mercoledì 7 aprile 2010

Chiesa e pedofilia: in troppi salvati dalla prescrizione


7 aprile 2010
Verona: 25 sacerdoti e un vescovo accusati di violenze su ex allievi sordi, ma i reati non sono più perseguibili

di
Vania Lucia Gaito

L’agghiacciante vicenda dell’Istituto
Provolo per sordi, di Verona, sfociata nella testimonianza pubblica di 67 ex allievi che denunciano le violenze sessuali subite, rievoca il caso americano di padre Murphy, venuto recentemente alla ribalta delle cronache. Testimonianze precise, che coinvolgono 25 sacerdoti e un vescovo, tutti citati per nome. Il vescovo è monsignor Giuseppe Carraro, vescovo di Verona morto nel 1981, per il quale è in corso un processo di beatificazione. Dagli anni ’50 fino al 1984, una sequenza di orrori. Eppure non ci saranno indagini e processi per i sacerdoti coinvolti, neppure per quelli ancora in vita: è intervenuta la prescrizione e i reati non sono più perseguibili. La legge italiana prevede infatti tempi precisi entro i quali i procedimenti per abusi sessuali ai danni di minori possono essere perseguiti: 10 anni.

"La prescrizione decorre dalla data in cui viene consumato il reato", afferma l’avvocato Paola Rubino, difensore di parte civile nel processo a carico di padreTurturro (sacerdote antimafia di Palermo, accusato nel 2003 di aver compiuto abusi sessuali ai danni di alcuni bambini della sua parrocchia), conclusosi con la condanna in primo grado a sei anni e mezzo. "Quella della prescrizione è una problematica legata a tutti i tipi di reato, in particolar modo i tempi diventano problematici quando si parla di abusi sessuali. Si tratta di reati consumati con modalità particolari, spesso la vittima è già di suo psicologicamente debole, perché viene da situazioni personali o familiari problematiche. Si instaura poi tra abusante e abusato un meccanismo simile a quello del plagio. Non di rado occorre parecchio tempo, anche anni, prima che la persona offesa sia capace di denunciare l’abuso".

Come nel caso dei bambini sordi dell’istituto
Provolo, come per i bambini delle scuole irlandesi del rapporto Ryan, come per i casi americani, trascorrono spesso anni. Molto però dipende dalla volontà politica di perseguire realmente certi crimini. Negli Stati Uniti, per esempio, lo stato della California approvò una legge che creava una finestra di un anno durante la quale potevano essere presentate denunce senza limiti retroattivi di tempo, in modo che anche abusi commessi decenni prima potessero essere perseguiti e risarciti. In Italia, al contrario, spesso non si riesce ad arrivare a sentenza definitiva prima che siano trascorsi i fatidici dieci anni della prescrizione. Come nel caso di don Giorgio Carli che, condannato in appello a sette anni e mezzo, ha visto prescriversi il reato prima della fine del processo in Cassazione. "Non è soltanto un problema legato alla tardività delle denunce" prosegue l’avvocato Rubino. "I fattori concomitanti sono molti, le indagini che si dispiegano in lunghi archi temporali, il fatto che molti magistrati siano oberati di lavoro, e poi ovviamente i tempi tecnici tra l’avviso di conclusione delle indagini, il rinvio a giudizio, l’udienza preliminare e tutti quei passaggi previsti dalla procedura. Ovviamente si tratta di un problema che investe sia il denunciante che il denunciato: nel primo caso perché potrebbe intervenire la prescrizione e il reato non sarebbe più punito, nel secondo perché se l’imputato non è colpevole dei reati a lui ascritti la sua innocenza dovrebbe essere riconosciuta il prima possibile".

Spesso le vittime non denunciano perché non hanno la certezza che un eventuale processo si concluda nei termini previsti dalla legge, quindi, ma anche perché temono il giudizio sociale. “Gran parte della società è impreparata, incapace di fronteggiare l’abisso oscuro della pedofilia. Certo, si affronta come tematica astratta, ma quando si ‘incarna’ nel vicino di casa, nel collega di lavoro o nel proprio parroco non si riesce più a coniugare l’immagine pubblica di quella persona con le accuse. E’ uno dei motivi per cui la società si schiera spesso al fianco dell’accusato, non della vittima, emarginando chi, con grande difficoltà, è riuscito a denunciare quanto subito” afferma
Massimiliano Frassi, presidente dell’associazione antipedofilia “Prometeo”, che da anni chiede l’allungamento dei tempi di prescrizione del reato, se non che la prescrizione sia del tutto abolita. Frassi è stato fra i primi a schierarsi a sostegno delle vittime della pedofilia clericale e a rompere il muro del silenzio, organizzando già nel 2001 una conferenza con l’associazione "Snap", che riunisce le vittime statunitensi dei preti pedofili.

"Come altre associazioni, anche noi abbiamo ricevuto diverse segnalazioni di vittime di abusi da parte di religiosi, ma in particolare in questi casi ci viene chiesto di aiutare la vittima ma non si vuole sporgere denuncia. Quando si tratta di preti accusati di abusi sessuali, si arriva a situazioni veramente difficili, per la tendenza delle realtà locali a chiudersi in difesa dei propri sacerdoti". Resta però aperta la possibilità di un risarcimento dei danni attraverso una causa civile: un danno infatti può manifestarsi anche parecchio tempo dopo, soprattutto laddove risulti di ordine soggettivo. Ma non serve assolutamente a condannare i colpevoli e, soprattutto, a tenerli lontani dai bambini.

Da il Fatto Quotidiano del 7 aprile


LA LEGA DALLA PARTE DELLA GENTE? «MENSA NON PAGATA, BAMBINI FUORI DALLA SCUOLA»


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Scritto da www.ilmanifesto.it (segnalazione di G. Catoggio)
Mercoledì 07 Aprile 2010 10:03

Nessuno si chiede perché le persone non paghino la mensa per i figli? Dimenticanze? Impossibilità di pagare? Ma i bambini cosa c'entrano? Si denuncino i genitori se è il caso (o li si aiuti economicamente) ma non si tocchino i bimbi. E' vergognoso che ci si accanisca su di loro che non hanno nessuna colpa se i genitori non pagano quanto devono (Redazione) (www.ilmanifesto.it) Neanche a pane e acqua, bensì fuori da scuola per due ore. Dove non si sa, non è questione che interessa l'amministrazione leghista di Adro. Siamo in Franciacorta, provincia di Brescia, e la guerra contro i bambini figli di famiglie che non pagano la mensa scolastica vede di nuovo protagonista un sindaco del Carroccio: Oscar Lancini. Le polemiche contro un'analoga iniziativa adottata il mese scorso a Montecchio Maggiore, nel Vicentino, dove gli alunni morosi furono sfamati con panini imbottiti e una bottiglia di acqua, non hanno intaccato i primi citadini in camicia verde. Così da stamattina 40 bambini dell'Istituto comprensivo di primo e secondo grado di via del Lazzaretto a Adro non saranno ammessi alla mensa scolastica. La circolare che è stata recapitata ai genitori - tramite bambini, che si sono visti consegnare in classe una busta chiusa di cui tutti i compagni conoscevano già il contenuto, si può immaginare la vergogna - parla chiaro: «L'organizzazione scolastica non ha nessuna possibilità e risorsa strutturale ed economica per garantire agli alunni l'assistenza e soprattutto un pasto alternativo rispetto a quello fornito dall'amministrazione comunale con il servizio della mensa scolastica». Insomma, scrive il dirigente scolastico Gianluca Cadei, la scuola non sa né come assistere, né cosa dare da mangiare ai bambini se non ci pensa chi ne ha la responsabilità, cioè il Comune. Quindi l'unica soluzione è che i figli dei morosi durante le ore dei pasti escano da scuola. Ma siccome si tratta di minorenni la circolare specifica che «dovranno essere ritirati dalla scuola alle 12,10 e riaccompagnati dai genitori alle 14,10 per le lezioni del pomeriggio». Ma come faranno i genitori che lavorano? E la mensa non è forse orario scolastico obbligatorio? Il sindaco Lancini non si fa, evidentemente, tante domande. Contro la decisione dell'amministrazione comunale di Adro si sono mossi la Caritas e lo Spi Cgil, che per stamattina annunciano un'iniziativa di protesta: volontari porteranno nella scuola di via Lazzaretto cibo, frutta e acqua per i bambini esclusi dalla mensa. Ma da quanto è trapelato, il sindaco non ha intenzione di permettere l'ingresso nelle aule scolastiche dell'associazione cattolica e del sindacato dei pensionati.
Lancini è famoso per le sue iniziative contro gli immigrati extracomunitari: anni fa mise una taglia sui clandestini, ad Adro gli extracomunitari sono sistematicamente esclusi dai bonus per le famiglie bisognose. Ma dalla guerra agli immigrati, la politica dell'amministrazione leghista sta virando velocemente verso la guerra contro tutti coloro che si trovano in difficoltà economiche e sociali. L'esempio della mensa scolastica è lampante. La maggior parte di bambini esclusi è di origine straniera, ma non sono stati risparmiati i bambini italiani. Spesso alle spalle hanno già il dramma della crisi economica e della perdita del lavoro dei genitori. Oppure solo una vita complicata, come nel caso di Ilaria Poli, la cui figlia che frequenta la quinta elementare è tra gli esclusi: «Cresco da sola tre figli - spiega - Ho sempre pagato, ma spesso in ritardo. Va anche detto però che a Adro la mensa si paga in anticipo: ti risarciscono se il bambino non frequenta». Pur avendo un reddito basso, Poli paga il massimo della retta (100 euro al mese) perché non è residente a Adro, ma in un paese vicino. In pratica sconta la volontà della giunta leghista di negare ogni supporto ai non residenti, pur essendo italianissima. Ad Adro la signora lavora, ci vive sua madre, e per questo ha iscritto sua figlia in quel Comune, pur essendo «straniera». Stamattina accompagnerà sua figlia a scuola: «Le ho parlato, ha sofferto per questa situazione. Ma a scuola andrà comunque. Non ci possono sbattere fuori».


I padrini del Ponte

di Antonio Mazzeo - 7 aprile 2010
Sarà in libreria ad aprile il libro di Antonio Mazzeo. Un lavoro dettagliato che documenta gli interessi mafiosi sulla costruzione della grande opera sullo Stretto di Messina.


Da aprile sarà in libreria il lavoro di Antonio Mazzeo
I Padrini del Ponte. Affari di mafia sullo stretto di Messina (Edizioni Alegre, Roma, 14 euro). Un libro che sulla base di un’attenta documentazione giudiziaria denuncia gli interessi criminali che ruotano attorno alla costruzione del Ponte sullo Stretto. left, in anteprima, pubblica alcuni passaggi.
«Era il 12 febbraio 2005 e gli agenti di Pubblica sicurezza bussavano alle porte di un lussuoso appartamento ai Parioli di Roma. Portavano con sé un’ordinanza di custodia cautelare per un anziano ingegnere. La Procura della capitale lo accusava di essere prestanome di mafia e ’ndrangheta per portare a compimento l’affare del nuovo secolo: riciclare cinque miliardi di euro, proventi del traffico di stupefacenti, e realizzare il collegamento stabile tra Sicilia e Calabria. Il professionista non era l’unico indagato. C’erano, con lui, altre quattro persone. Alcune risiedevano all’estero. Un’altra era già in carcere in attesa di essere giudicata per un triplice omicidio.
Secondo le risultanze dell’inchiesta, gli indagati, avvalendosi dell’impresa appositamente creata da un consociato, avevano partecipato alla fase di prequalifica per la scelta del
general contractor, il soggetto che dovrà progettare e costruire il Ponte. Contestualmente avevano avviato i contatti con altre società partecipanti alla gara, per essere certi in ogni caso, di partecipare al finanziamento e all’esecuzione dei lavori. L’indagine aveva preso il via da una segnalazione della polizia canadese risalente all’ottobre del 2002 e relativa alle operazioni finanziarie di un’organizzazione criminale di stampo mafioso capeggiata dal boss Vito Rizzuto. Una cellula del sodalizio operava anche in Italia con lo scopo di acquisire il controllo di importanti attività economiche: il referente, stando agli inquirenti nordamericani, sarebbe stato un anziano imprenditore apparentemente “pulito”, con una pregressa esperienza internazionale nel campo delle opere pubbliche. Giuseppe “Joseph” Zappia il nome del professionista chiamato a fare da “schermo” ad una delle più imponenti operazioni di riciclaggio di denaro della storia di Cosa Nostra. Un ingegnere nato nel 1925 a Martingues (Francia), ma di origini calabresi, figlio di emigranti che avevano abbandonato il comune di Oppido Mamertina per far fortuna prima in Francia e poi in Canada [...]».

«[...] Nel 1976 Zappia conquistava il vertice di una delle più importanti società canadesi, partecipando alla costruzione di complessi immobiliari, ospedali e cliniche per migliaia di posti letto e, fiore all’occhiello, le due piramidi del villaggio olimpico di Montreal. Un’opera, quest’ultima, dal design certamente futurista e originale, ma che alla fine era costata 68 milioni di dollari in più di quanto preventivato.
Da lì l’arresto di mister Zappia per estorsione e truffa. Scarcerato dietro cauzione, nell’aprile 1980 l’ingegnere decideva di lasciare il Canada per trasferirsi negli Emirati Arabi. [...]».
«[...] Ma Giuseppe Zappia non era riuscito a sfuggire alla sindrome che colpisce tanti degli emigranti e dei figli di emigranti. Il timore, cioè, di morire senza radici, soli, lontani. Il bisogno di tornare e invecchiare respirando gli odori ancestrali. E il sogno di fare qualcosa di grande, di eterno, per la terra propria e degli avi. “Mi ricordo - ha raccontato l’ingegnere - che quand’ero ragazzo la gente anziana, emigrata in America nei primi anni del 1900, mi ripeteva che un giorno anche Calabria e Sicilia verranno unite da un ponte come quello di Brooklyn. Ho deciso di concludere la mia vita qui e vorrei tanto veder realizzato quel ponte sullo Stretto di Messina”. Un desiderio che spingeva Zappia a farsi in quattro in vista del preannunciato bando per la scelta del soggetto unico a cui affidare, chiavi in mano, progetto, finanziamento e lavori. Per concorrere alla fase di preselezione, Zappia fondava una modestissima società a responsabilità limitata (appena trenta mila euro di capitale), la Zappia International, la cui sede veniva fissata a Milano negli uffici dello studio legale Pillitteri-Sarni, titolare Stefano Pillitteri, consigliere comunale di Forza Italia e figlio dell’ex sindaco socialista di Milano, Paolo. Collega di studio del Pillitteri è Cinzia Sarni, moglie del giudice Ersilio Sechi, che ha assolto Marcello Dell’Utri e Filippo Rapisarda per il crack Bresciano. Era a lei che Giuseppe Zappia confidava i suoi propositi. “È al corrente che io voglio fare il ponte di Messina?”, rivelava l’ingegnere in un colloquio telefonico del 13 giugno 2003. “Io se faccio il ponte lo faccio perché ho organizzato 5 miliardi di euro… e questi 5 miliardi furono organizzati da tempo, mi comprende? Da tempo!”. Contemporaneamente l’ingegnere italo-canadese allestiva un team di professionisti internazionali che lo affiancavano nella gestione degli aspetti economici e finanziari dell’operazione. Veniva nominato consulente legale il noto avvocato romano Carlo Dalla Vedova, mentre i contatti con i potenziali finanziatori esteri venivano affidati al mediatore cingalese Sivalingam Sivabavanandan.
Per stringere relazioni e alleanze con ministri, sottosegretari e imprenditoria capitolina, Zappia avrebbe ottenuto la collaborazione di un ex attore televisivo di origini agrigentine, Libertino Parisi, noto al grande pubblico per aver fatto l’edicolante nella trasmissione Rai
I fatti vostri. Parisi diventava l’uomo di fiducia dell’ingegnere Zappia. Con lui venivano programmati appuntamenti e riunioni ai massimi vertici istituzionali, finanche con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e con il ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi. “Ho parlato con quelle persone che erano molto interessate del fatto che un’impresa con capitali arabo-canadesi intende costruire il ponte finanziando l’opera per intero”, rivelava confidenzialmente l’ingegnere a Libertino Parisi, in una telefonata del 5 marzo 2004. “Ho ricevuto indicazioni di mandare un fax con la proposta alla segreteria del presidente della società Stretto di Messina”.
Il 24 marzo, giorno in cui il consiglio d’amministrazione della Stretto spa approvava il bando di gara proposto dall’amministratore delegato Pietro Ciucci per la selezione del
general contractor, l’ingegnere era intercettato mentre dava le ultime istruzioni a Parisi in vista di una riunione con i vertici della concessionaria per il collegamento stabile Calabria-Sicilia. “Quello che io ho bisogno - affermava Zappia - è di uscire dalla riunione di questo pomeriggio con la facoltà di sedersi con il Governo e di fare l’accordo a cui posso io arrivare con i miei finanzieri. Perché, i miei finanzieri, non li svelerò a loro… Io, ho due finanzieri, uno separato dall’altro, tutti e due sono pronti a mettere non 4.500, insomma quant’è questo, 4 miliardi e mezzo? So’ pronti a mettere cinque miliardi di euro! È una cosa che loro non hanno, e che spero che la guarderanno un po’ fuori limite”. Il 22 aprile 2004 Zappia informava l’avvocato Dalla Vedova dell’esito di una lunga riunione con gli ingegneri e gli avvocati della Stretto di Messina e di un’altra riunione con Salvatore Glorioso, segretario particolare del ministro Enrico La Loggia ed assessore provinciale di Forza Italia a Palermo.
L’ingegnere aggiungeva: “Per la legge italiana devono fare una presentazione d’offerta, ma è solo una formalità perché loro già sanno chi farà il ponte ed è un loro amico che si chiama Joe Zappia!”. “Sono in possesso dei documenti di analisi di fattibilità finanziaria, di finanziabilità del mercato”, riferiva l’avvocato romano. Zappia però lo interrompeva: “Sono già stato alla sede romana della Stretto di Messina con Sivabavanandan. Non ti posso riferire adesso quello che ci siamo detti in quelle ore, ma hanno deciso che l’uomo che farà il ponte sarò io perché posso gestire i problemi in quell’area del Paese. Sono calabrese!”.
L’essere calabrese, il sapersi muovere in un ambiente notoriamente “difficile”, la disponibilità di grandi capitali da offrire per i lavori del Ponte, facevano di Giuseppe Zappia un uomo fermamente convinto di poter imporre le proprie regole, senza condizionamenti di sorta. Del resto, società concessionaria e potenziali concorrenti manifestavano già qualche difficoltà a reperire i fondi necessari per avviare il progetto».
Antonio Mazzeo

Il libro
I Padrini del Ponte. Affari di mafia sullo stretto di Messina
Di Antonio Mazzeo, edito da Alegre, 208 pagine di inchiesta.
Costo 14 euro.



L'Aquila, l'impresentabile non si presenta - Antonio Padellaro

Fischiato il suo messaggio, il premier resta a casa

Il giornale delle cliniche private di Roma e provincia (Libero, per chi non lo sapesse) dedica al Fatto un garbato titolo ("Sciacalli sull’Aquila") accusandoci di "demolire la ricostruzione con bugie e dati falsi". Replicare a chi si becca circa sette milioni e ottocentomila euro l’anno (dati 2007) di soldi pubblici, cioè nostri e vostri, e poi ci fa la morale perché beneficiamo, come tutti, di una riduzione sulle tariffe postali, è sempre divertente. Diventa spassoso quando l’organo che fu già del partito monarchico che gli veicolava i cospicui fondi statali (cosa non si fa pe’ campà) scrive l’articolo sbagliato nel giorno sbagliato. Se i giornalisti della Real Casa avessero pazientato un giorno (forse) avrebbero potuto prendere nota di alcuni particolari che, diciamo così, stridono con lo struggente titolone dedicato all’"orgoglio" del premier, e cioè: "Vogliono infangare un grande lavoro" (viva il Re).

Le cronache della notte della memoria a L’Aquila parlano infatti di cartelli con su scritto "via gli sciacalli" (ma non si riferivano al
Fatto). E della grandinata di fischi che hanno accolto la lettura del messaggio del premier e la lettera del presidente del Senato Schifani, i bravi cronisti di Libero avrebbero sicuramente preso nota. Purtroppo non sapremo mai da quale calorosa accoglienza sarebbe stato accolto l’uomo del "miracolo" in carne e ossa poiché il presidente del Consiglio non si è proprio visto. Sarà stato certamente per la naturale ritrosia del personaggio davanti alle manifestazioni di giubilo in suo onore. O forse perché qualcuno lo ha saggiamente avvertito di starsene lontano perché non era proprio aria per le passerelle trionfali.

La rabbia degli aquilani e delle popolazioni abruzzesi colpite dal sisma di un anno fa ha motivazioni diverse da quelle che i solerti papaveri della Protezione civile hanno messo in giro. Ovvero: gente incontentabile e che non apprezza, appunto, i miracoli del governo. No, è gente stanca di farsi prendere in giro e che non ne può più di essere usata come fondale di cartone per gli spot dell’informazione unica padronale. Lo sanno anch’essi che i miracoli sono impossibili. Che per la ricostruzione ci vorranno anni. Ma avrebbero apprezzato un minimo di onestà e rispetto. Ma questo su
Libero (viva il Re) non lo leggeremo mai.

Da
il Fatto Quotidiano del 7 aprile




Al premier non servono più - Enrico Fierro

Berlusconi salta la notte della memoria

L’Aquila - Viene. No, non viene. Forse parteciperà alla messa delle 4 del mattino a Collemaggio. Notizia falsa pure questa. E’ stata scandita dagli annunci di improbabili arrivi e da smentite più o meno ufficiali, la presenza al primo anniversario del terremoto di Silvio Berlusconi. Ma dietro le quinte dei Palazzi è andata in onda un’altra storia. Berlusconi voleva davvero andare a L’Aquila un anno dopo, essere fisicamente presente, fare il suo bagno di folla e non solo limitarsi a dichiarazioni e interviste, come è stato costretto a fare. Per questo ha telefonato a Gianni Chiodi, il presidente della Regione, per chiedere che aria si respirava nel capoluogo abruzzese nei giorni del ricordo e del dolore. E pare che Chiodi abbia parlato chiaro.

L'aria è brutta, da settimane quello che chiamano il popolo delle carriole ha ridestato l’attenzione dei media sulla ricostruzione. Le macerie rimosse dopo un anno di inerzia totale, le denunce degli intellettuali e dei vari comitati sulle cose che non vanno, il dito puntato sul piano Case e sulle
new town. Un colpo duro al terremoto show che il presidente aveva pazientemente costruito in un anno di lavoro. Al premier, però, non sono bastate le parole del governatore. In questi giorni ha letteralmente tormentato Guido Bertolaso. "Voglio sapere le cose come stanno, se è opportuna una mia presenza in Abruzzo". Anche il capo della Protezione civile, che ieri ha promesso la ricostruzione de L’Aquila "entro otto anni", è stato perentorio: tira una pessima aria, meglio aspettare che gli animi si calmino.

Ma che gli animi sono tutt’altro che calmi lo si è visto lunedì a tarda sera durante il Consiglio comunale solenne in ricordo delle vittime del terremoto. Una riunione organizzata come peggio non si poteva, un pessimo esempio della peggiore ritualità politica. Senza alcun rispetto per i morti e per i vivi che non si vogliono rassegnare. Piazza Duomo, tendone. Ore 23. Il presidente del Consiglio comunale apre i lavori facendo un breve discorso e leggendo i nomi dei presenti. La sala rumoreggia, le condizioni sono pessime, cameramen e fotografi fanno da barriera al tavolo dove sono seduti sindaco e assessori. I flash scattano per gli uomini
sandwich seduti in prima fila. "Ridateci le carriole”. “Sedicimila nella Case. E gli altri?". Questo c’è scritto sui cartelli che portano appesi al collo. Ospiti d’onore il sindaco di RomaAlemanno, la neogovernatrice Polverini, e Rosy Bindi. Il presidente legge i primi messaggi. Quello del capo dello Stato è subissato di fischi al passaggio sulla Protezione civile e gli interventi nei giorni dell’emergenza. In quei giorni, manda a dire Napolitano agli abruzzesi, il Dipartimento "fu efficacemente diretto". Applaudito, quando il presidente della Repubblica mette il dito nella piaga di una Protezione civile diventata superagenzia organizzatrice di grandi eventi. Il Dipartimento "è chiamato a fronteggiare le calamità naturali e ad esse deve dedicarsi, senza perdersi in altre direzioni di intervento pubblico".

Quindi mai più
G8, mai più Giubilei, mai più fameliche "cricche". Si pensi all'emergenza. "E alla prevenzione, perché i nostri morti sono stati uccisi dagli allarmi che non sono stati dati in tempo", urla dalla folla una signora. Gli aquilani hanno capito e battono le mani quando nel messaggio di Napolitano c’è un ringraziamento non formale ai Vigili del fuoco e ai volontari. Fischi, sedie che battono sul pavimento in legno del capannone, quando viene annunciato il messaggio di Schifani. Ci sono microfoni e amplificatori, ma non si percepisce una sola parola del "sentito cordoglio" del presidente del Senato. L’inferno, però, scoppia quando il presidente del Consiglio comunale inizia a leggere il lunghissimo "telegramma" di Silvio Berlusconi. "In un anno siamo stati in grado di far fronte...". Non si fa in tempo ad ascoltare la solita litania di cifre, bilanci, la trita esaltazione del "governo del fare" in una città che porta ancora tutte intatte le ferite di un anno fa, che nel capannone esplode all’unisono un "basta" clamoroso. Una signora anziana apre un ombrello rosso. "Lo faccio per ripararmi dalle cazzate che stanno piovendo". Un uomo sulla cinquantina innalza il suo cartello di "Cittadino senza città". E all’improvviso, senza un ordine impartito, un gesto, un segnale sia pur minimo, la gente presente nel capannone si gira, volta le spalle a sindaci, parlamentari, consiglieri comunali di maggioranza e di opposizione. Rifiuta in blocco una politica capace solo di parole, di inganni, di promesse non mantenute. Qualcuno rimane seduto, altri non condividono.

E’ il momento più brutto di una bruttissima serata. Peggiorata, se possibile, dall’intervento del senatore
Enzo Lombardi. Oggi consigliere comunale, in un lontano passato sindaco democristiano della città, poi senatore. Esordisce male: "Non mi sono preparato un discorso". La gente coglie la mancanza di rispetto e fischia. E il senatore, che chiamavano "Bombardone" per il suo carattere un po’ focoso, getta benzina sul fuoco. "Questa è una città civile, orgogliosa, non fateci vergognare di voi e dei vostri atteggiamenti". Partono selve di fischi, e di "vaffa...". Un ragazzo salta su una sedia, trasforma le mani in un megafono e urla: "Sei tu, sono i politici come te che ci fanno vergognare". Finisce male, con pochi che ascoltano il flebile discorso del sindaco della città Massimo Cialente, del Pd. La sua voce è debole, le sue parole stanche e di maniera. In sala corre voce che voglia passare la mano.

Brutta aria per Berlusconi in una città che un anno dopo si è risvegliata dall'incubo del terremoto e dal sogno della ricostruzione. Una città che nella notte del ricordo si è ritrovata unita a ricordare le 3:34 di un anno fa. Venticinquemila aquilani, venticinquemila fiaccole dietro uno striscione che chiede "Verità e giustizia" per i morti. Un popolo intero dietro le gigantografie dei ragazzi della Casa dello studente. A testa bassa, in una piazza spazzata dal gelo, ad ascoltare i 308 nomi delle vittime del terremoto. Per loro, uniti, chiedono "Verità e giustizia".

Da
il Fatto Quotidiano del 7 aprile



martedì 6 aprile 2010

Ad un anno dal terremoto - L'Aquila: è l'ora della verità? - Sandra Amurri




L’Aquila. Oggi è il tempo del dolore e della preghiera disse Gianni Letta un anno fa. Oggi è il tempo del dolore e della preghiera ha detto ieri Gianni Letta ai microfoni del Tg2. A quando il tempo della verità? E’ la domanda che nessuno ha osato fargli. Quella verità che potrebbe arrivare presto dall’inchiesta della Procura dell’Aquila per mancato allarme, omicidio colposo e lesioni gravi, partita da tre esposti presentati dalle associazioni di famigliari delle vittime. Molti i testimoni ascoltati, molti i fatti ricostruiti. I magistrati oltre alla ignorata consulenza di Abruzzo Ingenering hanno acquisito agli atti il libro “L'Aquila 2009. La mia verità sul terremoto” di Giampaolo Giuliani il ricercatore che dal 2000 studia i terremoti partendo dall’assunto scientifico che in prossimità di forti sisma si registrano enormi incrementi di radon. Giuliani otto giorni prima del terremoto venne indagato per procurato allarme e diffidato altrimenti sarebbe stato arrestato.

“Lo denuncio per procurato allarme e viene massacrato, fai fare all' Istituto di vulcanologia un comunicato che quello lì domani verrà denunciato e con lui gli organi di stampa che riportano queste notizie” disse Bertolaso parlando al telefono con il suo collaboratore Fabrizio Curcio intercettato dai Ros di Firenze. Sul terreno restano fatti scientificamente provati e ignorati dalla Commissione Grandi Rischi e dalla Protezione Civile. Esattamente come accadde nel 1703 quando il sisma uccise 600 persone nella Chiesa di San Domenico mentre pregavano Sant’Emidio, patrono del terremoto. Anche allora vi furono molte scosse prima di quella fatale ma non esisteva una macchina da guerra governata da super Bertolaso che tutto vede e a tutto provvede.

La Protezione Civile non ha neppure allestito un centro di raccolta non ha offerto pasti caldi coperte alle tante persone che da una settimana dormivano in macchina al gelo limitandosi a dire che non c’era alcun pericolo che il terremoto non si può prevedere. Eppure il silenzio sismico degli ultimi 12 anni a cui erano seguiti eventi che avevano rilasciato energie di quella portata era una prova scientifica che in una zona ad alto grado sismico come quella dell’Aquila sarebbe seguita una scossa di intensità superiore. Ma la commissione Grandi Rischi presieduta da Franco Barberi alla presenza del vice di Bertolaso Bernardo De Berardinis, dal assessore regionale della Protezione Civile, al sindaco de L’Aquila, dal direttore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia Boschi dal direttore dell’ufficio rischio sismico della Protezione Civile Dolce riunitasi il 31 marzo in meno di un’ora ha sentenziato che non vi erano elementi per decretare lo stato di allerta scambiando l’enorme scarico di energia per un fatto positivo.

Subito dopo la riunione Barberi chiama Bertolaso: “Stiamo rientrando con Chicco da L' Aquila. Mi sembra che quello che dovevamo fare l' abbiamo fatto, compreso quello di dare qualche parola chiara sull' impossibilità di previsione. Quindi sul fatto che questi messaggi che arrivano sono totalmente privi di credibilità e poi anche una valutazione della situazione che, per quello che si può..., mi pare tutto bene”. Bertolaso: “Okay molto bene”.

Tant’è che il 5 aprile dopo le scosse delle 22,30 e quella di mezzanotte e quaranta, alle persone in strada viene detto di tornare a casa, nei loro letti divenuti per molti una tomba. Curcio chiama Bertolaso: “Un po' di spavento, ma niente di che... Una notizia... Me l' hanno data adesso... C' è stata una replica di un 3.9 e adesso di un 3.5 a L' Aquila”. Il 6 aprile otto minuti dopo la devastazione Curcio chiama Bertolaso: “Parlano di un 5.9 a L' Aquila”; Bertolaso: “Sì, va bene”; Curcio: “Non sappiamo la profondità...”; Bertolaso: “Comunque subito tutti in sala operativa”.

Sarebbe bastato informare la popolazione del pericolo dire di prestare attenzione di dormire in auto come fece Giuliani con circa 200 persone che quella notte si sono salvate grazie al fatto che alcune seguivano il suo sito di rilevamento radon e altre lo chiamavano al telefono. Invece a Giuliani è stato impedito di partecipare alla riunione della Commissione Grandi Rischi in quanto la Protezione Civile lo aveva definito un ciarlatano “Se dovesse arrivare quel tal Giuliani non gli fate oltrepassare la soglia” disse Bernardinis il vice di Bertolaso. Stesso trattamento fu riservato al sismologo ricercatore dell’Università de L’Aquila, Antonio Moretti quando si presentò per dare conto dei suoi studi. “Non abbiamo bisogno di altri esperti siamo al completo”. Testimonianze preziose per i magistrati che sarebbero supportate anche da conversazioni intercettate tra Giuliani il sindaco di Sulmona e Barberi. Nel frattempo Giuliani è stato scagionato il suo studio acquisito da un progetto finanziato dagli Stati Uniti con ricercatori giapponesi che verrà presentato il mese prossimo a Vienna. Mentre i membri della Commissione Grandi Rischi sono tutti al loro posto e Bertolaso è diventato l’eroe della ricostruzione. Sotto le macerie quella notte indimenticabile sono rimasti 308 morti e a distanza di un anno il numero è salito a 2000 tra feriti che non ce l’hanno fatta e persone anziane decedute a causa del trauma psicologico. Sergio Bianchi che ha perso il figlio Nicola di 22 anni ha raccontato ai magistrati che Nicola era preoccupato per le scosse ma anche in qualche modo rassicurato dal fatto che l’Università non era stata chiusa e a lui che non vedeva l’ora di laurearsi era sembrato positivo. Bianchi ha scritto una lettera molto dura a Bertolaso che gli ha risposto concludendo: “Ammetto di far parte di una classe politica che ha sbagliato”. Parole forse sfuggite al controllo di un uomo che ogni tanto dimentica, come è accaduto ad Haiti, di essere al servizio di Berlusconi, che dovrà spiegare ai magistrati che hanno acquisito la sua lettera.

da Il Fatto Quotidiano del 6 aprile 2010


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