sabato 4 settembre 2010

Schifani contestato alla festa del Pd. Fassino lo difende: ''Squadristi''






Spunta una seconda lista Anemone e c’è il cognome Berlusconi - di Antonio Massari



C’è una seconda lista “Anemone”, sulla quale stanno indagando i pm di Perugia, e tra i cognomi noti ce n’è uno più noto degli altri: Berlusconi. Sulla lista manca il nome, però, e gli investigatori vogliono capire se si tratti del presidente del Consiglio oppure di suo fratello Paolo. La lista “due”, ancora una volta, riguarda i lavori effettuati dalle imprese di Anemone ed è più stringata della precedente, scoperta a maggio, che contava circa 400 nomi. Estrapolata dal computer del commercialista di Diego Anemone, Stefano Gazzani, l’elenco comprende un centinaio di persone, tra le quali ricompaiono l’ex ministro Claudio Scajola e la dicitura “via del Fagutale”, dove l’ex ministro aveva preso la casa con vista Colosseo – quella pagata in parte dall’architetto Angelo Zampolini per conto di Anemone. C’è anche il generale della Guardia di Finanza, ai vertici dell’Aisi fino a pochi mesi fa, Francesco Pittorru.

Paolo o Silvio? Una lista più criptica della precedente poiché, accanto ai nomi, mancano i riferimenti agli importi e alle date dei lavori effettuati. E sulla quale, gli inquirenti, lavorano ormai da mesi. È presto per dire se, e quanto, possano essere coinvolti Silvio o Paolo Berlusconi nell’inchiesta sulla “cricca” che gestiva i “grandi eventi” disposti dalla Protezione Civile. Di certo c’è soltanto che, tra i beneficiari dei lavori del principale indagato, Diego Anemone, ora si scopre anche un Berlusconi. Sul punto, i pm Sergio Sottani e Alessia Tavarnesi, intendono fare chiarezza al più presto. E non soltanto su questo: la procura di Perugia, che ha ormai ripreso il suo lavoro a pieno ritmo, ha affidato alla Guardia di Finanza il compito di fare luce su almeno altre due operazioni sospette.

Assegni sostanziosi La prima riguarda Pasquale de Lise, oggi presidente aggiunto del Consiglio di Stato, alta carica istituzionale ottenuta proprio nel bel mezzo dell’inchiesta, nel giugno 2010, quando il suo nome (insieme con quello di suo genero Patrizio Leozappa) era già comparso, negli atti d’indagine, come particolarmente vicino a Balducci, l’ex presidente del Consiglio dei lavori pubblici, accusato di corruzione – sotto processo tra un mese – proprio per gli affari legati alla “cricca”. C’è un fatto nuovo, scoperto in queste settimane, che sta aprendo nuovi scenari nelle indagini di Perugia: un assegno da ben 250mila euro, versato a de Lise, nell’estate 2009, quindi in tempi piuttosto recenti che combaciano, soprattutto, con i mesi caldi dei lucrosi affari messi in moto da Anemone e Balducci sui Grandi eventi della Protezione Civile. A suscitare l’interesse degli inquirenti, oltre il sostanzioso importo, è anche il firmatario dell’assegno: una facoltosa persona della Capitale, il cui nome è ancora coperto dal segreto istruttorio. Sul genero del giudice, Leozappa, gravano altre quattro operazioni sospette. Il punto è che Leozappa sembra un ulteriore punto di “contatto” tra de Lise e la “cricca”. È lo stesso Gazzani che, interrogato da Sottani e Tavarnesi, risponde: “Ho avuto contatti con l’avvocato Leozappa, inizialmente mi aveva chiesto di costituire una società, per costruire su alcuni terreni, in prossimità della centrale del latte”. “Ha avuto contatti con Leozappa – domandano i pm – per ‘sistemare’ qualcosa per conto di Balducci?”. “Balducci – risponde Gazzani – mi chiese di effettuare verifiche all’interno delle società dove vi era stata una cointeressenza tra Balducci e Anemone (…). Leozappa agiva per conto di Balducci nel chiedermi questa cosa”.

“Il capo” è in casa? Ma anche de Lise è in contatto con Balducci, come dimostrano le indagini dei carabinieri del Ros di Firenze, nelle 20mila pagine d’informative e intercettazioni. Secondo il Ros, nell’epoca in cui era presidente del Tar Lazio, Pasquale de Lise era in contatti stretti anche con l’imprenditore Diego Anemone. Se non bastasse, il 4 settembre 2009, è proprio il giudice a chiamare Balducci. Vuole fargli vedere un documento. E prima di riattaccare accenna a un provvedimento del Tar Lazio. In quei mesi, proprio dinanzi al Tar, pendeva un ricorso – firmato dall’associazione Italia Nostra – sui lavori per i Mondiali di Nuoto e sul Salaria Village, entrambi oggetto d’indagine, proprio per le vicende della “cricca”.

Ed è proprio su segnalazione di suo genero, Patrizio Leozappa, che de Lise si sarebbe mosso per qualcosa: “Patrizio mi aveva parlato di quella cosa – dice – ma quella non stava né in cielo né in terra… quindi insomma… e appunto… io l’ho seguita un po’, quella storia là… ma non… eh… appunto… assolutamente”. Balducci ringrazia. E anche Leozappa, successivamente, riceve la sua fetta di complimenti – questa volta da Diego Anemone – commentando: “Eh, io il mio lo faccio”. Nelle informative del Ros, inoltre, Balducci chiama Leozappa chiedendogli se “il capo” fosse a casa. E il “capo”, secondo gli investigatori, potrebbe essere proprio de Lise. E quindi: posto che l’assegno da 250mila euro non arriva da un componente della “cricca”, i pm ora cercano di capire il motivo di questo ricco versamento, da ben 250mila euro, finito nelle casse del giudice. Grandi eventi spa Agli affari delle Grandi Opere, e della Protezione Civile, si sarebbe infine interessata anche la ministra del Turismo Michela Brambilla che, per qualche momento, avrebbe pensato di costituire un dipartimento apposito. L’ipotesi emerge da un’intercettazione: la telefonata, che parte dalla segreteria del ministero di Scajola, è indirizzata a Balducci. Dalla segreteria di Scajola giunge una notizia: c’è l’interesse della Brambilla per il settore Grandi Eventi. E la risposta di Balducci è netta: meglio lasciar perdere – questo il suo senso, in sintesi – perché potrebbero indispettire sia il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, sia il Capo della Protezione Civile,
Guido Bertolaso
, entrambi molto sensibili all’argomento.



venerdì 3 settembre 2010

Di Pietro superstar alla festa del Pd, Marini fischiato su Casini e Dell'Utri (01/09/2010)



Così, a occhio, pare che la base del Pd tra Franco Marini e Di Pietro non è che stia esattamente con l’esponente e senatore del suo partito.

(poi, sia chiaro, la politica non si fa con l’applausometro; ma la differenza di gradimento tra i due è impressionante).


http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/09/03/hanno-fatto-la-festa-al-senatore-del-pd/



L’affarone di Tremonti - di Redazione Il Fatto Quotidiano




Un palazzo di Milano ceduto da Zunino sull'orlo del fallimento. L'Immobiliare Crocefisso, di cui il ministro dell'Economia è azionista di maggioranza, paga 7,5 milioni di euro. Ma nel 2005 il bene valeva 10 milioni

Il palazzo, quattro piani in tutto nella centralissima via Clerici, a poche decine di metri dalla Scala e dal Duomo di Milano, era in vendita ormai da anni. Luigi Zunino, il furbone del mattone assediato dai debiti, cercava disperatamente un compratore, qualcuno pronto a mettere sul piatto una decina di milioni in cambio di quella casa d’epoca nel cuore della City milanese. Alla fine l’acquirente è arrivato. Ha tirato sul prezzo e si è aggiudicato l’immobile alla pur sempre rispettabile cifra di 7,4 milioni di euro.

Fin qui niente di strano. Quello concluso nel giugno dell’anno scorso nello studio del notaio
Ciro De Vincenzo sarebbe rimasto un affare come tanti, roba da commercialisti e addetti ai lavori, se non fosse che il fortunato compratore è un ministro della Repubblica. Già, perché l’azionista di maggioranza dell’Immobiliare Crocefisso, fresca proprietaria del palazzo di via Clerici, si chiamaGiulio Tremonti.
Pare difficile che il tributarista, professore universitario nonché mente economica del governo
Berlusconi, scelga di trasferirsi armi e bagagli in quelle stanze. Ma il palazzo che fu di Zunino potrebbe rivelarsi un ottimo investimento. Di quelli destinati a rivalutarsi negli anni e a fruttare parecchio in termini di affitti. Cinque anni fa, nel 2005, la casa era stata promessa in vendita aDanilo Coppola, un altro immobiliarista a quei tempi in grande ascesa. Ma il prezzo, allora, era stato fissato a 10 milioni di euro.

Niente da fare. L’operazione non andò in porto. Coppola di lì a poco è finito in prigione. Poi è arrivato Tremonti, che ha spuntato uno sconto del 25 per cento da un venditore con l’acqua alla gola. Insomma, un gran business per il ministro, che ha dimostrato uno straordinario fiuto per gli affari.
Per non parlare della scelta di tempo. Davvero eccezionale. Addirittura sospetta, maligna qualche operatore immobiliare a Milano e dintorni. Perché a luglio del 2009, giusto un mese dopo la cessione a Tremonti della casa di via Clerici, la procura di Milano è partita all’attacco di Zunino chiedendo il fallimento della Risanamento, la sua holding quotata in Borsa. E il crack di quest’ultima avrebbe travolto tutta la galassia societaria del palazzinaro ex rampante, famoso tra l’altro per il progetto (rimasto in gran parte sulla carta) del nuovo quartiere milanese di Santa Giulia.

Quindi, con il senno di poi, si può dire che l’affare di via Clerici ha rischiato seriamente di andare in fumo. Con Tremonti costretto a fare marcia indietro e l’immobiliarista in crisi alle prese con i cocci del suo impero fondato sui debiti. Per capire meglio vediamo qualche data. L’11 giugno 2009 viene siglato il rogito. Nel ruolo di venditore troviamo la Nuova Parva, una società personale di Zunino. A comprare invece è l’Immobiliare Crocefisso, di cui Tremonti – oltre che socio di maggioranza – risulta anche amministratore, un incarico da cui si è autosospeso da quando, a maggio del 2008, è tornato sulla poltrona di responsabile dell’Economia. Il 16 di luglio arriva il siluro della procura. I pm
Laura Pedio e Roberto Pellicano chiedono il fallimento di Risanamento.

In sostanza, indagando su alcune vicende in cui erano coinvolte società di Zunino (fondi neri sulle bonifiche ambientali, buchi di bilancio di Banca Italease), i magistrati arrivano alla conclusione che il gruppo immobiliare, con oltre 3 miliardi di debiti al passivo, non è più in grado di vivere di vita propria. Peggio: a tenerlo in piedi sarebbero grandi creditori come Intesa e Banco Popolare con l’obiettivo di evitare un crack dalle conseguenze potenzialmente disastrose, non solo per Zunino ma anche per i banchieri che per un decennio e più lo hanno generosamente finanziato.

Siamo a fineluglio del 2009: l’ultima parola sulla richiesta di fallimento spetta al tribunale di Milano. Se l’istanza dei pm venisse accolta, per il gran capo di Risanamento sarebbe un disastro, ma anche Tremonti nel suo piccolo non se la passerebbe bene. Crollata la holding quotata in Borsa, sarebbe presto andata a fondo anche la Nuova Parva, che ne controllava oltre il 30 per cento del capitale. Risultato: la vendita del palazzo di via Clerici sarebbe con ogni probabilità andata incontro a un’azione revocatoria.

Un’azione, quest’ultima, prevista dal codice civile per una serie di atti disposti dall’imprenditore insolvente (in questo caso Zunino) nell’arco dei dodici mesi precedenti alla dichiarazione di fallimento. Per Tremonti, costretto da un giudice a restituire il palazzo d’epoca appena acquistato, sarebbe stato un autogol clamoroso. Ma la suspence dura solo qualche mese. Zunino e le banche fanno fronte comune contro l’attacco dei pm. Affiancati da uno stuolo di avvocati e consulenti dalle parcelle milionarie, l’immobiliarista e i suoi creditori si oppongono alla richiesta di fallimento a suon di memorie difensive.

Il tribunale prende tempo. C’è un batti e ribatti con la procura. Alla fine però, il 10 novembre, arriva il verdetto: Risanamento non deve fallire. Il salvataggio verrà gestito dalle banche creditrici con un piano sottoposto all’approvazione dei giudici. Zunino esce di scena. Vincono i banchieri. E Tremonti può tenersi il suo palazzetto, congratulandosi con se stesso per l’ottima scelta di tempo.




Berlinguer, chi era costui? - Marco Travaglio



Signornò, da L'Espresso in edicola


Come se non ci fosse abbastanza confusione sotto i cieli della politica, giunge a proposito la polemica di mezza estate intorno a
Enrico Berlinguer. L’ha innescata quel diavolo di Tremonti, elogiando i suoi “scritti del 1977 sull’austerity”. Tarantolata come il vampiro dinanzi all’aglio, la sempre equilibrata sottosegretaria Stefania Craxi ha versato litri di bile sul ministro dell’Economia del suo governo in una lettera al Corriere della sera: “Berlinguer non credeva una parola (sic, ndr) di quello che scriveva”, il suo “Pci ha sempre rappresentato il partito della spesa”, poi fu “messo ko da Craxi” e allora “inventò l’austerità e il moralismo per nascondere l’isolamento in cui la sua fobia verso i socialisti aveva condotto il Pci”.

L’indomani
Emanuele Macaluso le ha ricordato qualche data che, nella fretta, le era sfuggita: “Berlinguer pronunciò quel discorso il 16 gennaio 1977, quando Craxi era segretario del Psi da soli sei mesi” e nemmeno volendo avrebbe potuto metterlo ko. Intanto però un’altra autorevole vestale del socialismo, Fabrizio Cicchitto, aveva scritto alla Stampa per associarsi alla Craxi e dissociarsi da Tremonti. A suo dire, Berlinguer “cavalcò la questione morale, poi tradotta dai suoi eredi in giustizialismo, malgrado il Pci fosse finanziato irregolarmente dal Pcus e altre fonti eterodosse” e “negli anni '70 spingeva per forti aumenti di spesa pubblica”. Altro che austerity. Parola di un signore che, grazie alla tessera P2numero 2232, di finanziamenti eterodossi dovrebbe intendersi un bel po’.

Ma la leggenda nera di Berlinguer capo del “
partito della spesa”, antiquato e passatista, messo ko dal più “moderno” Craxi è molto diffusa anche a sinistra. Basti pensare alle corbellerie pro-Craxi e anti-Berlinguer pronunciate in questi anni da Fassino, D’Alema, Violante e Veltroni. La storia insegna l’opposto: negli anni '70, compresi i due del compromesso storico, il debito pubblico era sotto controllo: 50-60% del Pil. Fu negli anni '80, col Caf al governo e il Pci all’opposizione, che balzò al 120: il maggior incremento lo registrò proprio nei quattro anni del governo Craxi (dal 70 al 92%). Il ko di Craxi a Berlinguer, poi, è pura barzelletta. Se l’ex Pci sopravvisse alla Prima Repubblica, lo deve essenzialmente al ricordo di Berlinguer, unico leader della sinistra rimasto nel cuore degli italiani. Intanto il Psi veniva annientato dalle ruberie craxiane. E ora quel poco che ne resta è annesso al Pdl, dove la signora Craxi siede comodamente in poltrona, scambiando Storace per Turati e la Santanchè e la Mussolini per la Kuliscioff. Significativamente il dibattito su Berlinguer è circoscritto entro i confini del Pdl. Il Pd ha altro da fare: perso per strada Tony Blair, faro dei “riformisti” nostrani (dopo i trionfi irakeni ed elettorali, ha appena fondato una banca per super-ricchi), si accapiglia intorno a un rovello epocale: invitare o no alla sua festa il leghista Cota? Vivo entusiasmo nella base.



Nichi Vendola parla della situazione politica italiana





E' affascinante, lo approcci con scetticismo, poi, ascoltandolo, come dice un'amica, lo abbracceresti!


martedì 31 agosto 2010

Processo breve targato Pd. - Bruno Tinti




Ma è possibile che il Pd, quando si parla di giustizia e di cosiddette riforme, non ne imbrocchi una che è una?
Riforma delle intercettazioni: il progetto Mastella (dal nome del ministro piazzato dal Pd – non da B&C – sulla poltrona di via Arenula) riscosse l’applauso di tutti i delinquenti del Paese e in particolare di quelli che sedevano in Parlamento. Processo breve: il copyright di questo balordo salvacondotto ai malfattori più ricchi e sofisticati (un processo per rapina, omicidio o traffico di droga è sempre “breve”, quelli lunghi sono i processi per frode fiscale, corruzione, insider trading, falso in bilancio e così via) appartiene di diritto al Partito democratico che nel 2004 presentò un disegno di legge sulla stessa materia. Sicché oggi dà un po’ fastidio dover riconoscere che il ministro Alfano non ha tutti i torti quando si lamenta di tutte le critiche che piovono sul “suo” processo breve da parte di chi, tutto sommato, ne aveva proposto uno più o meno uguale.

È per questo che qualcuno dovrebbe spiegare al Pd che accanirsi sull’unica norma ragionevole contenuta nel progetto Alfano non è molto intelligente. Dice dunque il Pd che non va bene che la nuova legge si applichi ai processi già in corso, per reati commessi prima del 2 maggio 2006 e puniti con pena inferiore a 10 anni: norma fatta apposta per impedire il
processo Mills ed evitare che B. venga ufficialmente dichiarato colpevole di corruzione.
Naturalmente nessuno si sogna di contestare che questo sia l’unico scopo di questa legge, ripescata alla vigilia della dichiarazione di incostituzionalità del ponte tibetano, il legittimo impedimento che sempre lo stesso scopo aveva, impedire che B. venisse dichiarato colpevole etc etc. Ma il punto è che, se B. non ci fosse (però, come sarebbe bello!), questa norma sarebbe l’unica ragionevole tra quelle che compongono il
disegno di legge Alfano. Che senso ha celebrare processi per reati che si prescriveranno con certezza prima che sia possibile arrivare al processo d’appello? E che senso ha celebrarli quando la pena che dovrebbe essere presumibilmente inflitta sarebbe vanificata dall’indulto, provvedimento scellerato approvato da tutti i partiti (al solito non dall’IdV), che grida vendetta ma che, ormai, lì sta e nessuno può eliminarne gli effetti?

Se le molte teste competenti di diritto che militano nel Partito democratico venissero consultate prima di stabilire le strategie dell’opposizione in materia di giustizia, sarebbe agevole contestare al ministro Alfano che, sì, è vero, anche il Pds (allora si chiamava così) aveva progettato un processo breve; ma che questo era molto diverso dalla
scappatoia pro B. su cui ora la maggioranza ricatta il Paese: fiducia o elezioni.
Si potrebbe ricordare al ministro e ai cittadini (le cose basta spiegarle in maniera chiara) che in quel disegno di legge si imponevano
tempi certi per celebrare i processi ma che non si calcolavano le interruzioni del processo dovute alle richieste di rinvio per impedimento dell’imputato o del difensore e nemmeno quelle rese necessarie dalle rogatorie internazionali (durano anni e il giudice italiano non ha nessun modo per sollecitarle), dalla mancata presentazione dei testimoni e dalla necessità di rintracciarli e farli accompagnare in aula. Insomma si potrebbe ricordare che il progetto del Pdssanzionava con la morte del processo (e le conseguenti responsabilità disciplinari) l’inerzia del giudice, la sua incapacità organizzativa, l’eventuale pigrizia; ma che teneva conto delle interruzioni, inevitabili in ognidibattimento, per assumere le prove necessarie per decidere.

Ma c'è di più. Il Pd potrebbe ricordare che il suo rigoroso progetto fu, all’epoca, snaturato dalla destra, che pretese, per concedere il suo appoggio al disegno di legge, che le interruzioni eventualmente necessarie per l’acquisizione delle prove non fossero incluse tra le cause legittime di
sospensione del processo. Per dire, se l’imputato offriva al pubblico ufficiale da lui corrotto un bel soggiorno alle Barbados, così questi si rendeva irreperibile e non si presentava a testimoniare, il tempo necessario per accertare dove quello era finito e per costringerlo a venire in aula non interrompeva i termini per la morte del processo. L’accordo, per la verità scellerato, fu concluso; ma il progetto non ebbe seguito per la caduta del governo.

Tutto questo dimostra alcune cose molto preoccupanti, perfino più del processo morto su cui si giocano le sorti della legislatura:
1) Oggi l’opposizione è così poco efficace nella critica al salvacondotto di B. perché evidentemente ha la
coda di paglia;
2) l’aspirazione del Pd a un dialogo costruttivo per riforme condivise viene da lontano;
3) i disastrosi risultati di questo metodo non hanno insegnato niente.


da Il Fatto Quotidiano, 31 agosto 2010