “allarmato” Rossetti: «Ci costerà qualche soldino...». «Non me ne frega un cazzo», risponde l’altro. Ne frutterà molti di più. Rossetti s’adegua e la sera del 14 dicembre chiude il villaggio al pubblico e fa giungere una donna di nazionalità brasiliana, di nome Monica («una prostituta», scrivono i magistrati) che intrattiene Bertolaso. Il protocollo d’avvio per i lavori lo firma il commissario delegato per i Mondiali di nuoto Claudio Rinaldi, che ha sostituito Angelo Balducci, padre di Filippo, uno dei proprietari (l’altro è Anemone) della Società sportiva romana Srl che ha fondato questo villaggio.

Il Tevere scorre rapido dietro il campo di calcio. La terra è tenera, vietata. È l’Agro romano, nell’alveo del fiume: non si può costruire. Invece lo fanno, sfacciatamente, acquistando questi terreni come agricoli - quindi a prezzo stracciato - nel 2005. Beffando le proteste dei cittadini di Settebagni e di Castel Giubileo, l’esposto di Italia Nostra (in procura) e le denunce politiche (fra tutti: il consigliere Pd nel IV municipio Riccardo Corbucci). Sul cartello del cantiere non c’era nessun permesso, ma solo l’autorizzazione del commissario Angelo Balducci. Lui stesso aveva “retto” l'istruttoria per decidere se costruire o meno. A quella conferenza arrivò il parere contrario di Comune e Provincia di Roma. Se ne fregano, e vanno avanti, risparmiando anche gli oneri accessori che su 37 milioni di lavori preventivati porterebbero nelle casse del Comune almeno 8 milioni di euro, da usare per opere pubbliche, di servizio: l’esoso Sport Village non può esserlo.

Così nel settembre del 2008 Bertolaso ripassa e cominciano i lavori: vengono assegnati alla Redim 2002, di proprietà della signora Vanessa Pascucci, toh, la moglie di Balducci. Deve costruire nuove piscine, le camere, il campo da golf e il campo per il tiro con l’arco. Le frecce cercatele nel fondo del Tevere.



giovedì 11 febbraio 2010

La vergogna di dirsi berlusconiani - Massimo Fini

Con Berlusconi si manifesta un singolare fenomeno, già noto ai tempi della Democrazia cristiana. Negli anni Sessanta e Settanta erano rarissimi quelli che ammettevano di votare Dc. Ma il partito del "Biancofiore, simbol d’amore" prendeva regolarmente, a ogni elezione, il 30 per cento dei suffragi. Evidentemente chi lo votava se ne vergognava.

Così è con Berlusconi. Nei bar, nelle palestre, in piscina, ai bagni o in qualsiasi altro ritrovo pubblico che raccolga un po’ di gente, nessuno, anche quando il discorso cade sul politico, dice di votare Berlusconi.

E anche fra i giornalisti, a meno che non siano i giannizzeri del
Giornale, diLibero, di Panorama, e pure qui non sempre, nessuno ti dice apertamente che sta con Berlusconi. Un poco se ne vergognano, anche loro.

Ma i
berluscones si smascherano in modo indiretto. Se uno ha in orrore Di Pietro, considerandolo il vero "cancro morale" di questo paese, è molto probabile che sia un berluscones. Se vi aggiunge Marco Travaglio ne hai quasi la certezza. Se ci mette anche Giorgio Bocca è matematico.

Per Di Pietro la cosa si capisce, perché è l’unico, vero, contraltare politico del Cavaliere e, per soprammercato, porta avanti il discorso della legalità. E i
berluscones detestano la legalità, naturalmente quando si pretende di richiamarvi "lorsignori", per gli altri c’è la "tolleranza zero".

Sono i liberali alla
Ostellino, alla Galli della Loggia, alla Panebianco, i liberali da Corriere della Sera (scriveva un indignato Panebianco ricordando l’orribile stagione di Mani Pulite: "L’opera di repressione non doveva più occuparsi prevalentemente, come aveva sempre fatto, dei ‘deboli’ e dei reietti, ma poteva rivolgersi anche ai potenti" – Corriere della Sera, 20/9/1999 – e in un altro pregevole scritto "Non parliamo d’altro che di 'corruzione', 'concussione', 'abuso di ufficio' e non ci accorgiamo dei reati di vero allarme sociale che sono quelli della microcriminalità", e ancora "La legalità, semplicemente non è, e non può essere, un valore in sé" – Corriere, 16/3/1998).

Peraltro l’orrore per il "giustizialista" (altra parola magica che smaschera il
berluscones occulto) Di Pietro è un poco contraddittorio. L’intera classe politica attualmente in sella, berluscones in testa, non esisterebbe se non ci fosse stato il "giustizialista" Di Pietro. Particolarmente grottesca è l’avversione a Di Pietro degli ex Msi, ex An, oggi Pdl che, dopo essere stati espunti per decenni dalla politica con la truffa dell’"arco costituzionale", tornarono all’onor del mondo proprio grazie aMani Pulite.

Dove sarebbe oggi, senza Di Pietro, per esempio l’onorevole
La Russa, disonorevole ministro della Difesa? Sarebbe ancora nelle catacombe a fare il "cattivo maestro" di ragazzi che poi, sotto quelle suggestioni, andavano magari a rovinarsi tirando qualche bombetta (Murelli e Loi).

Travaglio è scontato. Sulla legalità ha un rigore torinese, jansenista. Sia a destra sia a sinistra per la verità, ma il berluscones non va tanto per il sottile. Quando però gli chiedi cosa rimprovera a Travaglio, farfuglia. Il massimo che riesce a dire è che "con i libri su Berlusconi ci ha fatto i soldi". Che è come dire che Sciascianon doveva fare le denunce di Todo modo perché quel libro ha venduto.

Ma il più incomprensibile, e quindi il più significativo, è
Giorgio Bocca. Se in una conversazione salta fuori, per qualsiasi motivo, il nome di Bocca, ilberluscones occulto cade in deliquio, fa il ponte isterico, gli viene la schiuma alla bocca e manca poco che venga preso da una crisi epilettica. Eppure Bocca è stato il primo giornalista italiano di sinistra, ma anche non di sinistra, a denunciare sulGiorno, in un memorabile reportage degli anni ‘60, che cosa fosse realmente la gloriosa Unione Sovietica.

Meriterebbe un posto d’onore nel mondadoriano e berlusconiano opuscolo "Il libro rosso degli orrori del comunismo". Invece i
berluscones lo odiano. E si vedono anche delle sciacquette del giornalismo nostrano, gente che ha cominciato a scrivere editoriali, cioè temi da liceo, a vent’anni, e a trenta, non avendo fatto alcuna esperienza sul campo, non san più che dire, storcere il naso di fronte al nome di Giorgio Bocca e alla sua straordinaria carriera che gli permette, alle soglie dei novant’anni, di essere ancora perfettamente lucido sulla pagina.

"Non devo alcun rispetto a Bocca" scriveva tempo fa un pinchetto di cui non ricordo il nome, poniamo un
Facci qualsiasi, mentre dovrebbe fare i gargarismi prima di pronunciare il suo nome invano. Comunque sia un indizio è un indizio. Tre indizi (Di Pietro, Travaglio, Bocca) fanno una prova.

Quindi se vi capita in casa un tipo mellifluo, che affetta equidistanza, ma quando sente i nomi di quei tre ha reazioni da demonio finito in un’acquasantiera, potete andare sul sicuro: è un
berluscones doc. E cacciatelo a pedate nel culo perché non ha nemmeno il coraggio civile di essere ciò che è.

Da
il Fatto Quotidiano dell'11 febbraio

Scandalo annunciato - Peter Gomez

Da Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2010

L’inchiesta fiorentina sulla Protezione civile e sui 337 milioni di euro sottratti ai contribuenti e bruciati nei lavori del G8 (mancato) alla Maddalena è una
fotografia perfetta dello stato del paese.

Al di là di quelli che saranno gli esiti dell’indagine, già ora si sa che intorno a Guido Bertolaso negli anni è nato, ed è stato foraggiato, un sistema di scambi di favori e diassegnazione degli appalti perfettamente bipartisan.

Grazie al Segreto di Stato, imposto da Prodi e confermato da Berlusconi, alla Maddalena i criteri di affidamento dei cantieri sono rimasti per tutti un mistero.

Così, con la scusa della sicurezza – che fa il paio con quella dell’emergenza – ad un’azienda da appena 26 dipendenti dichiarati, la Anemone Costruzioni, si è persino riusciti a regalare lavori per 58 milioni di euro.

E quando, il 23 dicembre del 2008, Fabrizio Gatti su L’Espresso, ha rivelato che l’Anemone era legata a doppio filo (affari) alla famiglia del braccio destro di Bertolaso, Angelo Balducci, ora in manette, nessuno ha battuto ciglio.

In Parlamento è stata presentata, a firma radicale, un’unica interrogazione.

Balducci, equanimamente vicino al ministro Altero Matteoli e all’ex leader Pd, Francesco Rutelli, invece, è rimasto seduto sulla sua nuova poltrona di presidente del Consiglio superiore delle opere pubbliche, mentre il governo ha addirittura pensato di trasformare la Protezione civile in una Spa.

Un sistema perfetto per gestire i soldi pubblici lontano da ogni verifica.

Oggi quindi ci si può giustamente indignare per un premier come Berlusconi che prima ancora di conoscere gli atti attacca i giudici e difende a prescindere tutti gli indagati.

Ma bisogna anche ricordare che nelle democrazie normali, a controllare chi governa, prima ancora della stampa e della magistratura, deve essere l’opposizione. Sempre che non vada abitualmente a pranzo o a cena con il Bertolaso o il Balducci di turno.


E, per saperne di più:





Meno male che Silvio c'è - Peter Gomez


Giovanni, Mario, Nino e gli altri: quegli uomini d’onore in prima fila per la nascita di Forza Italia in Sicilia

Adesso negano tutti. Quelli che c’erano e quelli che non c’erano. Nega
Gianfranco Micciché, nel 1994 coordinatore di Forza Italia nella Sicilia occidentale, che dice: "Mai nessun mafioso ha avuto contatti, né rapporti con me". Nega Sandro Bondi che all’epoca aveva appena lasciato Fivizzano per approdare in quel di Arcore. E nega Giancarlo Galan, che c’era, ma che stava in Veneto. Tutti sono d’accordo. Massimo Ciancimino è un calunniatore manovrato: tra la Forza Italia delle origini e Cosa Nostra non c’è mai stato alcun rapporto.

Ha ragione il sindaco di Palermo,
Diego Cammarata, che, in qualità di dirigente, ricorda come le adesioni al partito avvennero "senza concedere mai alcuno spazio a personaggi che fossero in qualche modo anche lontanamente assimilabili ad ambienti collusi con la criminalità organizzata".

La storia però è tutta diversa. E a raccontarla non sono solo i processi, ma persino le collezioni dei giornali. Infatti se è sbagliato dire che Berlusconi vinse le elezioni del ‘94 (solo) grazie all’appoggio della mafia o che Forza Italia è nata per (esclusivo) volere di
Bernardo Provenzano, altrettanto errato è affermare che Cosa Nostracon il movimento del Cavaliere non c’entra.

Anche perché già il 12 aprile del ‘94, il presidente della Commissione antimafia
Tiziana Parenti, appena eletta nelle fila del partito del Cavaliere, denunciava a chiare lettere il "rischio di infiltrazioni mafiose.
In quei giorni si era spenta da poco l’eco della campagna elettorale. In Sicilia come nel resto del Paese erano nati centinaia di club azzurri. E visto che per fondarli bastava inviare un
fax con cinque firme alla sede del partito, dentro ci si trovava di tutto.

Così, a Capaci, il paese della strage, una settimana prima delle elezioni, una bandiera di Forza Italia viene piazzata sul balcone della palazzina del boss locale, in quel momento in carcere.

A Misilmeri, invece, il responsabile del club cittadino, l’incensurato
Giovanni La Lia si sente spesso per telefono con uno degli autori della strage dei Georgofili, a Firenze. Mentre ad Altofonte, coccarde e volantini sono distribuite da Mario Gioè, fratello di Nino, l’uomo d’onore morto suicida in carcere dopo essere stato arrestato per la bomba a Falcone. Angelo Codignoni, il responsabile nazionale dei club, smentisce che Gioè abbia ufficialmente fatto parte del movimento, ma per ironia della sorte, il 5 febbraio 1994, presenta Forza Italia ai siciliani nelle sale delSan Paolo Palace, l’albergo di un imprenditore condannato come prestanome, dei fratelli Graviano, i due boss di Brancaccio ora sospettati di essere in rapporti conMarcello Dell’Utri e Berlusconi.

E il club viene poi chiuso da Micciché. A Villabate, intanto, la fa da padrone
Nino Mandalà, amico ed ex socio di Renato Schifani e Enrico La Loggia, che di li a poco prenderà in mano la locale famiglia mafiosa. Mentre il movimento politico di Sicilia Libera, fondato per volontà del cognato di Riina, Leoluca Bagarella, vede una serie di suoi aderenti confluire negli azzurri.

Decine di pentiti sono concordi nell’affermare che nel ‘94 arrivò l’ordine di schierarsi col Polo. Dice, per esempio, Pasquale Di Filippo, genero del boss della Kalsa
Tommaso Spadaro: "Mi ricordo che mio suocero mi disse: 'Dovete votare per Berlusconi'. Tutta Palermo sapeva che doveva votare Berlusconi".

Anche se l’ex braccio destro di Provenzano,
Nino Giuffrè, spiega: "Forza Italia non l’abbiamo fatta salire noi. Ma il popolo stanco della Dc. E noi furbi abbiamo preso la palla al balzo. Tutti Forza Italia".
Così, tra chi sostiene e fa campagna per il cavaliere, ecco anche il commercialista di Totò Riina,
Pino Mandalari, un potente massone, già arrestato negli anni Settanta, e poi condannato a dieci anni di carcere.

In quei giorni i telefoni di Mandalari sono sotto controllo. La polizia lo sente lamentarsi perché a una riunione Micciché non lo ha fatto salire sul palco, ma poi lo ascolta mentre chiama
Michele Fierotti e Filiberto Scalone di An e mentre parla con la segreteria di La Loggia che chiama pure a casa chiedendo di Enrico.

Certo, una volta interrogati tutti, a partire da Mandalari, negano (La Loggia) o minimizzano. Ma l’impressione che non si sia andati troppo per il sottile, resta. E diventa più evidente con il passare del tempo. Nel 1995, per esempio, entra in Forza Italia,
Giovanni Mercadante, senza che nessuno dica niente sulla sua stretta parentela con il boss di Prizzi (legato a Provenzano), Tommaso Cannella. Il risultato è che Mercadante passa dal comune alla regione e infine approda nelle patrie galere.

Selezione della classe dirigente? Nessuna. Tanto che nel ‘96, diventa addirittura presidente della regione l’ex commercialista della moglie di
zio Bino. Si chiama pure lui Provenzano (Giuseppe, ma è un’omonimia), è stato in prigione, poi però l’hanno prosciolto per insufficienza di prove. Per la politica quasi una medaglia. Per la mafia, che certamente ha frainteso tutto, l’ennesimo segnale.

da il Fatto Quotidiano del 10 febbraio



Insider trading e aggiotaggio: la mafia in Borsa


di Aaron Pettinari - 9 febbraio 2010
Milano.
Non solo edilizia. L'infiltrazione mafiosa nell'economia legale ha diverse forme di espletamento e di certo non sfuggono gli investimenti in borsa. I finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Milano, con un'operazione partita 4 anni fa, hanno indagato 18 persone, alle quali martedì è stato notificato l'avviso di conclusione indagini, che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio.


La complessa indagine denominata "Texada" costituisce lo stralcio di una più vasta inchiesta che ha visto protagonisti gli affiliati alla nota famiglia mafiosa dei Rizzuto, con base a Montreal (Canada), nei cui confronti sono stati già effettuati arresti nell'ottobre 2007 (operazione "Gold Moustache"). I reati contestati sono di associazione per delinquere finalizzata all'insider trading e all'aggiotaggio, con l'aggravante della transnazionalità. 
Secondo l'accusa i 18 indagati italiani, tra cui figurano anche promoter finanziari e dipendenti di società di intermediazione mobiliare, operavano sui mercati regolamentati italiani e stranieri, tramite sofisticate tecniche di Borsa, con lo scopo di truffare i risparmiatori. In pratica gonfiavano e sgonfiavano artificiosamente i prezzi dei titoli sul mercato, un metodo chiamato “market abuse”. 
In particolare i promotori “promuovevano” investimenti sugli andamenti del titolo “Infinex”, quotato all'Over the counter della Borsa statunitense e al mercato regolamentato di Brema e Berlino. A passare le “dritte” erano i boss Roberto e Antonio Papalia, soci della Infinex Ventures Inc. Le informazioni, talora false, servivano a pilotare la movimentazione dei titoli, «anche servendosi di banche svizzere», ai danni sia degli stessi istituti di credito, sia dei risparmiatori.
Tra queste informazioni sensibili - si legge nel documento di chiusura delle indagini firmato dal pm Bruna Albertini - c'è “nel giugno - luglio 2004 l'imminente uscita di notizie che avrebbero fatto salire il titolo Infinex quali la prossima distribuzione di un dividendo consistente in una azione ogni 10 possedute, per il quale la società stava predisponendo gli incartamenti da presentare alla Sec e successivamente avrebbe annunciato tale fatto attraverso gli organi di informazione”. E ancora è presente la notizia che nell'ottobre 2004 ci sarebbe stato “un imminente aumento di capitale della società Infinex Ventures per circa 100 milioni di dollari, grazie all'ingresso di un nuovo socio con disponibilità patrimoniale quantificata da Roberto Papalia in 22 alberghi tra cui uno a Pompei, 2 casinò oltre a sviluppi immobiliari in Spagna e Santo Domingo”.
Nel 2006 gli indagati hanno quindi contribuito a divulgare l'informazione privilegiata, poi rivelatasi falsa, che la società Infinex “avrebbe acquisito il 50% dei diritti appartenenti a tale Francesco Rodolfo, di estrazione di oro in una grossa miniera in territorio cileno”.
Il profitto accumulato dagli indagati e dai loro mandanti, nei quattro anni di manipolazione del titolo “Infinex”, ammonta a circa 15 milioni di euro, veicolati - attraverso l'apertura di conti correnti in Svizzera - nelle casse canadesi dei boss. Tra gli indagati figurano alcuni personaggi già noti alle cronache per avere in passato abusivamente sollecitato il pubblico risparmio su alcuni investimenti rivelatisi in seguito truffaldini. È stato altresì tentato, senza riuscirvi, di acquisire il controllo di una Società di intermediazione mobiliare (Sim) milanese.



De Luca, l'Idv e l'acclamazione barzelletta - Peter Gomez


Il voto per acclamazione con cui i delegati dell'Idv hanno deciso di appoggiare la candidatura di Vincenzo De Luca alla presidenza della regione Campania è un errore politico che costerà molto caro al movimento di Antonio Di Pietro. D'ora in poi, e con piena ragione, chiunque potrà ricordare quanto è avvenuto a Salerno e affermare che l'Italia dei Valori applica il sistema dei due pesi e delle due misure. Se De Luca corre per la poltrona di governatore con due processi in corso, perché non deve poter governare o candidarsi chi è nella sua stessa situazione? Detto in altre parole: qual è la differenza tra De Luca, Berlusconi o Fitto?

Badate bene, qui non si tratta di discutere di etica, di giustizialismo, di selezione delle classi dirigenti demandata (sbagliando) alla magistratura, o di altro. Il problema invece è la coerenza. Anche perché in politica vincono i
messaggi semplici. E quello lanciato con la standing ovation al congresso dell'Idv in favore di De Luca, lo è.
Tanto che, questa volta, viene difficile dar torto al vice-capogruppo dei senatori del Pdl, Gaetano Quagliariello, quando parla di decisione "barzelletta".

Dopo la
svolta di Salerno, l'Italia dei Valori finirà insomma per pagare pegno. E lo farà persino se De Luca dovesse sconfiggere il suo scialbo (ma formalmente immacolato) avversario. È noto, infatti, che quello Di Pietro è prima di tutto un movimento che raccoglie il voto di opinione. Per questo va generalmente male alle elezioni amministrative, mentre recupera terreno alle politiche o alle europee. Il caso De Luca fa adesso correre seriamente il rischio che il movimento di opinione alle spalle dell'Idv si disperda o finisca per rivolgersi una volta ancora al Partito Democratico o a quello che ne resta. Ne valeva la pena? Pensiamo di no.

È vero, la scelta di sostenere De Luca era quasi ineluttabile. Di altri candidati in Campania non ce n'erano. Anche perché in questi mesi né il Pd, nè l'Idv si sono dati troppo da fare per trovarli. E
Luigi De Magistris, l'unica persona che presentandosi all'ultimo momento avrebbe messo in crisi il gioco pro De Luca, non lo ha fatto. Finendo così per caricarsi sulle spalle, a causa dei suoi tatticismi e della sua mancanza di coraggio, una parte rilevante della responsabilità dell'accaduto. Ma, in ogni caso, c'è modo e modo per appoggiare una candidatura del genere.

Un partito lo può fare dimostrando a tutti che sta ingoiando un rospo. Che si sta muovendo solo per dovere di coalizione dopo che con il Pd è stato raggiunto un accordo a livello nazionale. Oppure può evitare, o quasi, il dibattito. Può risolvere tutto in mezza giornata, per poi andare gioiosamente, e
tra il tripudio di delegati e dirigenti, verso uno degli errori più clamorosi della sua breve storia.