“Strategia della tensione”. Così la chiama il procuratore antimafia Pietro Grasso: e si riferisce alla stagione delle bombe 1992-‘93, in cui il terrorismo di Cosa Nostra si è saldato con l’eversione di apparati dello Stato, con gli interventi di un’altra “entità”. Come spiegare, altrimenti, la scelta dei raffinati obiettivi delle stragi in continente, il misterioso black-out a Palazzo Chigi del 27 luglio 1993, l’ambigua comparsa della Falange armata? “Strategia della tensione”: ovvero il dispiegamento di un progetto eversivo a cui danno il loro contributo, insieme, gruppi criminali e apparati istituzionali.
Il precedente più eclatante, nella storia italiana, è la stagione 1969-1974, la stagione delle stragi che si apre il 12 dicembre in Piazza Fontana a Milano. Protagonista di quella prima “strategia della tensione” è Federico Umberto D’Amato, il poliziotto gourmet che ha diretto per anni l’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno. A lui è dedicato un volume appena arrivato in libreria (Giacomo Pacini, Il cuore occulto del potere, Nutrimenti editore), che contiene non poche novità e soprattutto ci aiuta a capire come, nella storia italiana, gli apparati dello Stato abbiano una consolidata tradizione eversiva: che evidentemente non è morta con D’Amato.
Agente, durante la guerra, del mitico James Jesus Angleton, capo dell’Oss (Office of strategic services , la struttura d’intelligence che precedette la Cia), nel dopoguerra D’Amato divenne l’uomo forte di un servizio così segreto che ufficialmente non esisteva. Eppure l’Ufficio affari riservati era un apparato potentissimo, articolato in tutto il paese, con a disposizione molti uomini e molti soldi. Nel libro di Pacini sono riportate le rivelazioni fatte nell’ultima inchiesta sulla strage di Brescia da Filippo Barreca, uomo della ’Ndrangheta diventato collaboratore di giustizia. A fine anni Settanta, Barreca aveva dato ospitalità al neofascista Franco Freda, latitante. Questi gli aveva confidato non solo di avere avuto un ruolo nella strage di Piazza Fontana, ma anche di aver goduto di appoggi eccellenti: “Freda mi parlò anche del coinvolgimento di un prefetto del ministero dell’Interno”, racconta Barreca, “mi aveva precisato che era a capo dell’Ufficio affari riservati... In sostanza, mi disse che il D’Amato era un mandante, un responsabile morale della strage”. Sul ruolo eversivo dell’apparato di D’Amato non mancano testimonianze provenienti dall’interno del servizio militare (il Sifar, poi Sid), con cui era spesso in conflitto. Il generale Nicola Falde (membro della P2, dalla quale si distaccò a fine anni Settanta) ha esplicitamente sostenuto che “l’attentato di Piazza Fontana era stato in qualche modo organizzato dall’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno... Il Sid si era poi adoperato per coprire tutto”. E un prefetto in servizio a Roma, Domenico Spinella, ha rivelato che negli anni Settanta l’allora capo dell’Ufficio politico della capitale, Bonaventura Provenza, non sopportava le intromissioni di D’Amato, che a ogni attentato nella Capitale mandava all’Ufficio politico suoi agenti di fiducia “per dare una mano alle indagini”. Faceva di tutto affinché gli uomini di D’Amato non interferissero, poiché temeva che avrebbero potuto attuare “un qualche tentativo di depistaggio delle indagini”. Il prefetto D’Amato è l’unico italiano a cui è stata intitolata, alla memoria, una sala (e una delle più prestigiose) dentro il quartier generale della Nato, a Bruxelles. Aveva una rete di confidenti e infiltrati in tutta Italia, nell’estrema destra fascista come nell’estrema sinistra marxista-leninista, nell’Msi come nel Pci. Uomo dalle molteplici frequentazioni, per anni ha curato una prestigiosa rubrica gastronomica sull’Espresso (Gault & Millau). Nei suoi uffici romani erano di casaStefano Delle Chiaie, il fondatore dell’organizzazione neofascista Avanguardia nazionale, e Delfo Zorzi, il giovane emergente dell’altro gruppo neofascista protagonista della “strategia della tensione”, Ordine nuovo. Ma tra le frequentazioni di D’Amato ora spunta anche Adriano Sofri. Almeno secondo quanto racconta uno degli appunti del prefetto, trovati a casa sua durante una perquisizione ordinata dal pm di Roma Pietro Saviotti nel 1995, ma finora mai utilizzati né resi pubblici.
Nell’appunto, breve e sibillino, D’Amato fa capire di aver avuto rapporti amichevoli con Sofri: “Ci siamo fatti paurose e notturne bottiglie di cognac”. Sofri aveva accennato a un suo contatto con D’Amato, unico, in un paio di articoli pubblicati sulFoglio nel maggio 2007, dopo l’uscita del libro di Mario Calabresi “Spingendo la notte più in là”. A proposito del caso Pinelli e di Piazza Fontana aveva scritto: “Quello Stato era fazioso e pronto a umiliare e violentare. Lo so. Una volta uno dei suoi più alti esponenti venne a propormi un assassinio in combutta noi e i suoi Affari riservati” (26 maggio 2007). Due giorni dopo, aveva precisato: “Una sera D’Amato venne a casa mia. (...) Quando lo invitai a venire al suo proposito, mi disse, con la stessa amabile naturalezza, che si trattava dei Nap. (...) Che era dunque interesse comune toglierli fisicamente di mezzo, ciò che sarebbe potuto avvenire con una mutua collaborazione e la sicurezza dell’impunità. Prima che finisse gli avevo indicato la porta e lui la prese senza battere ciglio. Dunque quel signore non mi propose di prender parte a un omicidio ma, seppure in un linguaggio da dopobarba, e senza avere il tempo di entrare nel dettaglio, un mazzetto di omicidi” (28 maggio 2007). Ma il prefetto gourmet è personaggio dalle mille trappole, dai mille ricatti, dai mille segreti. Tutti finiti con lui nella tomba, nel 1980, per sempre. Uomo dell’eversione, ma anche, a suo modo, delle istituzioni. Come i protagonisti, ancora senza volto, dell’ultima “strategia della tensione”, quella che ha fatto germinare la Seconda Repubblica nel sangue delle stragi.
Da Il Fatto Quotidiano del 29 maggio 2010