sabato 21 agosto 2010

La vittoria dei Bilderberg e il mondo alla fame di Rita Pennarola - 09/07/2010


Fonte: lavocedellevoci


Dalle sciagure “avvertimento”, come quella di Smolensk, alla pianificazione degli eventi mediatici destinati a deviare l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale. Con due progetti nell'armiere: l'eliminazione di Barack Obama ed il progressivo impoverimento del ceto medio, “reo” di voler contestare le scelte delle e'lites finanziarie sulle sorti del mondo. Ecco l'allucinante report da Bilderberg 2010.

* * *

La notizia arriva dalla Germania e comincia a circolare intorno ai primi di aprile, quando i media vicini al fondatore di Movisol (Movimento internazionale per i diritti civili e solidarieta') Lyndon Larouche la rilanciano in rete: il piano per far scomparire dalla scena politica mondiale Barack Obama sarebbe gia' pronto. In discussione e' l'eliminazione fisica in stile John Kennedy (affidata, come sempre, allo “squilibrato” di turno), o l'atterramento politico, di quelli che non danno scampo e non conoscono vie di ritorno.
Chi ne fa cenno per primo alla Voce e' il giornalista d'inchiesta italiano Claudio Celani, da sempre residente a Berlino e primo fra i collaboratori dei periodici facenti capo al gruppo LaRouche, con sedi ed aderenti in tutto il mondo. Un personaggio piu' che discusso, il “guru” dell'economia planetaria, cui viene pero' riconosciuta una preparazione non comune nell'interpretare per primo le mosse sullo scacchiere internazionale ed una preveggenza dei fatti della storia piu' volte comprovata dai successivi accadimenti.
Classe 1922, un passato giovanile nelle fila dei trotskisti, Lyndon discende da quei primi padri pellegrini che fondarono le basi dei moderni Stati Uniti. Alla sua corrente di pensiero si deve gran parte delle ipotesi sul “Nuovo Ordine Mondiale”, gli assetti verticistici di predominio planetario che da anni costituirebbero il disegno occulto di pochi “grandi della terra”. Un'e'lite economica - assai piu' che politica - dalla quale per la prima volta sarebbero oggi escluse le linee politiche di Obama e, in una parola, lo stesso presidente Usa.
Su “Alerti” del 15 aprile scorso, il bollettino periodico del Movimento, Larouche avverte: i britannici, dopo essersi serviti di Obama, intendono eliminarlo. E si fanno precedere da una serie di accadimenti funesti, il primo dei quali sarebbe la sciagura di Smolensk. «Non appena appreso della tragedia aerea in cui hanno perso la vita il presidente polacco Lech Kaczynski e numerosi alti funzionari e esponenti delle forze armate, ho lanciato un forte avvertimento sul significato di questo sviluppo nell'aumentare la minaccia strategica alla vita del Presidente Obama». «Non si tratta di un avvenimento isolato», ha dichiarato LaRouche il 10 aprile. «Quando un pilota polacco, un pilota militare, a cui e' stato affidato il governo presidenziale, ignora un ordine, un avvertimento dato sul territorio russo sull'atterraggio in Russia in determinate condizioni atmosferiche e invece prosegue e alla fine tutti muoiono, cio' da' da pensare».
«Questo - continua l'economista americano - e' parte dell'ambiente di minacce di morte al presidente Obama. Siamo in una situazione che puo' essere paragonata, internazionalmente, all'assassinio di Kennedy… Quando qualcuno vuole assassinare il Presidente degli Stati Uniti, conduce una serie di operazioni che creano un'atmosfera di instabilita', una dinamica che consente loro di avere buone possibilita' di poter insabbiare i fatti sui colpevoli». E questo «qualcuno» LaRouche lo identifica con gli ex alleati britannici, i quali «sono intenzionati a liberarsi di lui, per creare una situazione in cui imporre una vera e propria dittatura negli Stati Uniti, eliminando un presidente che ha gia' esaurito tutta la sua utilita' politica», realizzata attraverso la riforma sanitaria, che sarebbe stata ispirata proprio dai grossi gruppi dell'industria farmaceutica anglo-britannica, contrapposti ai moloch delle assicurazioni private, finora detentori dell'intero sistema.

Le CONFERME DEL PIANO
Ma lasciamo ora Movisol e il suo dominus, perche' conferme indirette del piano anti-Obama fin qui ipotizzato arrivano da altre fonti. Se infatti appare persino scontato il riferimento ai gruppi nazionalisti armati (a cominciare dalle “milizie” facenti capo a Mike Vanderboegh), meno noti sono alcuni movimenti finanziari speculativi avvenuti intorno al disastro delle “Torri gemelle del mare”, vale a dire la colossale falla di greggio nell'oceano causata dalla British Petroleum, che ha provocato, fra i suoi primi effetti, il crollo verticale di una popolarita' e di un consenso - quali quelli di Obama - fino ad allora inespugnabili. Ma anche stavolta c'era stato “chi” aveva gia' previsto tutto. E non si trattava del “solito” LaRouche. Se guardiamo i repentini passaggi nell'azionariato di BP al 31 marzo di quest'anno - cioe' alla vigilia dell'incidente - una circostanza salta subito agli occhi: la banca d'affari americana Goldman Sachs si era appena “liberata” della bellezza di 4.680.822 azioni della societa' petrolifera britannica, fino a quel momento date per solide, realizzando un controvalore pari a 250 milioni di dollari. Se le avesse tenute, oggi avrebbe perso il 36% del loro valore.
E sempre a meta' marzo - come fa notare l'analista economico Mauro Bottarelli - il sito di ricerche di mercato Morningstar, a proposito del titolo BP, avvertiva: «Spaccature causate da limiti ambientali e operativi potrebbero ulteriormente limitare il potenziale di guadagno». «Che quell'incidente sarebbe accaduto - spiega Bottarelli - lo si sapeva da mesi e mesi, era questione di tempo. Anzi, di timing visto che le implicazioni sono anche - e forse soprattutto - economche e finanziarie: prima delle quali, uccidere Bp, renderla scalabile e ottenere a prezzo di saldo le sue attivita' estrattive». Con una “chicca” finale: ad effettuare le attivita' estrattive sulla maledetta piattaforma del Golfo del Messico non c'era solo British Petroleum, ma una terna di imprese comprendente anche Transocean e soprattutto, quale esecutore materiale dei lavori di trivellazione, la corazzata Halliburton di area George Bush (tramite il suo presidente Dick Cheney). Vale a dire proprio coloro che avevano interesse a far affondare, nella marea nera che ha devastato il Golfo del Messico, il pericoloso e democraticissimo Barack Obama.

BILDERBERG IN CAMPO
Contro quelli come Obama, del resto, le forze neocon del pianeta (non quelle ideologizzate, ma i detentori delle leve del potere finanziario), sono all'opera praticamente da sempre. E il progetto del NWO (New World Order) trova ogni volta nuove, sofisticate forme di attuazione in occasione dei super segreti summit dei Bilderberg, l'e'lite oligarchica mondiale che programma a tavolino i destini dei cinque continenti, servendosi della propaganda ad effetto mediatico messa a punto con mesi e talvolta anni di anticipo insieme ai direttori ed editori delle principali testate internazionali, tutti regolarmente presenti ai vertici della “Cupola”.
All'appuntamento 2010 che si e' tenuto dal 3 al 6 giugno nel sontuoso Hotel Dulces a Sitges, localita' turistica poco distante da Barcellona, i leader dei colossi editoriali erano numerosi e tutti molto influenti: cominciamo proprio da un italiano, l'amministratore delegato Telecom Franco Bernabe'. Con lui, l'AD di Europe 1, il francese Alexandre Bompard, l'editore dell'austriaco Der Standard Oscar Bronner, il numero uno della Washington Post Company Donald Graham. E ancora, John Micklethwait, editore dell'Economist, Matthias Nass, delegato dalla propieta' di Die Zeit, Denis Oliviennes a nome dell'azionariato de Le Nouvel Observateur, Martin Wolf, editore associato ed analista del Financial Times, oltre a Vendeline Bredow ed Edward McBride, corrispondenti dell'Economist ed unici due giornalisti ammessi, ma solo per una sorta di ufficio stampa del summit.
Una copertura dell'informazione, insomma, a prova di bomba. Cosi' come blindati sono stati i varchi terrestri ed aerei della location per l'intera durata della tre giorni. Fra gli altri italiani - assente per impegni governativi l'altrimenti assiduo Giulio Tremonti - c'erano gli immancabili Romano Prodi, Tommaso Padoa Schioppa (quest'ultimo elencato fra gli ospiti ufficiali in veste di presidente di Notre Europe, aderente alla UE, ma in realta' reso ancor piu' influente dalla recente investitura al vertice della finanziaria d'affari sovranazionale Promontory); e poi John Elkan e il governatore di Bankitalia Mario Draghi, altro habitue' dei Bilderberg. Le uniche indiscrezioni riguardanti i punti strategici sul tappeto quest'anno filtrano attraverso Charles Skelton del Guardian, una vita alle calcagna dei padroni occulti del potere. In estrema sintesi, fra gli obiettivi da annientare ci sarebbero ora tutti gli appartenenti alla middle class, che gli oligarchi considerano «una minaccia» ai loro ordini del giorno, anche per le nuove consapevolezze diffuse proprio in questo ceto attraverso la rete. A maggio, nel corso del Consiglio per le Relazioni Estere a Montreal, uno fra i “padri” di Bilderberg, Zbigniew Brzezinski, aveva messo in guardia i partner dai pericoli del «risveglio politico globale», autentico ostacolo per i fautori del governo mondiale.
Una classe media da sradicare, dunque, abbassando il tenore di vita e favorendo lo scivolamento al di sotto delle soglie di poverta'. Fin qui, pare che non si tratti di un obiettivo remoto, dal momento che la crisi finanziaria sta provvedendo, giorno dopo giorno, a centrarlo in pieno. Per portarlo a compimento, secondo il rapporto di Skelton, i fautori del NWO stanno programmando «opportuni sistemi per indebolire il tenore di vita delle popolazioni, introducendo tasse piu' elevate, misure di austerita' o prelievi fiscali sulla CO2 emessa». Un “cuore verde” spuntato all'improvviso? Tutt'altro, come ben sa chi conosce il presidente emerito del Wwf: sua maesta' Filippo di Edimburgo, consorte di Queen Elisabeth.
«Attraverso la promessa “di una rivoluzione postindustriale”, alleata con “un'economia verde” - incalza Skelton - in realta' risulteranno paralizzate le economie una volta prospere e la popolazione mondiale diventera' povera al punto che la principale preoccupazione non sara' piu' quella di protestare contro la riunione di 200 elitari presso una localita' di villeggiatura di lusso, ma quella di come arrivare alla fine del mese». Altro scopo che puo' decisamente dirsi gia' a buon punto.
Il 3 giugno scorso, dinanzi al Parlamentro europeo, lo storico Daniel Estulin e' stato ancor piu' esplicito: «L'idea dietro ognuna di queste riunioni Bilderberg e' di creare quello che loro stessi chiamano “L'aristocrazia del proposito”, sul modo migliore per gestire il pianeta tra le e'lite dell'Europa e del Nord America».
In altre parole, «la creazione di una rete di enormi cartelli, piu' potente di qualsiasi nazione sulla Terra, destinata a controllare i bisogni vitali del resto dell'umanita', ovviamente dal loro punto di vista privilegiato, per il bene di noi tutti, la classe inferiore o “The Great Unwashed”, come loro ci definiscono».


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it



Falcone e Faccia da mostro.


di Edoardo Montolli - 21 agosto 2010
Segreto dopo segreto, se si scorrono le vicende delle indagini antimafia alla fine si arriva sempre a un boss e a un agente segreto sfigurato.

E’ in galera dal 2001. Per otto anni aveva fatto impazzire la Dda di Palermo, che lo riteneva al centro di un traffico di droga costruito sull’asse Stati Uniti – clan dei Vernengo in Sicilia – Nord Italia. Ma per otto anni si era come volatilizzato. Scomparso. E oggi sarebbe probabilmente su una spiaggia a godersi il sole, se non si fosse fatto beccare a Chiavari per il tentato omicidio di un’ottantaduenne in cambio di 250 milioni di lire. Una storiaccia di raggiri ai danni di ricchi anziani, convinti a firmare testamenti a favore di una banda di magliari. Una storiaccia dove nessuno pensava mai che potesse finirci dentro uno del suo calibro.

Si chiama Gaetano Scotto (nella foto), boss dell’Arenella, ed è tra i condannati per la morte di Paolo Borsellino e della sua scorta. Sembra il grottesco epilogo di un killer di Cosa Nostra caduto in disgrazia. E forse è così. Forse. Di certo alla Procura di Caltanissetta stanno riscrivendo ciò che accadde nelle stragi del ’92, in una trama molto complessa: parte dal lontano fallito attentato all’Addaura a Giovanni Falcone nell’89, affronta presunte trattative tra lo Stato e la mafia, depistaggi, e personaggi che nemmeno ad uno scafato scrittore di thriller verrebbero in mente.

L’intreccio è fitto di ombre di servizi segreti deviati. Ma in questo scavare a ritroso tra fatti e 007 invisibili, si finisce sempre per incontrare lui, Gaetano Scotto, capace di mandare in tilt i cacciatori di latitanti per otto anni, ma di finire miseramente in galera per aver tentato di ammazzare una pensionata. E allora la domanda è inevitabile: chi è davvero? Per scoprirlo, forse, bisogna mettere insieme tanti piccoli pezzi di un puzzle.

Del suo passato si sa poco o nulla. Pare curasse gli interessi di Cosa Nostra in Emilia Romagna. A dargli un ruolo preciso per la prima volta è il pentito Vito Lo Forte: lo ricorda nel riciclaggio alla fine degli anni ottanta nella Svizzera degli introiti della coca. Dice che Scotto ripuliva il denaro di Gaetano Fidanzati, il ras della droga in Lombardia che aveva portato Cosa Nostra a Milano, allestendo riunioni nei bar del quartiere Lorenteggio con un nutrito gruppo di pezzi da novanta: da Pietro Vernengo a Totuccio Contorno, dai fratelli Grado a Vittorio Mangano. Roba grossa insomma. Fiumane di denaro sporco, che passava il confine per essere lavato e reinvestito. Un giro tale che, racconta lo stesso Lo Forte, fu proprio per fermare le indagini sul riciclaggio in Svizzera che venne organizzato l’attentato all’Addaura, dove Giovanni Falcone aveva affittato casa: sarebbero dovuti morire i due magistrati elvetici che indagavano, Claudio Lehmann e Carla Dal Ponte, ospiti quel giorno del giudice. In tutto questo, se e quale ruolo potesse aver avuto all’Addaura l’uomo che ripuliva il denaro della droga, Gaetano Scotto, resterà per un bel pezzo un mistero. Fino ad oggi.

Tre anni fa la madre di un poliziotto, Nino Agostino, misteriosamente ammazzato con la moglie nell’agosto del 1989, ossia tre mesi dopo il fallito attentato all’Addaura, ne riconosce la foto su un giornale: sostiene che era lui, Gaetano Scotto, a pedinare il figlio. Magari si sbaglia. Ma non è l’unica ad accostarne il nome al poliziotto ucciso: un altro collaboratore di giustizia, Oreste Pagano, racconta infatti che Scotto si vantava di aver ammazzato Agostino, reo di aver scoperto un legame tra mafia e questura.

Sembrano due storie diverse, quelle in cui l’uomo senza passato appare: da una parte il riciclaggio di soldi in Svizzera, dall’altra le voci sulla morte di un agente. Ma i magistrati hanno ora collegato l’omicidio di Agostino all’attentato all’Addaura, proprio il luogo dove, per il pentito Lo Forte, dovevano morire i giudici impegnati nel caso del riciclaggio della droga in Svizzera. Ed è qui che la strada di Gaetano Scotto si incrocia, nelle indagini, con quella di un personaggio inquietante, la cui esistenza non è mai stata provata.

Poco prima che venisse piazzato l’esplosivo all’Addaura, una donna notò nei paraggi un uomo con la "faccia da mostro". Pare che lo avesse visto pure un tizio, Francesco Paolo Gaeta, ma finì crivellato di colpi. È un uomo di cui ha parlato anche Massimo Ciancimino: un uomo delle istituzioni, dice. Ma mica se lo ricorda solo lui. Lo descriveva così anche il confidente Luigi Ilardo, che fu presto assassinato: tra le tante stranezze narrate al colonnello dei carabinieri Michele Riccio — tipo il mancato arresto di Provenzano — raccontò che c’era un agente con la faccia da mostro che si aggirava sempre in posti strani, come quando avevano ucciso proprio il poliziotto Nino Agostino. Una specie di fantasma di Stato. Un fantasma che però conoscono in tanti: lo ricordano infatti anche a casa della stesso Agostino, prima che il giovane venisse trucidato.

Non si sa chi esattamente sia, faccia da mostro. Ma ne parla infine il solito pentito Lo Forte; lo chiama il "bruciato", per via del volto ustionato. E spiega che aveva rapporti, coincidenza curiosa, con Gaetano Scatto. ll boss dell’Arenella senza passato e l’agente segreto senza nome.

A Caltanissetta gli inquirenti stanno cercando da un pezzo di capire chi sia. Intanto, hanno messo insieme alcuni pezzi del puzzle. E hanno indagato Scotto per i fatti dell’Addaura. È venuto fuori infatti che Nino Agostino, uno che aiutava, pare, i servizi segreti ad acciuffare i latitanti, si trovasse all’Addaura il giorno dell’attentato. E che lo avesse sventato insieme a un giovane in prova al Sisde, Emanuele Piazza, capace di infiltrarsi fra i mafiosi per stanarli uno a uno.

Sarebbe stato per questo che entrambi furono ammazzati: Agostino prima e Piazza poi. Quest'ultimo fu sciolto nell’acido il 16 marzo del 1990 dal picciotto Francesco Onorato: a lui infatti era stata svelata l’identità segreta di Piazza. Segreta evidentemente non per tutti. A Onorato l’aveva spifferata addirittura l’attendente di Riina, Salvatore Biondino, un tipo sempre bene informato. O quasi. Entrambi sono stati condannati come esecutori materiali dell'attentato all’Addaura, ma Biondino, quando l’avevano predisposto, si era detto sicuro: «Abbiamo le spalle coperte». Chi glielo avesse assicurato non si sa. Ma l’aspetto sinistro è che in teoria nessuno fuori dagli uffici istituzionali, tantomeno Gaetano Scotto e Salvatore Biondino, doveva sapere dei compiti di Piazza e Agostino; così come in teoria nessuno fuori dagli uffici istituzionali doveva conoscere l’allora incensurato Biondino e l’uomo senza passato dell’Arenella. Nessuno, naturalmente, tranne le talpe. Palermo non sarà Milano, ma è perennemente avvolta nella nebbia.

Prima di rivedere uscire ancora una volta il volto di Gaetano Scotto legato a un altro, sconosciuto, 007 bisogna seguire un percorso tortuoso, che parte sempre da lì, tre anni prima, all’Addaura.

"L’attentato del 1989 doveva avvenire un giorno prima del ritrovamento dell’esplosivo, il 20 giugno, quando Falcone aveva previsto di fare un bagno, e solo alla line decise con i magistrati elvetici di cambiare programma. Ma questo era noto a pochissime persone, un aspetto cruciale per capire cosa accadde". Luca Tescaroli è stato pubblico ministero per la strage di Capaci ed è convinto, come lo era Falcone, che dietro all'attentato ci fossero "menti raffinatissime". "Fu un periodo particolare sotto il profilo istituzionale. C’erano le lettere delatorie del Corvo e l’anomalia della supplenza giudiziaria dell'Alto Commissariato, che si occupò della relativa indagine. E ancora: si diffondevano notizie mai risultate vere, che intossicavano l'ambiente, come l’incontro a Palermo tra Buscetta, De Gennaro e il barone D’Onufrio, poi assassinato. Un attentato doveva di fatto impedire la cooperazione investigativa tra Falcone e i magistrati svizzeri sul riciclaggio dei soldi della droga in Italia e in America, e sull’ipotesi di alcune collusioni con particolari elementi dello Stato".

Pochi mesi dopo il fallito attentato, mentre si trova nel carcere di massima sicurezza di Full Sutton (Inghilterra) il boss Francesco Di Carlo riceve la visita, per due volte, di alcuni esponenti di servizi segreti di diversi Paesi stranieri — mai si saprà chi con precisione, nonostante le rogatorie internazionali — che gli chiedono un appoggio per ammazzare Falcone. Lui indica Antonino Gioè, all’epoca ignoto boss di Cosa Nostra, che in effetti sarà tra gli esecutori materiali di Capaci. Poco prima della strage, Gioè è protagonista di una curiosa trattativa dei carabinieri con Cosa Nostra, attraverso l’intermediazione dell’estremista di destra Paolo Bellini, per il recupero di opere d‘arte rubate. Tuttavia Gioè non può raccontare se fu contattato dai servizi segreti stranieri che incontrarono Di Carlo, se la strage di Capaci fu fatta anche con l’appoggio di uomini delle istituzioni e se fu la continuazione del progetto dell’Addaura. A dire il vero Gioè non può dire proprio più nulla. Muore impiccato in carcere poco dopo l’arresto, lasciando un bigliettino in cui scrive che Bellini era un infiltrato dello Stato. Quel che è inquietante è che, stragi a parte, una scia di morti e di tunnel sotterranei paiono collegare ancor di più la mafia allo Stato. Cosi vale anche per l’ultimo dettaglio: per tenere i contatti per la strage di Capaci Gioè adoperò dei telefoni clonati Nec P300 usando numeri ufficialmente inesistenti eppure attivati in una stranissima filiale Sip, dietro cui, secondo il consulente della Procura di Caltanissetta di allora Gioacchino Genchi, c’era una base coperta dei servizi. Nessuno ne saprà più nulla.

Le ombre dei servizi si materializzano dunque all’Addaura con faccia da mostro, nelle soffiate per ammazzare Agostino e Piazza, perfino nel carcere di Full Sutton e poi a Capaci, nell’attivazione dei telefoni clonati degli esecutori materiali. Ma è su via D‘Amelio che le ombre prendono corpo. E quando lo fanno, sono sempre alle spalle dell’uomo senza passato, il boss dell’Arenella, Gaetano Scotto.

Siamo nel luglio del 1992. Paolo Borsellino appunta le dichiarazioni esplosive del boss Gaspare Mutolo sulle collusioni istituzionali. Segna tutto su un'agenda rossa. Vede il boss l’ultima volta il giorno 17. Due giorni più tardi, una Fiat 126 imbottita di Semtex lo uccide in via D’Amelio, sotto casa della sorella. L’agenda rossa sparisce. Passano due ore. E arriva sul luogo della strage il commissario capo Gioacchino Genchi. Si sta già occupando dell'agenda elettronica e dei pc di Falcone: ha scoperto che la prima è stata cancellata e che i secondi sono stati manomessi, ma solo dal loro sequestro. È maledettamente curioso, pensa. Ma non maledettamente curioso come quanto sta per vedere. Il fumo è ancora alto. E i pompieri in azione. Si guarda intorno chiedendosi da dove i mafiosi possano aver attivato il telecomando per la strage, cosa che in effetti non si saprà mai. Osserva, gira gli occhi. Poi salta in macchina e sale sul Monte Pellegrino, punto in cui la visuale è perfetta. Lì sopra c’è il castello Utveggio. E all’interno, un centro studi per manager, il Cerisdi. Almeno ufficialmente. Genchi scopre che dentro non ci sono solo futuri dirigenti. In alcuni uffici si alternano infatti ex persone dell‘Alto Commissariato e ufficiali dei carabinieri recuperati nell'amministrazione civile, e c’é pure un centro massonico o paramassonico — spiegherà poi in aula — guidato da un funzionario della Regione Sicilia. Infine c’é un telefono perennemente collegato alla base coperta Gus, servizi segreti di Roma.

Borsellino non vedeva di buon occhio il castello, diceva alla moglie Agnese di chiudere le tende, perché non voleva essere spiato. E’ un caso sicuramente, ma dai tabulati che Genchi analizza risulta abbiano chiamato il Cerisdi pure due mammasantissima di rango, difficilmente interessati a corsi scolastici: uno é Giovanni Scaduto, killer di Ignazio Salvo. E l’altro è proprio Gaetano Scotto, il boss che lavava i soldi della droga in Svizzera, l’uomo che pedinava il poliziotto dell’Addaura Nino Agostino e che secondo un pentito si vantava di averlo ucciso. L’uomo che, un’altra voce vuole collegato all’agente segreto con la faccia da mostro.

Genchi si segna tutti i dati. Ma non ha terminato il suo compito. Ancora bisogna capire come abbiano fatto i mafiosi a sapere dell’arrivo di Borsellino a casa della sorella, per prendere la madre. E scava scava, Genchi trova altri due elementi di grande interesse: il primo è un altro telefono clonato, i cui tracciati hanno seguito quel giorno, passo passo dall'albergo di Villa Igea, il percorso di Borsellino fino in via D’Amelio. Si tratta di un telefono clonato i cui contatti appartengono allo stesso circuito del suicida Gioè. ll secondo elemento è invece un uomo, un uomo il cui nome dà da pensare. E’ un operatore telefonico della ditta Sielte, che avrebbe potuto intercettare con un’operazione rudimentale casa Borsellino. Indizi, tracce, niente di più. Ma il tipo della Sielte è uno che va avanti e indietro dalle pendici di Monte Pellegrino, uno che Genchi crede possa portarlo avanti nell’indagine. Tuttavia, dichiarerà alla Dia di Caltanissetta nel 2003, si sorprende quando il suo superiore Arnaldo La Barbera, a capo del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino sulle stragi, convoca il direttore del Cerisdi, il prefetto Verga, “palesandogli sostanzialmente l’oggetto dell’indagine” sul castello, come riferiscono Nicola Biondo e Sigfrido Ranucci ne II Patto (Chiarelettere). Da lì a poco gli strani uffici al Cerisdi vengono infatti smobilitati. E i servizi smentiranno sempre di esserci stati.

Passa poco. La notte tra il 4 e il 5 maggio del ‘93 rutto precipita: Genchi litiga furiosamente con La Barbera; gli chiede almeno di non arrestare il telefonista della Sielte o difficilmente si arriverà ai mandanti. La Barbera, dirà Genchi, scoppia a quel punto a piangere, gli spiega che diventerà questore e che per lui é prevista una promozione per meriti sul campo. Ma il commissario capo non ci sta: sbatte la porta e lascia per sempre il gruppo Falcone-Borsellino. Genchi va via. E l’operaio della Sielte viene così arrestato: si chiama Pietro Scotto, ed è il fratello di Gaetano, il boss senza passato. Pietro Scotto é uno che, ha riferito Genchi ricordando le parole del pentito Lo Forte, sarebbe stato in grado di avvertire i mafiosi quando questi finivano intercettati.

Con l’uscita di Genchi le indagini su via D’Amelio prendono un’altra strada, seguono le indidicazioni del pentito Vincenzo Scarantino, l’uomo che ammette di essere stato il ladro della 126 che poi fu imbottita di esplosivo. E’ grazie alle sue parole che viene consentito l’arresto immediato di Pietro Scotto. Scarantino diventa il punto di forza del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino, che lo ha scovato grazie a tre rubagalline che ne hanno rivelato il ruolo. Anche se qualcun altro vuole assumersi il merito di averlo scoperto: “Realizzammo una sorta di schedatura degli esponenti della famiglia Madonia. Cercammo di individuare l’officina dove l’auto venne imbottita dl tritolo. Accertammo anche i rapporti tra Scarantino, appena arrestato, e alcuni esponenti mafiosi». Sono le parole dell’ex numero tre del Sisde Bruno Contrada, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, riportate dall’Ansa al suo processo il 25 novembre 1994. Scarantino in effetti confessa; é stato lui a rubare la 126 esplosiva. Tuttavia, nonostante le schedature di Contrada, nessuno dentro Cosa Nostra pare conoscerlo, almeno come uomo d’onore. Tutti lo rinnegano, dicono anzi che una sua amante sia tale Giusy la "sdilabbrata", un trans: e un uomo d’onore non lo farebbe mai. Scarantino confessa e poi ritratta, accusando esplicitamente di pressioni l’ex capo della mobile ora al vertice del gruppo Falcone-Borsellino Arnaldo La Barbera. E’ un viavai di dichiarazioni. Alla fine Pietro Scotto viene assolto. Gaetano no: é condannato, ma solo in appello, quando ormai ha fatto perdere le tracce che verranno riprese a Chiavari.

Passano diciassette anni e scoppia il caso del killer Gaspare Spatuzza, uomo dei Graviano. Si autoaccusa del furto della 126, smentendo così in toto la ricostruzione di Scarantino, scagionando alcuni, tirando in ballo altri. Le sue tesi sono note. Buona parte del gruppo Falcone-Borsellino viene oggi indagata. Nel libro I misteri dell’agenda rossa (Aliberti) Francesco Viviano e Alessandra Ziniti riportano un documento che alla luce dei fatti appare devastante: é l'appunto di un anonimo funzionario di Stato in cui veniva suggerito ciò che Scarantino avrebbe dovuto dire. Sembra sia tutto da rifare: resta da chiedersi se si trattò di errore giudiziario o di depistaggio, anche se ben tre persone accusarono Scarantino, prima che lui crollasse.

Ma non basta. Ci sono ancora tre elementi che hanno dell’incredibile. Il primo: pare che gia all’epoca l’uomo che coordinò le indagini sulle stragi, Arnaldo La Barbera, fosse un agente dei servizi, con il nome in codice di Catullo. Il secondo elemento é il misterioso signor Franco, che avrebbe fatto da trait d’union tra lo Stato, don Vito Ciancimino e Bernardo Provenzano. Infine, il terzo elemento, ciò che più conta in questa storia e che conduce ancora una volta all’uomo senza passato. E a una frase di Spatuzza: “Mentre veniva imbottita di esplosivo la Fiat 126 nel garage, tra noi c’era uno elegante, biondino, mai visto prima”. Sembra si trattasse di un agente dei servizi, l’ennesimo. Sembra. Di certo, prosegue il killer, “parlava con Gaetano Scotto”. Sempre lui, dall’Addaura a via D’Amelio, il boss che appare e scompare a fianco di personaggi in divisa tanto improbabili quanto sinistri. Di Scotto Genchi ha tutti i tabulati. Sono chiamate che portano lontano, a medici, futuri politici, imprenditori, favoreggiatori importanti. Contatti che magari non vogliono dire niente. Perché magari erano semplici conoscenti. ll fatto strano è che nessuno li abbia mai guardati per diciotto anni. Forse perché in fondo, per stabilire la verità, c’era già Scarantino. E forse perché la storia di Gaetano Scotto è solo la storia di un killer di mafia caduto in disgrazia. Forse.

Fonte:
il mensile IL - Il machile del Sole24Ore, n° 22, 20 agosto 2010

Tratto da: 19luglio1992.com




martedì 17 agosto 2010

Tirate lo sciacquone - Marco Travaglio





Sullo sfondo del Water(closed)gate all’italiana, anzi alla monegasca, fabbricato contro Fini, si comincia a sentire un gorgoglìo di sciacquone. A tirare la catena ha provveduto la Banca d’Italia, contestando al triumviro Verdini un conflitto d’interessi su 60 milioni riciclati dalla sua banca del buco, una cosina che costringe l’informazione (dunque non il Tg1 di Minzolingua) a uscire da tinelli e mobilifici e tornare a parlare di cose serie. Ma ora si apre pure una guerra per bande fra i signorini grandi firme della corte arcoriana: Belpietro contro Feltri. Persino Prettypeter sente puzza di bruciato, o forse di qualcos’altro, nella “pistola fumante” sfoderata da Littorio per abbattere Fini: la testimonianza dell’eroico arredatore sulla cucina Scavolini destinata, secondo voci che nemmeno lui conferma, a Montecarlo. L’autorevole segugio bresciano (non bergamasco, come erroneamente abbiamo scritto domenica, del che ci scusiamo con gl’incolpevoli abitanti di Bergamo, che hanno già i loro problemi con Feltri e Calderoli) teme che l’eroico arredatore, dimessosi con la moglie dal mobilificio per parlare col Giornale, sia una reincarnazione di Igor Marini, il peracottaro che doveva dimostrare le attività tangentizie di Prodi nel caso Telekom Serbia sul conto svizzero “Mortadella”: “Temo che qualcuno sia all’opera per nascondere i guai di Fini, i quali sono seri, anzi serissimi… Non vorrei che i professionisti della polpetta avvelenata stessero provando a rifilare bidoni ai giornali impegnati in un’operazione di trasparenza, facendoli scivolare su un dettaglio per coprire di ridicolo ciò che ridicolo non è…. Suggerisco di raddoppiare i controlli…”.

Ma anche il Geniale sembra virare lontano da mobili e cucine. Da un editoriale del vicedirettore dal cognome francamente eccessivo,
Massimo de’ Manzoni, si intuisce che alla storia della Scavolini recapitata da Roma a Montecarlo non crede più nemmeno il quotidiano berlusconiano e ora prepara la ritirata con un’ipotesi davvero succulenta: “All’ultimo momento Fini e signora hanno cambiato idea, dirottando la cucina in un’altra magione”, forse perché s’erano “accorti che era troppo grande per l’appartamento di Boulevard Princesse Charlotte”. Fantastico: i due ordinano nel mobilificio romano una cucina per l’alloggio di Montecarlo, ma non portano con sé le misure e vanno a spanne, poi scoprono di averla presa troppo grande e, mentre quella è già in viaggio e corre sulle sue rotelline alla volta della Costa Azzurra, la richiamano indietro per “dirottarla in un’altra magione”. Così la Scavolini, dotata di retromarcia e servosterzo, fa inversione a U e se ne torna mestamente in patria, non prima di aver protestato coi proprietari per la mancata villeggiatura monegasca. Tutto molto credibile. Del resto chi seguita ad acquistare il Giornale, riuscendo a leggerlo e addirittura a restare serio dopo le balle su Telekom Serbia, Mitrokhin, Di Pietro, Ariosto, Veronica, Boffo, dev’essere dotato di stomaco forte e squisito sense of humour. Ora dovrà bersi le storia della cucina che vaga per l’Europa in cerca di approdo sicuro e del supertestimone che si licenzia per amore di verità.

Poi, con comodo, Fini passerà alla cassa dal povero
Paolo B., che peraltro è abituato. Quando Feltri dipinse per due anni Di Pietro come un tangentaro e poi gli chiese scusa perché non era vero niente (“Caro Di Pietro, ti stimavo e non ho cambiato idea”), Paolo gli staccò un assegno da 700 milioni. Poi il Geniale ricominciò, accusando l’ex pm di trafficare con case e finanziamenti pubblici. Balle pure quelle: altro assegno da 244 mila euro. Appena Littorio lancia una campagna, Paolo si fa il segno della croce e prepara i contanti. E’ il momento di stringersi con un comitato di solidarietà intorno al pover’ometto, al quale, quando la portinaia voleva sapere di sua madre, domandava: “Dottor Paolo, come sta la mamma del dottor Silvio?”. E’ una vita che, quando gli va male, finisce in galera al posto del fratello e, quando gli va bene, scuce. Ora basta. Nessuno tocchi Paolino.

Da il Fatto Quotidiano del 17 agosto 2010



lunedì 16 agosto 2010

Il boss Bossi (s)lega la mafia


Umberto Bossi voleva “aprire una sede in Calabria ma è arrivata subito la ‘ndrangheta”. Poteva rivolgersi alla magistratura ma evidentemente ha preferito optare per il silenzio nello stile “eroico” di Vittorio Mangano.
Umberto Bossi conferma che la Brianza è infiltrata di boss di ‘Ndrangheta. Effettivamente è assai probabile che tra Milano Monza e Como ci siano più ‘ndrine che immigrati col burqa. Alla faccia delle retate dei miei Maroni, il partito di Bossi non vedo di cosa dovrebbe preoccuparsi dopo
l’applauso di solidarietà al senatoredimissionato Nicola Di Girolamo, eletto all’estero con 25 mila schede del clan calabrese degli Arena.

A proposito di schede false la cosca calabrese dei Piromalli pare ne abbia taroccate 200 mila in favore del Pdl alleato della Lega in accordo con Marcello Dell’Utri alle elezioni del 2006, quando vinse per un pugno di mosche la coalizione dell’Unione che portò Romano Prodi ad essere eletto presidente del consiglio. E’ in corso un’inchiesta da tempo. Sarà per ciò se il boss Bossi precisa che ”I mafiosi sono da tutte le parti ma non nella Lega.” Gli auguro che il consigliere lombardo Angelo Ciocca con le sue 18 mila preferenze ottenute a Pavia (un terzo degli abitanti di Brescia dove il trota di preferenze ne na prese 12 mila), sia davvero caduto ingenuamente dal mondo paradisiaco della Padania per incontrare uno dei capi della ‘ndrangheta padana. La foto in cui il 35enne leghista è ritratto assieme al boss è finita nel faldone della maxi inchiesta che ha già portato all’arresto di 305 presunti affiliati.

Se Bossi è sicuro che la Brianza fa gola alla ‘Ndrangheta “perché si costruisce“, che impegni Maroni e le ronde padano-leghiste a scovare i presunti mafiosi tra i suoi alleati in Lombardia del Pdl, visto che in Brianza come in tutta la Lombardia governano da 15 anni assieme al fattucchiere Formigoni. E’ il boss Bossi ad insinuare che “le infiltrazioni ci sono anche in politica“. Che poi non ci siano nella Lega non è una scusante e sarà comunque tutto da dimostrare a inchieste finite possibilmente senza “processi brevi”. Consiglio al boss Bossi di non starsene con i fucili in mano prima che i milioni di padani si sveglino e scendano in piazza contro l’inciucio della Lega col partito dei clan della P2 e della P3.

http://www.danielemartinelli.it/2010/08/15/il-boss-bossi-slega-la-mafia/


Beppe Grillo: La Lega Nord canta "Bruciare il tricolore"


Gli elettori dei Ladri - Marco Travaglio


domenica 8 agosto 2010

Caro Flores, scaviamo la fossa alla Seconda Repubblica




Caro Flores d’Arcais, ho apprezzato molto la tua lettera, così appassionata e intelligente. Siamo ad un punto davvero opaco, sporco, indecente della vita pubblica italiana. Vediamo il Paese avvitarsi in una spirale di scandali, di violenze, di ricatti, di veleni. Il disegno di attacco alla democrazia costituzionale è esplicito, la cultura del bavaglio e dell’intimidazione ha camminato a lungo dentro le viscere del sistema informativo ma anche dentro l’intero spazio pubblico, il garantismo appare come la foglia di fico con cui si intendono coprire le vergogne di un regime fondato sui clan e sulle cricche, mentre per chi vive nei labirinti del lavoro subordinato e precario non esiste garanzia né garantismo possibile.

Criminali e galantuomini
Anche a Pomigliano o a Melfi funziona il bavaglio, l’operaio torna ad essere stritolato alla sua catena, come funzione neo-servile chiusa in una dimensione di solitudine totale. Un migrante è sempre potenzialmente un criminale, così va gestita la sua utilità sociale (come badante o come raccoglitore di pomodori), così va narrata mediaticamente la sua indicibile fatica di vivere e di integrarsi; mentre Caliendo, Verdini, Cosentino, Dell’Utri sono galantuomini diffamati dalla sinistra del rancore. E poi su tutto splende il sole di un Re così palesemente insofferente di controlli e controcanti, un sovrano modernamente legibus solutus, che teorizza il primato del consenso popolare su qualsivoglia norma di legge.
L’Italia è una Repubblica televisiva fondata sul sondaggio e sulla depenalizzazione dei reati dei ceti possidenti. La crisi pirotecnica di questo regime rende visibili i buchi neri e i protagonisti indecenti della fiction berlusconiana. Un fiume di fango tracima dal Palazzo mentre il severo Tremonti, dismessi gli abiti dell’inventore della finanza creativa, si trasforma nel fustigatore degli sprechi e delle spese pazze (con l’esclusione degli sprechi e delle spese pazze che servono al dio Po e alla Lega Nord).

Caro Paolo che dolore vedere il nostro Belpaese brutalizzato e umiliato! Vederlo andare alla deriva, vederlo smarrire i suoi codici civili e il suo sentimento della decenza, vedere la comunità nazionale frammentata in satrapie localistiche, vedere il lavoro regredire agli standard di una modernità ottocentesca. Si può fare qualcosa per curare queste ferite? Io penso che sia doveroso chiedere ad una grande coalizione democratica di seppellire il cadavere putrescente della Seconda Repubblica. Scaviamo subito la fossa, evitiamo che l’infezione si propaghi ulteriormente. C’è in Parlamento una maggioranza disponibile a cambiare la vigente e repellente legge elettorale? Magari, che si organizzi! C’è in Parlamento una maggioranza disposta a regolamentare in maniera seria il conflitto d’interessi? Magari, che si proceda! Mi sia consentito di dubitare di queste condizioni certo auspicabili.

Il bisogno di un orizzonte largo
Ovviamente tocca a tutti sentirsi responsabili del passaggio drammatico che stiamo vivendo. Occorre muoversi. Mobilitarsi. Una manifestazione va bene, purché sia la più ampia possibile: ma anche quella della Fiom del 18 ottobre è un appuntamento decisivo! Aprire un processo democratico, animare una battaglia culturale e politica in ogni angolo d’Italia. Ma occorre avere il respiro lungo e l’orizzonte largo. Non possiamo lottare per noi stessi e per le nostre fazioni, ma per ridare una prospettiva di futuro a questo povero Paese. Io ho molte critiche e molte obiezioni da rivolgere al Pd e in genere non taccio. Soprattutto trovo sbagliato che alla fine ingloriosa della Seconda Repubblica si replichi con ricette fresche fresche di Prima Repubblica. E poi trovo nauseante il cumulo di politicismo, di cattiva realpolitik, con quella ciclica tentazione di cercare ancore di salvezza di negozi improbabili.

Dobbiamo aiutare i democratici a non avere paura, a cominciare da quella ridicola paura per il fantasma delle primarie. Il Pd e il suo popolo sono una immensa e indispensabile risorsa per costruire il cantiere dell’alternativa, e per rimettere in campo quella cosa smarrita che chiamavamo “sinistra”. Lo dico con amicizia a Di Pietro e a quanti, fuori dal Pd, sentono la gravità del momento: non perdiamo la bussola e non perdiamo la rotta. Facciamoci carico della costruzione di un’alleanza nuova, plurale, larga, popolare, giovanile, riformatrice nella politica e innovativa nelle idee. Facciamo che ogni nostra differenza venga agìta come arricchimento, sfuggiamo alla tentazione del piccolo cabotaggio e chiediamo a noi stessi e a tutti e tutte di mettere in campo una grande narrazione. Che, con semplicità, sappia dire: c’è un’Italia migliore!

di Nichi Vendola

Da
Il Fatto Quotidiano del 7 agosto 2010