domenica 25 luglio 2010

Noi, professionisti dell’Antimafia. - Fabio Granata




In questi caldi giorni d’estate, caratterizzati da aspre polemiche sulla questione morale e sulle tragiche vicende del ’92 è risuonata spesso l’accusa di professionismo dell’antimafia, lanciata sia nei confronti di alcuni magistrati che nelle polemiche interne agli schieramenti politici.

Anche nel
Pdl si è fatto spesso ricorso a queste espressione per sottolineare negativamente la predisposizione di alcuni di noi a rimuovere la cultura delle garanzie e le presunzioni di innocenza costituzionalmente garantite, attraverso la sottolineatura delle responsabilità di pezzi delle istituzioni e della politica nella vergognosa e ciclopica opera di depistaggio e di occultamento della verità sulle stragi di mafia nella cornice delle trattative tra apparati dello stato e cosa nostra.

Professionisti dell’Antimafia: sono certo che chi utilizza questa espressione non ha né la conoscenza né la memoria storica per ricordarne le origini.

Cita
Sciascia come creatore della metafora, ma dimentica di sottolineare o, in alcuni casi ignora, che Sciascia utilizzò questa espressione nei confronti di Paolo Borsellino poiché il grande scrittore siciliano in una prima fase non aveva compreso la portata rivoluzionaria delle metodologie d’indagine e processuali che lui e Giovanni Falcone avevano introdotto nell’azione di contrasto a cosa nostra.

Sciascia si pentì amaramente di questa polemica e, dopo la tragica morte di Paolo Borsellino, se ne scusò solennemente sia attraverso i giornali che con una missiva privata alla signora Agnese, moglie del giudice ucciso.

Oggi, nel dilagare di una questione morale che coinvolge pezzi della politica e delle istituzioni e che costringe il Presidente
Napolitano ad un rigorosissimo richiamo ai partiti ed ai corpi istituzionali per fare pulizia al proprio interno, e mentre l’azione irriducibile dei magistrati di Palermo,Caltanissetta e Firenze ricostruisce le dinamiche criminali che portarono alle stagione delle stragi e che furono attraversate da inconfessabili trattative tra la mafia e pezzi dello Stato , ecco che il nemico principale siamo diventati noi: i “nuovi professionisti dell’Antimafia”.

Le vicende giudiziarie che riguardano
Cosentino, la condanna di Dell’Utri, l’esaltazione diMangano come eroe nazionale, l’inquietante vicenda della cosiddetta P3 che vede unite figure torbide provenienti dal passato quali Flavio Carboni, allo stesso tavolo con magistrati infedeli, faccendieri, pezzi della politica hanno lasciato perfettamente indifferenti alcuni dirigenti del Pdl che invece dimostrano tutta la loro diuturna preoccupazione, in alcuni casi vera e propria indignazione, verso coloro i quali si appellano alla legalità repubblicana e sostengono l’azione dei magistrati per ottenere verità e giustizia sulle stragi del ’92.

E’ la stessa logica secondo la quale a Casal di Principe il problema non sono i Casalesi, ma
Saviano, in Italia non sono le mafie che fatturano 120 miliardi di euro l’anno , ma le opere letterario-cinematografiche che ne parlano.

Allo stesso modo nel Pdl a minare la credibilità del partito agli occhi dell’opinione pubblica e della gente comune, alla prese con una grave crisi economica e sociale non sono le cricche, le consorterie, le logge che parlano di affari, denaro, potere e dossier:il vero problema siamo noi, i professionisti dell’antimafia.




sabato 24 luglio 2010

Fallisce Viaggi del Ventaglio, e il fondo Brambilla è in rosso.



L'inchiesta de Il Salvagente domani in edicola, e da oggi nel nostro shop online.


Enrico Cinotti


Il Fondo della “rossa” Brambilla? È in rosso. Mentre migliaia di turisti rischiano di rimanere a terra a seguito del fallimento dei Viaggi del Ventaglio, numero due dei tour operator italiani, e contemporaneamente si moltiplicano gli esposti alla Procura di Milano da parte dei malcapitati, da più parti, specie istituzionali, arriva l’invito rassicurante a “rivolgersi al Fondo di garanzia”. Una dotazione gestita dal ministero del Turismo che - sulla carta - dovrebbe rimborsare gli utenti in caso di insolvenza o fallimento dell’organizzatore di pacchetti turistici. Peccato però che, nonostante le promesse del ministro del Turismo Michela Vittoria Brambilla, il Fondo sia vuoto.
Lo rivela l'inchiesta de Il Salvagente domani in edicola e da oggi nel nostro shop online.

Un anno di promesse

Lo sanno bene le vittime del crac Todomondo, il tour operator
che nel luglio 2009 ha “scaricato” 5mila clienti in procinto di partire per le vacanze. Subito dopo il fallimento, circa 4.500 hanno presentato domanda al Fondo nazionale di garanzia per i pacchetti turistici per un ammontare complessivo di 7,4 milioni di euro. La brutta sorpresa però non è mancata perché la risorse messe a disposizione, a dodici mesi esatti dal crac di Todomondo, sono del tutto irrisorie. Una situazione paradossale che rischia ora di aggravarsi alla luce del fallimento di Viaggi del Ventaglio che molto probabilmente genererà un’ondata di richieste di assistenza al Fondo. Ondata destinata però ad infrangersi nel vuoto dato che in cassa non ci sono soldi.

Solo 248mila euro in cassa

A voler essere pignoli, guardando il bilancio consuntivo della Presidenza del Consiglio, dal quale dipende anche la capacità di spesa del ministero senza portafoglio del Turismo, al 31 dicembre 2009 le risorse disponibili per gli indennizzi risultavano pari a 248.154 euro. Briciole rispetto alle necessità. Nel corso dell’anno sono stati erogati dal Fondo di garanzia risarcimenti per 10.637,95 euro. Ma i “truffati” di Todomondo giurano che a loro “non è arrivato nemmeno un euro”.
Eppure il ministro Brambilla era stato molto solerte il 29 luglio 2009 nel rassicurare gli utenti rimasti a terra: “verrà subito attivato il Fondo nazionale di garanzia, che ha proprio il compito di intervenire in caso di insolvenza o fallimento del venditore o dell'organizzatore di pacchetti turistici, provvedendo al rimborso delle somme versate per l'acquisto dei pacchetti di viaggio”.

“Scaricati due volte”

Andrea Oriolo è uno dei portavoce del comitato nato per difendere gli utenti “scaricati due volte, da Todomondo e dal governo”. “Personalmente - prosegue - ho fatto richiesta al Fondo il 4 agosto 2009 e ad oggi, nonostante la costante opera di pressione nei confronti del ministero, non abbiamo ancora ricevuto una risposta”.
L’ultima comunicazione ufficiale arrivata al comitato da parte del ministero del Turismo, il 22 marzo 2010, annuncia che “le istanze possano essere completate presumibilmente nell’arco di circa quattro mesi, prima dell’inoltro delle medesime al Comitato di gestione per le valutazioni di pertinenza”. Passano i quattro mesi, arriviamo a luglio 2010 ma degli indennizzi nemmeno l’ombra. “Anzi - rincara la dose Oriolo - abbiamo dubbi anche sul fatto che sia stato istituito lo stesso Comitato di gestione che alla fine dovrà decidere se accettare o respingere la richiesta”.

Class action contro la Brambilla

In questa storia ci sono molti lati oscuri. “Noi vogliamo sapere ufficialmente quanti soldi ci sono nel Fondo, quanti ne sono stati spesi e quali risorse aggiuntive il governo intende stanziare”, rilancia Silvia Baldina, 2.100 euro persi con il fallimento del famigerato tour operator, che con Oriolo e altre 800 persone del comitato, assistiti dall’associazione Avvocati dei consumatori, stanno lavorando per un’azione legale nei confronti del ministero del Turismo.
Spiega l’avvocato Domenico Romito presidente dell’associazione: “Ammettiamo pure l’eccezionalità del crac Todomondo. Tuttavia chiediamo: le somme accantonate di anno in anno dal 2005 a oggi che fine hanno fatto? L’Isvap sa qualche cosa? E infine, come mai dopo un anno dalla presentazione delle domande di indennizzo, il ministero non ha ancora provveduto ad erogare quanto dovuto? Se non avremo le risposte necessarie siamo pronti anche a una class action nei confronti della Pubblica amministrazione, prevista dalla legge Brunetta, per chiedere che vengano ristabiliti i termini, 30 giorni, entro i quali i procedimenti amministrativi, come lo è la richiesta di adesione al Fondo, devono concludersi”.

Risorse scomparse

Ma i misteri attorno alla dotazione del Fondo non si esauriscono qui. Il Fondo di garanzia, istituito con il decreto legislativo 11/95, attuato poi con il decreto legislativo 206 del 2005 e oggi contemplato dall’articolo 100 del Codice del consumo, viene alimentato ogni anno dal 2% delle polizze assicurative che i tour operator e le agenzie di viaggio sottoscrivono per tutelare i propri clienti nel caso in cui i pacchetti di viaggio (volo più soggiorno) vengano annullati o subiscano variazioni in danno dei turisti.
Quanto vale quel 2%? Nelle annate migliori, spiegano i tecnici del settore, si può arrivare anche al milione di euro. Non sappiamo se il 2009 sia stato un anno buono per le aziende del settore, tuttavia la dotazione iscritta nel bilancio consuntivo della Presidenza del consiglio (248.154 euro) appare quantomeno “sottostimata”.

“Che fine hanno fatto i soldi?”

A questo punto viene da chiedersi che fine hanno fatto i soldi accantonati dal 2005 ad oggi. Se lo domandano anche i diretti interessati, ovvero gli operatori del settore che da tempo non riescono ad ottenere una risposta ufficiale da parte del governo.
Andrea Corbella è il presidente dell’Astoi, l’Associazione dei tour operator aderente a Confindustria: “Vogliamo sapere ufficialmente a quanto ammonta la dotazione del Fondo. Tutti i soldi che gli operatori hanno versato, sono davvero arrivati a destinazione o hanno preso un’altra strada? E, infine, quanti ‘sinistri’ sono stati indennizzati a oggi? Tutte domande che abbiamo posto al ministro Brambilla senza mai avere una risposta”.

Pd: il ministro risponda

Il Partito democratico intanto sta preparando un’interrogazione parlamentare per chiedere conto al ministro Brambilla della dotazione del Fondo di garanzia. Attacca Antonio Lirosi, responsabile consumatori del Pd: “A cosa serve il Ministro del Turismo se le risorse disponibili sul Fondo nazionale per gli indennizzi dei turisti truffati ammontano soltanto a 248.000 mila euro, cioè spiccioli rispetto alle necessità? Evidentemente il Ministro è soltanto interessato a realizzare spot milionari per Magic Italy e a continuare a spendere per il costosissimo portale Italia.it, circa 30 milioni di euro stanziati nel bilancio pluriennale”.

Il mistero dei 3 milioni

Dal ministero del Turismo alzano le mani: “L’eccezionalità dell’evento e l’elevato numero di persone coinvolte nel fallimento di Todomondo stanno rallentando le pratiche. Ma il Parlamento ha deliberato lo stanziamento di 3 milioni di euro da destinare al Fondo”.
I “truffati” del comitato però non si fidano. E fanno bene visto che i soldi versati dagli operatori turistici dal 2005 al 2009 sembrano inghiottiti dal bilancio dello Stato. E adesso il Parlamento cerca di “mettere una toppa”.
Il 20 maggio scorso la Camera ha approvato definitivamente la destinazione di 38 milioni di euro delle multe comminate dall’Antitrust nel 2009 in favore di iniziative per i consumatori. Si legge che “tre milioni saranno destinati al Fondo nazionale di garanzia per il consumatore di pacchetto turistico, per far fronte alle richieste e superare l’attuale situazione di insufficienza delle risorse del fondo causata dalle eccezioni richieste di rimborso connesse al fallimento di un grosso operatore turistico”.

Tremonti non molla

“I soldi sono programmati - spiega Pietro Giordano segretario nazionale dell’Adiconsum - ma di fatto non sono stati girati dal ministero del Tesoro a quello del Turismo”.
I soldi delle multe Antitrust, ogni anno, vengono girati dal ministero del Tesoro ai ministeri competenti, Sviluppo economico in primis. Tuttavia quest’anno il super ministro Tremonti si è imputato. “Dei 38 milioni previsti - spiega Antonio Longo, presidente del Movimento difesa del cittadino - ne sono disponibili 14. Gli altri, pare, il ministero del Tesoro li abbia impiegati per finanziare la Social card, il terremoto dell’Aquila e l’alluvione di Messina”.
E per i truffati da Todomondo e per i malcapitati del Ventaglio? Ancora solo le briciole.




Fallisce Viaggi del Ventaglio, e il fondo Brambilla è in rosso.

Lo squalo che non si piega al Cavaliere. - Beatrice Borromeo



La rabbia del governo contro l'Europa: Sky è un concorrente vero

Basta assistere alla reazione scomposta del viceministro Paolo Romani alla notizia del semaforo verde per la tv terrestre che la Commissione europea ha dato martedì a Sky per capire che, nello scenario televisivo italiano, è successo qualcosa d’importante.Una decisione che Romani, viceministro allo Sviluppo economico con delega alle comunicazioni, definisce “ingiusta, grave”. Di più, un “regalo al monopolista delle pay tv”.

Se fino a oggi
Mediaset ha regnato indisturbata nel nuovo mondo del digitale terrestre, ora potrebbe trovarsi a confronto con un concorrente vero. E Sky Italia, che oggi controlla il 99,8 per cento del satellite e l’86 per cento delle pay tv, ha sia i capitali che l’intenzione di andare alla conquista del digitale terrestre.

Messaggio politico.
“In Italia manca il pluralismo dell’informazione: è questo il messaggio politico che ha voluto lanciare la Commissione europea con la sua scelta”, sostiene il professore Francesco Siliato,esperto di media. E spiega: “Data la scarsità di nuovi soggetti, e visto che chi aveva l’analogico terrestre – cioè Rai e Mediaset – era avvantaggiato nel passaggio al digitale, l’Europa ha deciso di dare il via libera a Sky con un anno di anticipo sul previsto. In altri paesi come la Francia, dove i nuovi soggetti ci sono davvero, questa eccezione non sarebbe stata fatta”.

Ora Sky potrà partecipare alla gara per l’assegnazione delle frequenze tv: in palio ci sono cinque multiplex, ognuno dei quali corrisponde a circa sei canali standard oppure a tre in alta definizione. Il colosso di Rupert Murdoch potrebbe aggiudicarsene uno: “Se ciò avvenisse, sarebbe estremamente importante per Sky – dice Siliato – per due motivi. Il primo è che avrebbe una vetrina in chiaro per esporre tutte le offerte satellitari. Manderebbe in onda di certo SkyTg24 e Sky Sport Tg, attirando verso la pay tv nuovi clienti perché, va ricordato, gli abbonamenti costituiscono il 92 per cento degli introiti di Sky, mentre gli incassi pubblicitari solo l’8 per cento”. E proprio gli abbonamenti hanno permesso a Sky di diventare la seconda azienda televisiva in Italia dopo la Rai: nel 2009 i ricavi sono stati 2,711 miliardi di euro (di cui solo 223 di pubblicità) mentre quelli di Mediaset 2,506 miliardi, quasi tutti dovuti alla vendita degli spot.

“Il secondo aspetto riguarda gli ascolti. Se Sky si aggiudicherà il multiplex – prosegue Siliato – ci saranno cinque o sei ‘nano share’ in più. Ogni canale nel digitale terrestre ha uno share compreso fra lo 0 e il 2 per cento.
Ipotizziamo che i nuovi canali di Sky raccolgano 0,5 punti di share ciascuno: eroderebbero in totale 2,5 punti alle televisioni generaliste, e non sono pochi”. Questo, spiega il professore, non inciderà tanto sui ricavi pubblicitari, il cui restringimento c’è ma è fisiologico, dovuto soprattutto alla crisi. Costituirebbe invece “un incremento dell’influenza politica di Sky”.

Dello stesso avviso è il deputato del Partito democratico
Paolo Gentiloni, ex ministro delle Telecomunicazioni, che spiega al Fatto: “La rabbia di Romani ? Dipende dal fatto che fino a ora Mediaset non ha mai avuto un vero concorrente. La proliferazione di canali nel ddt non corrisponde infatti a una moltiplicazione degli editori, anzi. Tolte le tv locali e Telecom, che si autolimita, ed escludendo ovviamente la Rai, non resta nessuno. Se Rupert Murdoch decidesse di investire, avrebbe le spalle abbastanza larghe per diventare protagonista anche nel digitale”.

Il beauty contest.
Restano i dubbi sulle modalità di svolgimento dell’asta che assegnerà le frequenze.
A partire dai tempi: se per Siliato il ministero cercherà di allungarli il più possibile per allontanare l’eventuale ingresso di Sky nel ddt, Gentiloni ha notizie fresche: “L’ho chiesto proprio ieri aCorrado Calabrò (il presidente dell’Agcom, ndr), e mi ha risposto che entro ottobre l’Authority stabilirà le regole per la gara. Poi toccherà al ministero dello Sviluppo. E la faccenda diventa paradossale: se entro settembre non verrà nominato un nuovo ministro, spetterà a Berlusconidecidere se assegnare le frequenze a se stesso o ai suoi nemici. Ma depone già male il fatto che non vincerà il miglior offerente: sarà una scelta discrezionale che, nel paese del conflitto d’interessi, non farà dormire sonni tranquilli agli australiani”.

Da
Il Fatto Quotidiano del 22 luglio 2010



giovedì 22 luglio 2010

L’acqua fra pubblico e privato - Luciano Lanza



Ben 1,4 milioni di persone hanno firmato per indire il referendum che blocchi la vendita ai privati dell’acqua. Un primo stop in questo conflitto che vede i big dell’economia affiancare o soppiantare i gestori pubblici dell’acqua. Cioè una gestione statale, regionale, comunale. E se si sperimentasse una terza via?


Partiamo dai dati macro di questa guerra dell’acqua: 1,6 miliardi di persone nel mondo non hanno accesso all’acqua potabile; 2,6 miliardi di persone non hanno accesso ai servizi igienico-sanitari di base; 5 milioni di persone muoiono ogni anno per malattie legate all’acqua. E tutti sanno (meno quelli che fingono di non sapere) che ormai da più di un decennio (ma si potrebbe andare anche più indietro nel tempo) i grandi gruppi industrial-finanziari si stanno interessando al business dell’acqua in previsione dell’esaurirsi del petrolio. Un esaurimento fisico dei giacimenti e un esaurimento economico dettato dalla necessità di sostituire all’inquinante petrolio qualche altra forma di guadagno.

Suez-Lyonnais des eaux, Vivendi, Saur-Bouygues, Thames Water, United utilities, Ruwe, Nestlé, Danone, Coca-Cola e altri fanno da anni della gestione dell’acqua la fonte di alti profitti e contro lo strapotere delle multinazionali il cosiddetto «popolo delle sinistre» rivendica la proprietà pubblica dell’acqua.

I problema acqua è anche la cartina al tornasole della divisione fra privilegiati e diseredati a livello mondiale se si tiene conto che il 12 per cento della popolazione usa l’85 per cento delle risorse del pianeta.

Ecco la situazione della divisione fra ricchi e poveri nelle varie parti del mondo secondo quanto registrato dall’agenzia di stampa Ansa. «America: anche il continente americano soffre l’assenza d’acqua, manca quella per usi domestici perché viene utilizzata, al ritmo di 2 mila miliardi di litri, per coltivare cereali per l’allevamento. Europa: il 16 per cento della popolazione non ha accesso all’acqua potabile. Un problema che in trent’anni è costato 100 miliardi di euro.
In Europa il 44 per cento dell’acqua estratta viene utilizzata per produrre energia, mentre nell’area mediterranea, con la domanda raddoppiata negli ultimi 50 anni, si prevede un aumento dei consumi del 25 per cento entro il 2025. Italia: le condutture perdono 104 litri d’acqua per abitante al giorno (pari al 27 per cento dell’acqua prelevata), un terzo degli italiani non ha un accesso regolare all’acqua potabile, ma ogni italiano consuma 237 litri di acqua al giorno. Salerno è la città che ne consuma di più con una media di 264 litri a testa al giorno, mentre Agrigento è quella che ne consuma di meno con 100 litri pro-capite al giorno. Il rubinetto dell’Italia perde il 30 per cento dell’acqua immessa e nelle regioni meridionali e nei mesi estivi il 15 per cento della popolazione scende al di sotto della soglia minima di fabbisogno giornaliero a persona (50 litri al giorno). Il 30 per cento non ha un accesso sufficiente e 8 milioni non hanno quella potabile mentre 18 milioni la bevono non depurata. In Italia c’è però anche il business dell’acqua minerale che vale 5,5 miliardi di euro all’anno (al terzo posto al mondo per consumi pro-capite dopo Emirati Arabi e Messico)».

Pubblico o privato?

Di fronte a questa situazione, drammatica soprattutto nei paesi del cosiddetto terzo mondo, le «grida d’allarme» dell’Onu suonano soltanto come la «necessaria retorica» tipica delle organizzazioni sovrannazionali. Organizzazioni che contano soprattutto come «teatrino mondiale», ma (e diciamolo chiaramente: per fortuna) contano un po’ più (ma solo un po’) del cosiddetto due di picche nel gioco della briscola.

E veniamo al
teatrino italiano. Di fronte all’avanzata di società private nella gestione dell’acqua potabile (peraltro già all’interno della struttura societaria delle municipalizzate) le sinistre hanno registrato una prima vittoria con le firme (1,4 milioni) per il referendum contro la privatizzazione dei gestori dell’acqua per conservare o riaffermare una gestione pubblica. Dimenticando, forse, che già diverse municipalizzate (le più importanti) sono quotate in Borsa. Luogo (è notorio e non potrebbe essere altrimenti) deputato a considerare con benevolenza chi fa profitti e non certo perdite.

E qui si riapre una questione tanto importante quanto antica.
Se l’acqua è essenziale per la vita perché si deve anche in un caso così importante, fondamentale, delegare ad altri la gestione di questo bene? Pubblico o privato non sono i due poli tra cui scegliere. Dove pubblico significa gestione attuata da burocrazie politiche e privato è il luogo del profitto ricercato da manager che rispondono ad azionisti. Azionisti che vogliono sia remunerato il loro capitale investito in azioni.

Tertium non datur? Non è detto. Infatti, chi l’ha detto che la gestione dell’acqua non debba essere esercitata da chi quell’acqua beve? Chi l’ha detto che siano meglio i burocrati o i manager dei consumatori? Chi l’ha detto che un bene di tutti non debba essere gestito da tutti? Cioè da coloro che quell’acqua bevono? E come? Attraverso modelli di partecipazione autogestionaria. Chi l’ha detto che burocrati o manager pensino a soddisfare i bisogni della gente e non, invece, a servire gli interessi politici o di profitto di chi li ha nominati? Chi l’ha detto che l’autogestione degli acquedotti sia un’utopia e non un’impellente necessità?

Utopia… Parola sempre disprezzata o dileggiata dalle persone «pratiche», di «buon senso», legate alla «realtà» e non al «sogno». Ma c’è chi è veramente sicuro che l’utopia sia «desiderio vano», «illusione», «ideale astratto»? Certo il termine utopia rimanda a «un modello di una società perfetta, dove gli uomini vivono nella piena realizzazione di un ideale politico e morale» (Dizionario Garzanti , a «un ideale che non si può realizzare» (Dizionario Sansoni), ma anche a «un ideale etico-politico destinato a non realizzarsi dal punto di vista istituzionale, ma avente ugualmente funzione stimolatrice nei riguardi dell’azione politica, nel suo porsi come ipotesi di lavoro o, per via di contrasto, come efficace critica alle istituzioni vigenti» (Dizionario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli), mentre «Auguste Comte assegnava all’utopia propriamente detta una parte importante non solo nelle istituzioni, ma anche nello sviluppo delle idee scientifiche» (Dizionario critico di filosofia di André Lalande).

Allora è tanto utopico volere e realizzare l’autogestione?