mercoledì 23 giugno 2010

Scuola di giornalismo



Il fatto che io sia costretto per l'ennesima volta a difendermi da questioni già ampiamente provate nelle aule dei tribunali non mi stupisce. Ho passato metà della vita a difendermi dai tentativi di screditare la mia persona. Antonio Di Pietro è una figura invisa alla politica del Palazzo, poiché in questo ambiente vige una strana regola secondo la quale se non sei ricattabile, sei fuori dal branco. Io sono fuori dal branco e ne sono fiero.
Quello che più mi preoccupa, in realtà, è lo
stato comatoso dell'informazione in Italia, che riguarda trasversalmente i maggiori quotidiani e tg nazionali. Una situazione che non saprei descrivere meglio di quanto non abbia fatto Marco Travaglio, nel suo editoriale odierno de "Il Fatto Quotidiano" che riporto di seguito.


Scuola di giornalismo
Più che per il fatto in sé, già masticato e ruminato da sei anni di indagini tutte archiviate, l'iscrizione sul registro degl'indagati di Di Pietro per l'annosa polemica sui rimborsi elettorali del 2004 è illuminante per come la trattano i giornali "garantisti": quelli che escono ogni mattina non per dare notizie, ma per coprire le vergogne dei loro editori pregiudicati o imputati. Partiamo dal Giornale (Berlusconi) e da Libero (Angelucci). Feltri l'altroieri lacrimava per il rinvio a giudizio di don Gelmini per molestie sessuali: "Finire sui giornali quale protagonista di torbide vicende è una sofferenza atroce per tutti" (e lui ne sa qualcosa, avendo sbattuto in prima pagina una falsa informativa di polizia sull'omosessualità di Boffo). Infatti ora titola: "COSÌ IMPARI". "L'ex pm nei guai. Se fosse coerente dovrebbe lasciare il Parlamento". "Neanche l'ennesimo scandalo (sic, ndr) convincerà Tonino a smettere di atteggiarsi a modello di legalità".
Ecco: i fatti non contano nulla, l'importante è poter mettere sullo stesso piano Di Pietro e Berlusconi in una notte dove tutte le vacche sono nere ed espellere la questione morale dal dibattito politico. Libero, l'inserto satirico del Giornale. titola in prima: "DOVE HA MESSO I SOLDI?". Parla delle tangenti degli Angelucci e di Berlusconi? No, dei rimborsi elettorali Idv. Belpietro (avete capito bene: Belpietro) si lagna perché Di Pietro "è uscito candido come un giglio" da tutte le inchieste, anzi osa pure “atteggiarsi a vittima di calunniatori e avversati politici": in effetti 30 procedimenti a Brescia basati sul nulla e finiti nel nulla sono pochi. Per atteggiarsi a vittima bisogna depenalizzare i propri reati o farla franca per amnistia, prescrizione, Cirielli, lodo Schifani o Al Fano, legittimo impedimento. Ma stavolta il garantista Belpietro ha buone speranze che Di Pietro verrà arrestato: "Aspettiamo la fase 2, quella delle manette pulite, un giorno arriverà", purché si trovi "un giudice vero". E Libero ne ha trovati addirittura due. Alla Procura di Roma. Il pm Caperna che indaga su Di Pietro "è un bell'uomo, alto e distinto", mentre l'altro, Pisani, "è minuto e affabile". Finalmente due pm che piacciono a Libero. Anche fisicamente. Il Pompiere della Sera, dall'alto delle sue campagne moralizzatrici sui suoi editori pregiudicati (Ligresti) e imputati (Geronzi), si domanda se il Fatto darà la notizia dell'indagine su Di Pietro o la nasconderà. Spettacolare la "Nota" di Massimo Franco, il pompiere capo ieri moderatamente piromane: dicendo che la sua iscrizione è un "atto dovuto" in seguito alla denuncia di Veltri, cioè la pura verità, Di Pietro "tenta di screditare in anticipo qualunque possibilità che l'indagine possa metterlo nei guai". Molto meglio gridare al complotto delle toghe azzurre pilotate dai nemici politici, invocare l'immunità e la privacy, attaccare la Costituzione, depenalizzare la truffa, invocare un lodo Di Pietro. Gran finale di Franco: " ‘Male non fare, paura non avere', dice ai militanti il leader nella sua memoria.
Ma la scelta di rovesciare valanghe di documenti sul proprio sito è la conferma di un imbarazzo palpabile". Ma certo: se uno non risponde alle domande, strilla al complotto e sfugge alla giustizia, vuoi dire che non ha nulla da temere. Se invece risponde subito nel merito con "valanghe di documenti" per dimostrare che non ha nulla da nascondere, vuoi dire che è imbarazzato. Chissà cosa c'è sotto.
Ps. Nell'editoriale "L'enigma Brancher", Pigi Battista si domanda perché mai Brancher sia diventato ministro, visto che non lo voleva neppure Bossi e, nel suo piccolo, nemmeno Gasparri. "Una scelta estrosa", insomma. A un certo punto accenna al legittimo impedimento che lo mette al riparo dal processo Antonveneta, ma subito lo liquida come "un sospetto ingiusto". La notizia che Brancher pagava tangenti per la Fininvest e, in tre mesi di carcere, tenne la bocca chiusa, non gli è pervenuta. Lui del resto è ancora convinto che i bambini li porti la cicogna o si trovino sotto un cavolo. La mamma non gli ha ancora detto nulla.

Marco Travaglio

http://www.antoniodipietro.com/2010/06/scuola_di_giornalismo.html?notifica


martedì 22 giugno 2010

Da Berlusconi 70 mld per la fedeltà di Bossi



L'appunto in un'agenda del 2004 dell'ex giornalista Sasinini

Lo riporta l'ordinanza del gip. Il periodo è quello in cui venne pignorata la casa del leader della Lega Nord. Ghedini: fantasie

MILANO- Silvio Berlusconi avrebbe dato 70 miliardi di lire a Umberto Bossi in cambio della sua totale fedeltà. È scritto nell'agenda del 2004 dell'ex giornalista Guglielmo Sasinini (agli arresti domiciliari), uno degli indagati nell'inchiesta sui dossier illeciti.
L'appunto di Sasinini è riportato a pagina 303 dell'ordinanza con la quale il giudice per le indagini preliminari Gennari ha disposto l'arresto di tredici persone nell'ambito dell'inchiesta sui dossier illegali. A fianco della presunta operazione appare anche il nome di Giulio Tremonti senza alcuna ulteriore spiegazione. Negli appunti si dice che il periodo sarebbe stato quello in cui venne «pignorata per debiti la casa di Bossi», quindi prima del successo della Casa delle libertà nelle elezioni del 2001. Infine, nel medesimo appunto, sotto l'indicazione pre-governo Berlusconi, si legge che «sottosegretario Minniti... da ex Sisde ha saputo una...?».
GHEDINI: «FANTASIE» - «Le notizie di presunti accordi tra Bossi e Berlusconi sono non soltanto destituiti di ogni fondamento, ma frutto di un'assoluta fantasia che sarebbe risibile se non apparisse connotata da scopi diffamatori o ancora peggio per inquinare la vita politica del Paese», ha replicato il senatore di Forza Italia Niccolò Ghedini, avvocato difensore di Silvio Berlusconi. «Agiremo in tutte le sedi opportune al fine di far sì che simili falsità non possano essere propagate».
Secondo Roberto Castelli, esponente della Lega Nord, si tratta «della bugia più clamorosa dell'inchiesta».

BOSSI: «È UN MONDO DI MERDA» - Molto più colorita e nel suo stile la replica del diretto interessato: Umberto Bossi. «È un mondo di merda, a uno gli passa la voglia di far politica», ha detto Bossi all'Ansa. «Io ho dato mandato di querelare questa persona e mi domando come facciano a uscire simili cose. L'hanno fatto apposta per fare danni politici. Berlusconi è uno che non tira fuori un soldo nemmeno per pagare i manifesti elettorali, figurarsi se tira fuori dei soldi per la Lega».
23 marzo 2007


Re Mida all’incontrario - Marco Travaglio



21 giugno 2010
Se non fosse che ha sette vite come i gatti, il ducetto farebbe quasi pena. Il Re Mida che trasformava in oro qualunque cosa toccasse è diventato un Re Merda. Ha due ministri pregiudicati e cinque inquisiti o imputati (l’ultimo, Brancher, l’ha aggiunto lui per fare cifra tonda). Il coordinatore dei Servizi segreti De Gennaro l’hanno appena condannato in appello per il G8. I suoi ex capi dei servizi, Pollari e Mori, sono imputati rispettivamente per peculato e favoreggiamento alla mafia. Il suo cappellano don Gelmini va a processo per molestie sessuali. E il suo pappone di fiducia Giampi Tarantini per spaccio di coca. Il suo commissario Agcom, Innocenzi, è sotto inchiesta per i traffici anti-Annozero. Suo fratello Paolo, già pregiudicato, è di nuovo indagato per il nastroFassino-Consorte. Sulla faccenda dovrà testimoniare obtorto collo il suo on. avv.Ghedini. Il coordinatore del suo partito, Verdini, è indagato un po’ dappertutto con la Cricca, mentre l’ex coordinatore Scajola è ancora lì che cerca chi gli ha pagato la casa.

I fuoriclasse del Partito del Fare se la passano peggio di quelli del Milan.
Gianni Letta, già “uomo della Provvidenza”, sbuca da un bel po’ di inchieste imbarazzanti. San Guido Bertolaso, l’uomo che insegnava la protezione civile agli americani e fermava le catastrofi con le nude mani, è indagato per corruzione; appena apre bocca si fanno tutti il segno della croce; e ha ormai l’immagine di uno scroccone che non paga non solo i massaggi e l’affitto, ma nemmeno le bollette. Come quell’altro genio dell’ingegner Lunardi: B. lo presentò a Porta a Porta come l’homo novusdella politica del fare, il fulmine di guerra che avrebbe sbloccato le grandi opere, una gallina dalle uova d’oro. Ora scopriamo che anche lui faceva e riceveva favori dalla Cricca, ma – beninteso – “come persona, non come ministro, perché sono una persona corretta” (infatti è indagato).

E
Stanca? Ricordate Lucio Stanca? Il Cavaliere tenne il nome segreto per giorni e giorni, annunciò soltanto che aveva trovato un gigante del pensiero, un tecnico da paura, un cervello fuori misura che, con la sola forza del pensiero, avrebbe cablato e informatizzato l’Italia tutta, isole comprese, come ministro dell’Innovazione tecnologica (una delle tre “i”, quella dedicata a Internet, era tutta sua). Quando poi si seppe che era Stanca, e soprattutto se ne vide la faccia lievemente più inespressiva di un termosifone spento, qualcuno timidamente domandò: “E chi cazz’è?”. La risposta fu: “L’ex presidente dell’Ibm, che diamine, mica un pirla qualsiasi!”. Roba forte. Dal 2001 al 2006 passò talmente inosservato che a volte dimenticavano di invitarlo alle riunioni, senza peraltro accorgersi della sua assenza. Nel 2008, tornato al governo, B. si scordò sia di lui sia del suo ministero: dispersi.

Fu recuperato come ad di
Expo 2015, anche se è già deputato, ma ora pare che dovrà sloggiare pure di lì: dopo che Tremonti gli ha tagliato i fondi, commissariato le deleghe e asportato lo stipendio (deve accontentarsi di quello di parlamentare), la presidente Bracco gli ha inviato un’ingiunzione di sfratto per scarso rendimento. Un altro monumento che crolla miseramente, mentre i miracoli evaporano l’uno dopo l’altro. Quello della ricostruzione de L’Aquila, grazie ai pm, a Draquila e al popolo della carriole, è una tragica barzelletta: si sbriciolano anche le casette della leggendaria New Town a prova di bombardamenti, inaugurate in pompa magna sotto lo sguardo lubrico di Vespa.

Il miracolo dei rifiuti scomparsi in Campania funziona a tal punto che ora la monnezza rispunta pure a Palermo, altra capitale del buongoverno grazie al sindaco
Cammarata (ora è in Sudafrica: a casa c’era troppo tanfo). Persino Minzo fatica a nasconderla. E la legge bavaglio è talmente sfigurata che non la riconoscono più nemmeno i mafiosi. Ma B. insiste: “Approviamola comunque”. Come viene viene. Ormai è un pugile suonato che mena fendenti all’aria. Se non fosse che l’altro pugile ha abbandonato il ring, rischierebbe persino di perdere la partita.

Da
il Fatto Quotidiano del 20 giugno


lunedì 21 giugno 2010

Gli ombrelloni dei boss

di Pietro Orsatti - 21 giugno 2010
Una vecchia inchiesta aggiornata. Per non dimenticare.

Primo giorno di estate, e come ogni anno ci si aspetta la folla di turisti. La villa comunale si affaccia su uno dei tratti più spettacolari della costa della Sicilia occidentale, Castellammare del Golfo. Antico porto di Segesta e poi primo emporio arabo in questo tratto di costa. Oggi motore dello sviluppo turistico dell’area. Dalla terrazza della villa la vista è di quelle che mozza il fiato. Il porticciolo pieno di barche da diporto, le scogliere, il mare una tavola. Un paradiso. Non solo per la folla di tedeschi arrossati dal sole di Sicilia. Non solo.

 Per decenni questo porto, e la sua flotta di pescherecci, rappresentò il centro del traffico mondiale di droga. Subito dopo la seconda guerra mondiale Castellammare del Golfo divenne, con un accordo fra iboss palermitani e trapanesi e i cugini negli Stati Uniti, uno dei centri potenti della nuova mafia emergente. Luogo di coincidenza di interessi tra mafiosi siciliani e boss siculo-americani. In una riunione del 1957 al Grand hotel des palmes, uno dei più prestigiosi di Palermo, e a cui partecipò anche Lucky Luciano, venne sancito il patto di investitura di Castellammare come porta verso l’esterno dei clan, strappando di fatto il controllo del traffico degli stupefacenti ai clan marsigliesi fino ad allora “leader” incontrastati in questo businnes. Il summit, storicamente documentato in vari processi e sentenze, avvia quel processo di trasformazione della mafia tradizionale in quella dei corleonesi. E dimostra i legami mai troncati fra clan siciliani e cugini d’oltre Atlantico. Da quel momento Castellammare del Golfo è la base delle attività criminali legate al traffico dell’eroina. Viene scelto come quartier generale dei clan il Motel beach della vicina spiaggia di Alcamo Marina, di proprietà del boss Vincenzo Rimi. Nel 1985, la scoperta della grande raffineria di eroina di contrada Virgini, nelle vicine campagne di Alcamo, conferma la solidità e stabilità dell’attività criminale. La gestione del traffico  internazionale è affidata a siculo-americani oriundi proprio della zona. La configurazione di questo tratto di costa, compresa tra Punta Raisi e Punta San Vito Lo Capo, favorisce il contrabbando e ogni altra attività clandestina: per questo l’area è nota da sempre agli inquirenti come centro di attività illecite. E Castellammare del Golfo è il centro, è il porto dei feroci clan vincenti dei corleonesi, immune da ogni indagine o ingerenza dello Stato nella quotidianità mafiosa fino a diventare addirittura luogo di vacanza di latitanti con a seguito l’intera famiglia. Tutto alla luce del sole. A due passi da qui hanno preso i Lo Piccolo. Corleone e Montagna dei Cavalli, luogo dove ha trascorso in libertà gli ultimi mesi Bernardo Provenzano, è a mezz’ora di macchina. Questo territorio è uno dei luoghi di dorata latitanza del boss viveur Matteo Messina Denaro. Perché qui i boss fanno i latitanti in casa propria, nel proprio paese, mantenendo inalterata la propria rete di affari e protezioni.

È qui che nasce anche il mito di Francesco Messina Denaro, il ministro degli esteri di Totò Riina e padre dell’attuale super ricercato Matteo. Sconosciuto alla giustizia per quasi vent’anni, nonostante il suo ruolo di raccordo con gli Stati Uiti e “formatore” alle tradizioni di Cosa nostra dei picciotti nati all’estero. Francesco muore in casa propria nonostante siano stati spiccati per lui diversi mandati di cattura; i parenti fanno trovare il cadavere pulito e composto su un vialetto di campagna. Il figlio Matteo, già latitante come il padre, acquisterà annunci sui giornali locali che puntualmente li pubblicheranno.

 Un’eredità pesante per questa zona. Che oggi si fa sentire ancora di più. La folla di turisti ignari si disseterà all’ombra degli alberi secolari. La stagione turistica anche quest’anno andrà bene nonostante la crisi. Zona prestigiosa, ma con una storia controversa, sembra reggere alla flessione nazionale e isolano del settore. E poi anche altri tipo di affari, a quanto sembra.
L’eroina e i centri di raffinazione, secondo dati rilasciati dalla direzione distrettuale Antimafia di Palermo, sono stati subappaltati ai clan calabresi, mentre «a 50 anni dall’incontro fra i boss siciliani e i cugini americani al Grand hotel et des palmes, il legame fra i boss d’oltreoceano e quelli dell’isola fa registrare una nuova fase di sviluppo. E il ruolo di Castellammare del Golfo nei traffici marittimi della droga, saldamente sotto il controllo del boss Matteo Messina Denaro, è ancora centrale». Questa la ricostruzione che fa il sostituto procuratore Sergio Barbiera dell’attuale situazione criminale. Qui si gioca la continuità della vecchia mafia corleonese, l’eredità dei rampolli dei Riina e dei Vitale, dei Bagarella e dei Messina Denaro. Qui, oggi, si gioca la riorganizzazione di Cosa nostra. E non è un caso che in questo triangolo di territorio (Partinico-Borgetto, Corleone, Castellammare del Golfo) si sia continuato ad ammazzare per anni. Oggi, dopo la cattura a Calatafimi lo scorso novembre del boss Domenico Raccuglia, in questa fase di riorganizzazione, gli inquirenti segnalano un ritorno dei contatti diretti fra mafia della Sicilia occidentale ed esponenti dei clan americani tornati in libertà dopo le condanne dei processi di Pizza connection e Iron tower. Non più eroina al centro dei traffici, ma cocaina prodotta in Sudamerica. I boss americani acquistano quintali e quintali di coca, che poi viene spedita in Italia a bordo di navi dirette nei porti siciliani e non solo: segnalazioni e sequestri si sono succeduti anche a Genova, Livorno, Civitavecchia, Salerno e Gioia Tauro. Le indagini degli ultimi infatti, infatti, indicano che a Palermo Salvatore Lo Piccolo e la famiglia delboss Nino Rotolo gestivano la distribuzione della cocaina tra alcuni grandi fornitori italiani, dividendo poi i proventi del traffico con i cugini americani. L’arresto dei Lo Piccolo ha solo rallentato la riorganizzazione del traffico, che oggi in molti indicano come “fiorente”. E si inserisce anche una novità organizzativa non da poco conto: la manovalanza dei clan non si ricerca solo fra i picciotti iniziati a Cosa nostra, ma entrano in gioco anche “stranieri” (immigrati a basso costo) e persone esterne all’organizzazione. Anche per il narcotraffico, a quanto sembra, iniziano a valere le regole della globalizzazione e delle “esternalizzazioni”.

 Come confermano anche i pentiti. La provincia trapanese di Cosa nostra rimane al centro di intrecci che ne fanno un modello criminale unico. Il pentito di mafia Antonino Giuffrè, fino al 2002 componente della “cupola” di Bernardo Provenzano, ha dichiarato ai magistrati: «Allo stato attuale Trapani e in particolare il paese di Castellammare del Golfo rappresentano una delle zone più forti della mafia, non solo perché la meno colpita dalle forze dell’ordine, ma soprattutto perché punto di riferimento non solo di traffici normali, come droga e armi, ma anche luogo dove si incontrano alcune componenti che girano attorno alla mafia. È un punto di incontro della massoneria, ma anche per i servizi segreti deviati».
E come sempre avviene, anche la politica e gli affari apparentemente leciti entrano a pieno titolo nelle vicende di Cosa nostra. «Una caratteristica di Cosa nostra trapanese – ha scritto il prefetto Giovanni Finazzo in occasione di una visita della commissione parlamentare Antimafia nella scosa legislatura – è stata l’aver preferito nell’ultimo decennio ai canali di riciclaggio proprio, e cioè scaturente da attività illecite, l’infiltrazione massiccia nelle medie e grandi attività produttive e il mantenimento di canali diretti e indiretti con gli ambienti della politica locale e delle pubbliche istituzioni». E da Castellammare a Trapani è un attimo. Il territorio è permeabile e accogliente. È facile poi reinvestire “legalmente” il denaro accumulato illecitamente con l’estorsione, gli appalti e la droga. Trapani è una provincia che ha un numero di sportelli bancari impressionante, ben 177, una media di 0,4 ogni mille abitanti. Non a caso: è qui che Messina Denaro e Provenzano avviarono investimenti nel settore dell’ambiente (anche l’eolico) e della gestione dei rifiuti. Ed è qui che si intreccia il potere dei corleonesi e dei loro rampolli con la massoneria.

 «L’associazione massonica, con riferimento a quella deviata – ha scritto ancora il prefetto di Trapani – per la sua struttura organizzativa, ha rappresentato talvolta uno dei momenti privilegiati di incontro, dialogo e integrazione tra la criminalità mafiosa e gli ambienti politico-istituzionali in grado di favorire Cosa nostra nel raggiungimento dei suoi obiettivi». Attirando anche altri “fratelli” da altre regioni, in particolare dalla Calabria. Che per la Santa, l’evoluzione moderna della ‘ndrangheta, Trapani e le sue logge coperte e i suoi affari siano un punto di riferimento da anni non è un mistero per nessuno. E’ nelle carte processuali, è nei racconti dei pochissimi pentiti di ‘ndrangheta. Non è più un’ipotesi. Così è e così si va avanti.
In questo quadro, non stupisce che il 23 marzo 2004 il consiglio dei ministri abbia deciso lo scioglimento del consiglio comunale di Castellammare del Golfo, dove sono state accertate forme di condizionamento da parte della criminalità organizzata. Lo scioglimento del consiglio comunale di Castellammare del Golfo nel Trapanese arriva dopo l’azione ispettiva del ministero dell’Interno decisa a seguito dell’operazione “Tempesta”, coordinata dalla direzione distrettuale Antimafia di Palermo e condotta dalla squadra mobile di Trapani. Un’inchiesta che ha portato, oltre che all’arresto di 23 presunti affiliati a Cosa nostra, alla scoperta di connivenze tra mafia e politica. Nell’inchiesta sono rimasti coinvolti, tra gli altri, il dirigente e un funzionario dell’ufficio tecnico comunale, Antonio Palmeri e Vincenzo Bonventre. Entrambi accusati di abuso d’ufficio con l’aggravante di aver favorito Cosa nostra, si sarebbero prodigati, secondo i magistrati, per concedere, in maniera illegittima, autorizzazioni edilizie al presunto capomafia locale, Francesco Domingo, che aveva interessi nella ristrutturazione di un immobile, destinato a diventare struttura turistica. Dalle intercettazioni ambientali e telefoniche è emerso un quadro inquietante: i burocrati del Comune erano preoccupati non tanto di essere scoperti dalle forze dell’ordine, ma di non riuscire ad assecondare le pressanti richieste che provenivano dalla “famiglia” mafiosa. Tre anni di commissariamento, l’intero quadro politico locale azzerato. Poi nuove elezioni.
 «Io non so quante persone erano coinvolte. So solo che la giunta precedente è stata sciolta per mafia». A parlare è un giovante consigliere comunale poche settimane dopo la sua elezione, dopo tre anni di commissariamento, a Castellammare del Golfo. Anche lui a prendere il fresco sotto gli alberi della villa comunale, sembra un turista appena risalito dalla spiaggia. Un granita, un caffè. E qualche domanda scomoda a cui è difficile rispondere. «Non sto a dirti quanti e chi erano. Anche perché non lo so». Tutti sanno, ma non in pubblico. È una storia da lasciarsi dietro alle spalle, soprattutto durante la stagione turistica, soprattutto con l’avvicinarsi dell’approvazione del bilancio della neo eletta assemblea regionale siciliana: un’incognita dopo il cambio di guardia fra Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo. Ma le “voci” continuano a circolare, e non si tratta solo di “memorie” di un periodo ormai superato.

Le “voci” parlavano della presunta ineleggibilità di alcuni (quattro) candidati poi puntualmente eletti: persone elette in un consiglio comunale con il quale avevano alcuni contenziosi legati a sanatorie e concessioni edilizie. Dalle voci non si è passati ad altro: la commissione elettorale ha sancito l’eleggibilità e quindi stop. Al limite si può parlare di “inopportunità” politica, ma null’altro. Ma per quanto riguarda il neo eletto sindaco Marzio Bresciani la questione è un po’ più complicata. E più difficilmente superabile. Parliamo di un sindaco eletto con più del 60 per cento dei consensi, che doveva rappresentare la rinascita democratica e il ritorno della legalità dopo gli anni del commissariamento. E qui non si tratta più solo di “voci”.

Marzio Bresciani è un noto imprenditore della zona e in passato consigliere delegato della Sicilgesso, forse la più importante industria dell’area. Il 13 febbraio del 2003 è stata depositata presso il tribunale di Trapani una sentenza che, anche se non lo condanna, lo riguarda molto da vicino. Emerge dall’atto, infatti, come la Sicilgesso avesse pagato per anni a due clan il pizzo (20 milioni di lire l’anno a ciascuno), vista anche la sua posizione geografica, ovvero al confine fra il territorio di Alcamo e di Calatafimi. A confermarlo le testimonianze dei pentiti Vincenzo Ferro, Giuseppe Ferro e Vincenzo Sinacori. Convocati in tribunale, Marzio Bresciano e il presidente della Sicilgesso Antonino Cascio «hanno negato di aver mai ricevuto richieste né di aver mai pagato». E si legge ancora nella sentenza del tribunale di Trapani: «Ancora una volta, a fronte dell’assenza di contributo conoscitivo da parte delle persone offese, importanza fondamentale riveste la mappa delle estorsioni trovata nelle mani di Melodia Ignazio nella quale si legge testualmente “sicilgesso per Alcamo e Calatafimi a metà”».
Ora la domanda è: come è possibile che venga eletto a sindaco “post commissariamento”, e con percentuale bulgara, un imprenditore che, stando agli atti processuali, per anni avrebbe pagato il pizzo a ben due clan mafiosi, rifiutandosi sia di denunciarli che di testimoniare al processo? Certe domande, sotto il sole di Sicilia, e con il paese che si sta per riempire di turisti, non si fanno.

www.orsatti.info

Tratto da: gliitaliani.it



'Sotto Scacco': il film sulle stragi di mafia e la nascita di Forza Italia

La nostra prima produzione video verrà presentata a Palermo da Padellaro, Travaglio, Lillo, Gumpel e Borsellino.

L'appuntamento è per martedì 22 giugno, lo stesso giorno in cui debutterà Il Fatto online.

Ci siamo. Martedì 22 giugno a Palermo presentiamo la prima produzione video del Fatto Quotidiano, realizzata insieme alla Blond. Il film si chiama “Sotto scacco” ed è la storia delle stragi di mafia e della trattativa che ne è seguita, da Capaci alla pax mafiosa, passando per la nascita di Forza Italia. Dura due ore ed è preceduto da una lunga introduzione storica di Marco Travaglio. Alla presentazione di Palermo, che si terrà alle 21 in un luogo magico che sembra un set di Montalbano, la tonnara Kursaal, saranno presenti gli autori, Marco Lillo e Udo Gumpel, e poi il nostro direttore Antonio Padellaro, Marco Travaglio e Salvatore Borsellino. Il 22 giugno è però come sapete il giorno del lancio del nuovo sito internet del Fatto Quotidiano. E a Palermo speriamo di avere sul palco anche il direttore del Fatto online Peter Gomez. Alla tonnara Kursaal il 22 giugno saranno mostrati ampi estratti del dvd, che sarà in edicola giovedì 24 giugno ed è composto idealmente di due parti. La prima si occupa dell’attacco allo Stato e della contemporanea trattativa tra Cosa nostra e le istituzioni. La seconda si addentra nei misteri della nascita di Forza Italia e della cosiddetta pax mafiosa caratterizzata dalla latitanza indisturbata del boss Bernardo Provenzano.

Per realizzare il film insieme al collega Udo Gumpel, corrispondente in Italia della tv privata tedesca Ntv-Rtl e autore con
Ferruccio Pinotti del libro “L’unto del Signore”, abbiamo girato l’Italia per tre mesi. Oltre a una mezza dozzina di incontri con il testimone privilegiato della trattativa, Massimo Ciancimino, abbiamo intervistato per più di quattro ore il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, che ci ha parlato dei suoi incontri con Paolo Borsellino, del progetto di sequestro a Silvio Berlusconi nel 1973 e di quello che gli disse Vittorio Mangano sul suo effettivo ruolo nella villa di Arcore. Nel documentario sono confluite anche le vecchie immagini degli insegnamenti di Paolo Borsellino alle scuole e ai boy scout e quelle di Giovanni Falcone nel film di Marcelle Padovani “La solitudine del giudice Falcone”. E poi le testimonianze dei protagonisti di quella stagione, dal collaboratore di giustizia Maurizio Avola (che partecipò alla preparazione delle stragi e che è stato intervistato in carcere dal collega Roberto Gugliotta) fino al giudice Ayala. Molto ampio è lo spazio dedicato alle parole forti del procuratore Pier Luigi Vigna sulla strategia politica di Cosa Nostra al momento della nascita di Forza Italia.

La seconda parte del documentario analizza il rapporto tra la mafia e il gruppo politico-imprenditoriale di
Dell’Utri e Berlusconi attraverso testimonianze e intercettazioni emerse nel processo Dell’Utri. L’uscita del dvd è fissata per il 24 giugno, data della camera di consiglio della Corte di appello che dovrà decidere se confermare la condanna a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa a carico di Dell’Utri.

Il documentario include la requisitoria del procuratore generale
Antonino Gatto, la testimonianza del pentito Gaspare Spatuzza, la difesa appassionata dell’imputato e dell’avvocato Alessandro Sammarco. A prescindere dall’esito giudiziario, grazie al Fatto Quotidiano, sarà possibile vedere le immagini del processo più importante degli ultimi anni, ignorate dai media. Le accuse di Filippo Alberto Rapisarda (impressionante la sua testimonianza inedita del 1998 sugli inizi del Cavaliere); i rapporti di Berlusconi con il fattore Vittorio Mangano e quelli del senatore Dell’Utri con i fratelli Graviano sono sviscerati come mai è stato fatto in tv. Un ampio capitolo è dedicato poi all’informativa della Dia che riporta le accuse di un confidente sugli incontri milanesi tra i Graviano e Marcello Dell’Utri. Mediante un lavoro investigativo, basato su visure e sentenze, gli autori sviluppano lo spunto della Dia e raggiungono sorprendenti scoperte. Infine, nel dvd si potranno rivedere le immagini originali delle stragi del 1993 (che restituiscono dopo anni di oblio la dimensione dell’attacco allo Stato) e le testimonianze dei parenti delle vittime, a partire da quella commovente dello zio di Nadia e Caterina Nencioni, le due bambine uccise nel crollo della torre dei Pulci a Firenze nel maggio1993.

Per la prima volta sarà possibile vedere una narrazione televisiva che unisce sequenze di fatti finora separati da un muro invalicabile: le stragi e l’evoluzione politica di quegli anni. Il tema del ruolo della mafia nelle origini della cosiddetta seconda repubblica sarà trattato per la prima volta da Il Fatto e dal corrispondente di una tv tedesca, a dimostrazione dell’esistenza - a 18 anni di distanza - di un vero e proprio tabù televisivo, che doveva essere abbattuto.

La realizzazione del documentario è stata una corsa contro il tempo. Le interviste ai magistrati, le riprese delle udienze, le intercettazioni telefoniche e le informative della Dia che ne costituiscono una parte importante saranno vietate dopo l’entrata in vigore della legge Bavaglio. Una ragione in più per girarlo e per proiettarlo al più presto.


Berlusconi e la mafia: processo dell' Utri



Obiettivo: diffamare - Marcello Santamaria


Il Tribunale di Monza ha condannato per la terza volta "il Giornale" per gli articoli su Di Pietro.

Non è vero che Antonio Di Pietro abbia fatto pasticci con i rimborsi elettorali dell’Italia dei Valori e con l’acquisto di case. L’ha stabilito il Tribunale civile di Monza, che in tre sentenze ravvicinate spazza via anni e anni di campagne del Giornale, condannando in primo grado il quotidiano della famiglia Berlusconi a risarcire l’ex pm per un totale di 244 mila euro, avendolo più volte diffamato con una serie di articoli. Soccombenti l’ex direttore Mario Giordano, i giornalistiGian Mario Chiocci, Massimo Malpica e Felice Manti, oltre all’ex deputatoElio Veltri. Ma, al di là dei nomi, il punto è un altro. Le denunce penali e civili sono rischi del mestiere di giornalista e può capitare a tutti di incappare in una parola di troppo, un’inesattezza dovuta alla fretta, un eccesso di sintesi o di critica, insomma in un errore in buona fede. Qui invece i giudici hanno accertato un modus operandidi assoluta malafede: quello delle sistematiche campagne diffamatorie di chi sa di avere le spalle coperte da un editore pronto a investire milioni di euro per screditare, sui giornali e le tv che controlla in conflitto d’interessi, i propri avversari politici. Qui non si parla di cronisti che sbagliano, ma di killer che mentono sapendo di mentire.

Nel primo articolo incriminato, pubblicato il 7 gennaio 2009, il Giornalesparava i titoloni cubitali "I trucchi di Di Pietro per sfuggire alle intercettazioni" e "Tonino eludeva le intercettazioni coi cellulari criptati dei suoi indagati. Oggi il leader Idv attacca ogni proposta di riforma del sistema, ma quando era magistrato usò schede protette intestate all’autista di Pacini Battaglia". In pratica, Di Pietro non teme le intercettazioni perché le elude con "trucchi" fin da quando "indossava la toga e indagava su Pacini Battaglia".

Tutto questo, secondo il Tribunale, è "palesemente inveritiero", una "falsa affermazione", e chi l’ha scritta non l’ha fatto involontariamente visto che cita la sentenza del Gip di Brescia che la smentiva per tabulas: "E’ stato accertato che il presunto utilizzo della scheda svizzera (febbraio-giugno 1995)...risale a epoca in cui è pacifico che Di Pietro non esercitava più le funzioni giudiziarie (dal 7 dicembre 1994)" . I giornalisti del Giornale erano a "sicura conoscenza" della falsità di quel che scrivevano, eppure l’hanno scritto lo stesso. Perciò Chiocci, Malpica e Giordano devono risarcire Di Pietro per 240 mila euro, fra danni morali e riparazione pecuniaria.

La seconda sentenza riguarda ancora Giordano e Chiocci per un altro titolone in prima pagina: "L’Italia dei Valori. Immobiliari. Di Pietro ha investito quattro milioni di euro in case. Ecco il suo patrimonio", seguito da due pagine intitolate: "Di Pietro gioca a Monopoli: ha case in tutt’Italia. Ma è giallo sui suoi conti. Montenero, Bergamo, Milano, Roma e Bruxelles: l’ex pm ha speso 4 milioni di euro tra il 2002 e il 2008, ma non è chiaro con quali soldi abbia acquistato ville e appartamenti". Il teorema è noto: Di Pietro compra case con fondi misteriosi, forse quelli del partito. “Il postulato di fondo” – riassume il giudice – è “la presunta commistione tra il patrimonio immobiliare personale di Di Pietro e quello del partito IdV...commistione che – nonostante l’archiviazione del procedimento penale che si è occupato della questione – viene comunque prospettata quale congettura sottesa agli interrogativi del giornalista, all’evidente scopo di screditare la credibilità e l’immagine del leader".

Anche qui non c’è ombra di buona fede: c’è la solita campagna di balle orchestrate ad arte. La sentenza parla di "volute inesattezze e reticenze, così da accreditare la tesi del giornalista che, interrogandosi sulle proprietà immobiliari di Di Pietro e dei suoi familiari (‘Ma quante case ha l’onorevole Di Pietro? E con quali soldi le ha comprate?’) in rapporto ai redditi dallo stesso dichiarati ed al patrimonio della società immobiliare di sua proprietà (l’An.to.cri, ndr)… senza affermarlo espressamente, intende chiaramente alimentare il dubbio che gli acquisti siano frutto di un illecito storno per fini privati dei fondi del partito e, quindi, anche dei finanziamenti pubblici allo stesso destinati in relazione ai rimborsi elettorali". Anche qui il giornalista sa benissimo che quel che scrive è falso, visto che cita la denuncia di un ex dipietrista, tale
Mario Di Domenico, contro Di Pietro. Denuncia archiviata dal gip di Roma perché "anche in punto di fatto, prima ancora che nella loro rilevanza giuridica, i sospetti avanzati in merito alle citate operazioni dell’avv. Di Domenico sono risultati infondati". Ma il Giornale si guarda bene dal riportare quelle parole: "Dall’autore dell’articolo...vengono artatamente sottaciute le motivazioni poste alla base del provvedimento di archiviazione" con uno "scopo evidente": "Ove le ragioni delle concordi determinazioni della Procura e del Gip fossero state riportate (sia pure in sintesi), i dubbi instillati dal giornalista sarebbero risultati non più che mere congetture, prive di concreti riscontri. E invece, espungendo le motivazioni del provvedimento, il lettore (non altrimenti informato) resta confuso, nell’apprendere che, a fronte delle pesanti accuse mosse a Di Pietro dall’avv. Di Domenico circa l’illecito utilizzo di fondi del partito per l’acquisto di appartamenti, ‘la procura capitolina’ avrebbe ‘stigmatizzato’ il comportamento di ‘Tonino’…In realtà la procura non ha affatto ‘stigmatizzato’ il comportamento" di Di Pietro e il gip ha ritenuto "infondati i sospetti avanzati dal querelante, non essendo in alcun modo emerso che Di Pietro ebbe a trarre personale vantaggio dalle operazioni ai danni del partito”. Insomma il Giornale ha ancora una volta, "volutamente" e "capziosamente", "travisato i fatti a discapito del principio di verità della notizia". E lo stesso ha fatto a proposito dell’annosa querelle fra Idv e "Il Cantiere" di Occhetto e Veltri per i rimborsi elettorali delle Europee 2004: "L’autore distorce ancora una volta le informazioni”, evita accuratamente di ricordare che il gip di Roma ha “confermato la sostanziale correttezza delle determinazioni assunte dalla Camera nell’individuazione dell’Idv quale unico soggetto legittimato alla percezione dei rimborsi…Informazioni intenzionalmente tralasciate per poter affermare che la Camera avrebbe erogato i rimborsi all’Idv‘senza operare alcun controllo’, dando così al pubblico un’informazione palesemente falsa".

Anche questi articoli sono "diffamatori e lesivi della reputazione" di Di Pietro, che va risarcito con altri 60 mila euro. La terza sentenza riguarda un’intervista di Felice Manti a Veltri. Il Giornale la titolò così: "Vi racconto i maneggi del mio ex amico Di Pietro. Quando tesserò 241 criminali". Tutto diffamatorio fin dal titolo, per giunta manipolato per forzare ulteriormente il pensiero di Veltri, a cui l’autore attribuisce una frase mai pronunciata ("Di Pietro iscrisse ai Democratici per Prodi l’intera via della malavita di Cosenza"). Ma il giudice ne ha ritenuta diffamatoria anche una effettivamente pronunciata, "laddove Veltri ha dichiarato che i soldi del finanziamento pubblico non vanno al partito, bensì personalmente a Di Pietro, a
Susanna Mazzoleni (la moglie, ndr) e a Silvana Mura (la tesoriera Idv, ndr) e ha dichiarato che un’ordinanza del Tribunale di Roma avrebbe affermato che i finanziamenti non possono andare all’associazione" omonima al partito Idv. Ora, "l’ordinanza del Tribunale di Roma non reca una siffatta affermazione", anzi dice che "il finanziamento pubblico va all’associazione IdV e il Tribunale di Roma non ha ritenuto illegittima tale condotta… circostanza di cui Veltri era a conoscenza": l’ordinanza l’ha prodotta lui al giudice di Monza. Dunque la notizia pubblicata dalGiornale "non è oggettivamente vera" e ha "leso la reputazione e l’immagine dell’on. Di Pietro", che va risarcito con 44 mila euro. Che, aggiunti agli altri risarcimenti, fanno 344 mila euro: quanto basta per comprare un’altra casa a spese della famiglia Berlusconi.

Da
il Fatto Quotidiano del 22 aprile