domenica 26 giugno 2011

Lucca, la corruzione nel Pdl e il megaprogetto edilizio. - di Ferruccio Sansa.


Arrestati un assessore, un costruttore e un dirigente comunale. Indagato anche il sindaco Favilla. Per spingere il sovrintendente amico anche una gita a Roma dai consiglieri di Frattini e Bondi. Nelle intercettazioni anche il ruolo del Pd.


Il sindaco Pdl di Lucca, Mauro Favilla, in missione a Roma dai consiglieri dei ministri Frattini e Bondi. Con Favilla c’è “il nostro aspirante sovrintendente”, un funzionario pubblico favorevole a un mega-progetto edilizio sponsorizzato dal Comune. E dopo poche settimane ecco assessori e imprenditori che brindano alla nomina del nuovo Sovrintendente. È tutto nelle 110 pagine dell’ordinanza che ha disposto l’arresto dell’assessore Marco Chiari (Pdl) accusato di corruzione, di un dirigente comunale e del noto imprenditore toscano Giovanni Valentini (ai domiciliari). Nell’inchiesta sono indagati anche il sindaco Mauro Favilla (che le cronache dicono vicino a Marcello Pera) e l’assessore alle Finanze Giovanni Pirami.

Non è una piccola Tangentopoli di provincia. Dopo il terremoto dell’indagine sulla caserma dei Marescialli di Firenze si ripropone pari pari il modello G8: a Firenze, secondo i pm, era statoRiccardo Fusi a conquistare al Provveditorato alle opere pubbliche la nomina dell’ingegner Fabio De Santis, favorevole ai suoi progetti, grazie all’intervento dell’amico Denis Verdini e di Altero Matteoli. Stavolta, stando ai pm, è il sindaco Favilla che va a Roma insieme con Francesco Cecanti (non indagato) che viene presentato come “il nostro aspirante Sovrintendente”. Così ci si sbarazza diGlauco Borella, funzionario che al mega progetto non si voleva rassegnare.

L’ennesima inchiesta giudiziaria su un’amministrazione Pdl pone anche interrogativi sul ruolo del Pd e suscita curiosità sulla Curia con il vescovo (“era contentissimo”) che riceve i costruttori poi arrestati per studiare le opportunità edificatorie dei suoi terreni. Un’indagine che tocca perfino la magistratura: con l’arresto di Andrea Ferro, figlio del presidente del Tribunale di Lucca (non indagato) che, preoccupato come padre, avrebbe chiesto ai colleghi pm “dettagli sull’accusa”.

L’ha detto pochi giorni fa Antonio Di Pietro: le mazzette non esistono più. Oggi i pagamenti arrivano con le consulenze. E i magistrati di Lucca lo scrivono esplicitamente: “Dietro formali pagamenti di parcelle a compenso di prestazioni d’opera di professionisti si concretizza una sistematica condotta corruttiva”.

L’indagine condotta dal pm Fabio Origlio, come ha ricordato Il Tirreno, ruota intorno a due megaprogetti: 200 appartamenti e palazzi da 7 piani nella zona di Sant’Anna e il rifacimento dello stadio. Scrive il gip: “Maurizio Tani, dirigente del Comune, redigeva una relazione approvata dal consiglio comunale, ove falsamente attestava l’esistenza di un quantitativo di superficie” destinata all’edilizia residenziale “superiore di 134.675 metri quadrati a quello massimo consentito dal Piano Strutturale”. Insomma, secondo i pm, un regalo da decine di milioni. L’attività corruttiva dell’assessore Chiari invece sarebbe consistita “nella sua completa disponibilità nei confronti delle istanze del Valentini per favorire gli interessi della società Valore spa (anch’essa sotto inchiesta) e contribuire a risolvere grazie al suo ruolo pubblico gli ostacoli politici e amministrativi”. I pm sostengono che “per la sua attività Chiari (che di professione fa il geometra, ndr) conseguiva compensi per almeno 40 mila euro relativi a incarichi professionali legati all’accatastamento di immobili della Valore spa e promesse per altri incarichi professionali formalmente impartiti a terzi”, Andrea Ferro, appunto.

Ma la rete dei carabinieri raccoglie tanti pesci. Interessanti i passaggi sui rapporti tra le imprese e la minoranza di centrosinistra in vista di un voto favorevole al progetto. Certo, le scelte dell’opposizione potrebbero avere motivi leciti: un nuovo stadio, il consenso dei tifosi. Però il centrosinistra qualche chiarimento dovrà darlo. Valentini al telefono parla dei rapporti con le cooperative legate al centrosinistra: “Ci hanno chiamato da Unicoop perché vogliono in tutti i modi che noi si dia la “prelazione” sullo stadio… Io legherei anche le due cose… vorrei dirglielo… guardate che politicamente potete fare un’operazione da fine del mondo, cioè se la Lega (cooperative, ndr) si presenta a Lucca facendo questo tipo di operazioni oltretutto in viale Einaudi (altro progetto che sta a cuore a Valentini, ndr) io ho edilizia convenzionata, no?”. I magistrati annotano: “Emergono sempre più chiaramente le rinnovate volontà di Valentini di collaborare con le cooperative”.

Ma le telefonate mostrano anche “gli accordi tra il consigliere comunale Pd Andrea Tagliasacchi e il costruttore Valentini… relative alla variante urbanistica dello stadio”. Tagliasacchi (intercettato, ma non indagato) ne parla con il suo capogruppo Alessandro Tambellini: “Voglio capire come si fa ad andare avanti con una posizione pregiudiziale…”. Poi una frase sibillina di Tagliasacchi: “Perché ci si taglia tutti i ponti, poi non si va da nessuna parte…”. Valentini al telefono si spinge oltre: “Perché ho fatto in modo che passasse un ordine del giorno che li coinvolge nella formulazione della convenzione e del progetto… l’opposizione va coinvolta”. Alla fine, il centrosinistra si asterrà, per la gioia del costruttore. Ma gli investigatori studiano soprattutto un’intercettazione del 23 dicembre 2010 tra Giovanni Valentini e il figlio Marco (non indagato) su un incarico che la sua società dovrebbe attribuire a Tagliasacchi (Pd). Il padre sbotta: “Tagliasacchi non è un architetto! Forse non hai capito che sto dicendo”. Figlio: “E allora che incarico gli dai? Paesaggista?”. Padre: “Lo sai chi è Tagliasacchi?!!!”. Figlio: “È l’opposizione”. Padre: “E allora che vuol dì?”. Ma il figlio non vuol capire: “È la maggioranza che comanda e te lo dai anche all’opposizione?”. Il padre perde le staffe: “Capito mica! Non sa mia che vuol dire questo”. Pare che la consulenza al consigliere Pd non sia arrivata. Ma l’inchiesta, se travolge il Pdl, tocca (pur non penalmente) tutto il potere di Lucca. E potrebbe essere solo il primo capitolo: c’è da chiarire il grande affare della Manifattura Tabacchi, 50 milioni di lavori che il comune diede in mano a Fabio De Santis. L’uomo arrestato nelle indagini sulla Cricca.


Una zattera in tempesta senza timoniere. - di EUGENIO SCALFARI


I RIFIUTI di Napoli.
La manovra fiscale da quarantacinque miliardi.
La speculazione contro le banche e contro il debito sovrano.
La P4 di Bisignani.

Sono queste le questioni attorno alle quali si stanno riposizionando le figure del teatro politico con una differenza rispetto al passato: non sono più le ideologie a guidare i loro movimenti, ma problemi estremamente concreti e un nuovo vento che ha trasformato i modi di sentire degli italiani.

L'ipnosi in cui da alcuni anni erano caduti è terminata, si sono risvegliati dall'indifferenza e non danno più retta alle promesse: vogliono i fatti e li vogliono subito.

Questo positivo risveglio non è tuttavia privo di rischi e pericoli. La soluzione di problemi complessi e antichi non si improvvisa, l'epoca dei miracoli è finita, non esistono bacchette magiche. I risvegliati debbono partecipare con tenace intelligenza alla costruzione della nuova società; è giusto che chiedano fatti e non parole, ma i fatti non cadono dal cielo, sono le tappe d'un percorso e d'un impegno.

I risvegliati debbono contribuire alla costruzione di quel percorso e garantire il loro impegno, altrimenti il vento nuovo si affievolirà, tornerà la bonaccia e l'indifferenza, l'attesa di improbabili miracoli e d'una nuova figura carismatica che si proponga come l'ennesimo uomo della provvidenza.

Non esistono uomini della provvidenza se non nella fantasia di sudditi che si rifiutano di diventare cittadini.

Le esperienze antiche e recenti dovrebbero averci insegnato che il popolo sovrano esiste soltanto se la sovranità viene esercitata ogni giorno, da tutti e da ciascuno, operando al meglio nel proprio privato e partecipando alla costruzione del bene pubblico. Se il vento nuovo servirà ad infonderci questi sentimenti e questi comportamenti, il risultato ci sarà.

Berlusconi è sempre più cupo e si rende conto sempre meno di quanto sta accadendo nel Paese e intorno a lui. Bossi versa in analoghe condizioni. Sono i due capi della maggioranza parlamentare ma hanno perduto lucidità e credibilità, avvinti da un comune destino. "Simul stabunt simul cadent".

Maroni lo dice ormai apertamente. Lo dicono Casini e Fini. Lo dice Bersani e perfino Bisignani lo dice con i suoi mille interlocutori.

Tra le cause dell'umor nero del Cavaliere quella più dolorosa per lui è stata la scoperta dei veri sentimenti che i suoi più fedeli sostenitori nutrono nei suoi confronti. Le conversazioni di Bisignani con ministri e ministre, dirigenti di partito, giornalisti a stipendio, manager di enti pubblici, sono state altrettante coltellate per lui che aveva lanciato il partito dell'amore.

In realtà non l'ha mai amato nessuno; le profferte di fedeltà intrise di amorosi sensi erano una mascheratura per ottenere benefici, carriere, ricchezza, potere. La sua cupezza proviene soprattutto dall'aver scoperto questa realtà. Pensava di rappresentare un Paese, un'ampia cerchia di fedeli, un gruppo di innamorati. Si ritrova solo, intrappolato, irriso. E quindi disperato. Ma ancora indispensabile per la cricca.

La cricca si è divisa in gruppi e gruppetti. Se lui facesse adesso il passo indietro la guerra civile si scatenerebbe
all'interno del berlusconismo.

Perciò se lo tengono stretto in attesa di nuovi equilibri. Ma quali? Si tratta in realtà di una zattera sconquassata, senza più timoniere né timone, a bordo della quale c'è il governo d'un Paese che è ancora uno dei dieci più importanti paesi del mondo.

Questa è la nostra sciagura, dalla quale prima usciremo meglio sarà per tutti.

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Il tema dei rifiuti di Napoli ha soverchiato tutti gli altri negli ultimi tre giorni sebbene sia un fatto locale, limitato ad una città e ad una provincia.

Per consentire il trasferimento provvisorio dell'immondizia napoletana in attesa che entrino in funzione gli altri necessari meccanismi previsti dal sindaco de Magistris, è necessario un decreto del governo che superi i contrasti locali e imponga alle Regioni una solidarietà nazionale che altrimenti non si manifesta. Ma la Lega si è messa di traverso, non vuole il decreto e non lo voterà in Consiglio dei ministri né in Parlamento. Calderoli ha parlato a nome di tutto il partito e ha messo nero su bianco il no leghista.

Nel frattempo il Presidente Napolitano ha fatto urgente appello a tutte le parti in causa e in particolare al governo affinché scongiuri attraverso apposita decretazione d'urgenza una calamità sanitaria che avrebbe conseguenze incalcolabili. Ma la Lega non ha cambiato atteggiamento e questa è la ragione che ha fatto balzare i rifiuti napoletani a problema numero uno. Poiché Pontida ha registrato una generale insoddisfazione del movimento leghista e poiché quel partito è dilaniato da una guerra intestina che si svolge ormai alla luce del sole, l'unico modo per superare la difficoltà è quello di alzare al massimo i toni dello scontro. Sembra che Berlusconi risponderà a muso duro ai "niet" di Calderoli anche se il decreto sui rifiuti si limiterà allo stretto necessario.

Restano tre giorni di tempo per vedere se ancora una volta la Lega, dopo aver abbaiato, tornerà a cuccia oppure voterà effettivamente contro il governo di cui fa parte.

Ma nel frattempo incalza l'altro tema fondamentale, quello della manovra fiscale che sta massimamente a cuore della Lega e non soltanto di essa. Sta a cuore ai lavoratori e alle loro organizzazioni sindacali, alla Confindustria e alle imprese, alle famiglie, al lavoro in tutte le sue forme. Sta a cuore alle agenzie di rating, ai mercati, alle banche, all'Europa. E sta a cuore - ovviamente - a Giulio Tremonti che su quel tema e su quella politica gioca la sua credibilità e la sua carriera.

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La Lega vuole ottenere un allentamento del rigore fiscale che premi soprattutto le aziende della Lombardia e del Nordest, i lavoratori autonomi, le infrastrutture padane e le finanze dei Comuni virtuosi. Ma anche l'opposizione vorrebbe provvedimenti che favoriscano la crescita, fermo restando il rigore e i vincoli di stabilità. Il punto di riferimento di questa politica è il discorso che Mario Draghi pronunciò il 31 maggio scorso nel salone della Banca d'Italia: liberalizzazioni, tagli della spesa mirati e selettivi, doppio pedale di rigore e di rifinanziamento della crescita.
Le differenze tra le richieste della Lega e le proposte dell'opposizione sono quelle che passano tra politica nazionale e interessi localistici.

L'opposizione vorrebbe iniziare un percorso che parta da una diversa distribuzione sociale del carico tributario. La Lega privilegia invece una diversa distribuzione geografica. Tra queste due concezioni la differenza è molto elevata tanto più che l'opposizione accetta il paletto tremontiano delle riforme a costo zero mentre per la Lega (ed anche per Berlusconi) il costo zero è un intralcio e nient'altro.

Tremonti sembra più vicino alle tesi dell'opposizione che a quelle leghiste anche se tenda a collocare la crescita e le relative riforme che la rendano possibile in una prospettiva di tre-quattro anni. Rifugge da interventi immediati che scontentino alcune fasce sociali a beneficio di altre; è scettico su una ripresa dei consumi e non vuole dissipare risorse per obiettivi illusori.

Se vogliamo trarre una prima conclusione da questa analisi diciamo che Berlusconi, Bossi, Tremonti sono tutti e tre in una condizione di estrema solitudine politica, con una differenza: i primi due possono esser rimossi dai loro attuali incarichi senza conseguenze catastrofiche, il terzo è per ora inamovibile a meno di non far ricorso a nomi che diano all'Europa e ai mercati garanzie di tenuta e credibilità. Viene in mente Mario Monti. Purtroppo altri non se ne vedono.

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Che cosa rappresenta il caso Bisignani, esploso proprio mentre è in atto un positivo risveglio della coscienza nazionale? Il caso Bisignani è l'epilogo d'un regno, d'un costume, d'una devianza strutturale purtroppo non nuova per la società italiana.

Qualcuno ne trae argomento per suggerire la legalizzazione delle "lobbies", ma non si tratto di questo. Il sistema Bisignani non è una "lobby", non tutela alla luce del sole un interesse specifico e legittimo.
Il sistema Bisignani è la messa in comune di informazioni riservate d'ogni genere, provenienti da fonti d'ogni genere, utilizzabili per raggiungere obiettivi d'ogni genere.

Le informazioni riguardano procedimenti giudiziari, appalti, nomine nel governo, negli enti pubblici, nei giornali, nelle televisioni. Le fonti sono ministri, magistrati, uomini d'affari, faccendieri, ma anche uffici riservati dei carabinieri, dei servizi segreti e soprattutto della Guardia di Finanza.

È strano il destino di questo corpo armato dello Stato. È quello che con più tenacia e più lucidità persegue evasori e corrotti ma è quello anche che, specie nei dintorni del suo comando generale, fa parte da trent'anni di cosche e reti di malaffare.

Gli obiettivi di questa P4 sono di procurare vantaggi alle fonti.

Un'immensa massoneria che non ha neppure la forma d'una società segreta come fu la P2. Bisignani fu nella P2, ha esperienza, è stato condannato per le malefatte che compì allora; perciò la sua P4 è una rete molto più estesa ma molto più leggera dove la corruzione è il cemento, l'ex magistrato e deputato Papa è il simbolo più smaccato e Bisignani il confessore di tutti. Tutti si confessano, non per essere perdonati ma perché le loro confessioni hanno un valore di scambio e un valore d'uso. Le confessioni sono il patrimonio e l'avviamento della P4, la loro messa in comune è la ricchezza di Bisignani.

Di reati ce ne saranno una infinità e spetta alla magistratura perseguirli, ma la rete scoperchia una realtà obbrobriosa, un sistema istituzionale metastatizzato, un archivio di malefatte e di gossip di cui Bisignani è il paziente raccoglitore e il furbo custode.

Quando il potere si manifesta con queste fattezze lo schifo ti serra la gola. Il vento nuovo che spira da qualche tempo potrà, speriamolo, dissipare questi miasmi e scacciare i loschi mercanti che hanno venduto l'interesse pubblico alle cupidigie private corrompendo e deformando la democrazia, calpestando la giustizia ed elevando il privilegio a canone d'una politica.

Tutto questo deve finire.



Da Pavese a Guccini e Zappa I tanti mondi del movimento No Tav. - di Andrea Giambartolomei.

Al presidio di Chiomonte in Val di Susa sale la tensione. Il 30 giugno scadono i termini Ue, dopodiché svaniranno i finanziamenti. A breve, dunque, inizieranno i lavori. Il movimento è lì per impedirli. E il rischio scontri si fa sempre più serio.


“Quando un movimento così riesce a padroneggiare un territorio gli altri non passeranno mai”. È giovedì notte e alla “Libera repubblica della Maddalena”, a Chiomonte, in Val di Susa, si parla di “resistenza all’autorità ed esperienze di autogestione nell’arco alpino”, un excursus storico dai celti ai partigiani. Il dibattito cresce. In attesa di infiammarsi. Perché questi sono giorni di attesa. Attendono i manifestanti No Tav raccolti attorno al museo di archeologia, a ridosso della galleria “Ramat” dell’autostrada Torino-Bardonecchia. Entro il 30 giugno (ultimo giorno concesso dall’Unione europea per erogare i finanziamenti) qui partiranno i lavori. O meglio: lo scavo del tunnel geognostico per studiare la conformazione della montagna in cui far passare il treno. I lavori, dunque, devono iniziare. Così vuole il governo. Ma il governo è disposto allo scontro? Il dubbio resta. la paura anche. Qui la voce è seria. E sostiene che già all’alba di lunedì qualcosa potrebbe succedere.

L’inaugurazione del cantiere, visto l’aut aut europeo, è diventato ormai una priorità del governo che ogni giorno ribadisce il concetto. Negli ultimi giorni ci hanno pensato il capo degli industriali e Emma Marcegaglia e il ministro delle Infrastrutture Aletro Matteoli. E tutti lo fanno criticando il blocco attuato da circa cinquecento persone, abitanti della valle a cui si sono uniti alcuni ragazzi dei centri sociali torinesi. Dall’altra parte, per scongiurare il sempre più probabile uso della repressione, i sindaci e gli amministratori delle liste civiche No Tav hanno scritto al ministro dell’Interno Roberto Maroni dicendo un secco “No all’uso della forza per sgomberare gli uomini e le donne”, mentre Nilo Durbiano, sindaco Pd di Venaus, teatro delle violenze nel dicembre 2005, propone al governo “una soluzione in extremis: convocare le istituzioni della valle di Susa che, per la loro posizione di dissenso sull’opera, negli ultimi due anni sono state escluse da tutti i tavoli”. E ora “le persone contrarie in Valle pronte a scendere in piazza sono 20-30 mila”. In vista di eventuali scontri il segretario generale Nicola Tanzidel Sindacato autonomo di polizia fa sapere ai propri iscritti che “potranno contare su tutta l’assistenza possibile, anche legale se sarà necessario” negli interventi contro “alcuni gruppi minoritari che si oppongono, spesso con forme violente e commettendo reati, alla realizzazione dell’opera”. Eppure le istituzioni sembravano aver trovato a Chiomonte un clima tranquillo per avviare il sondaggio del terreno, che inizialmente doveva essere effettuato a Susa. Il sindaco Renzo Pinard (Pdl), che si è sempre dichiarato neutrale, ha detto di voler fare una marcia della “maggioranza silenziosa” contro i No Tav.

Intanto, in questo giovedì sera di prima estate il dibattito è terminato e mentre il leader storico del movimento Alberto Perino e il sindaco di San Didero Loredana Bellone discutono dell’ordine del giorno approvato in consiglio, qualcuno inizia a suonare musica manouche. Nei giorni scorsi ci sono stati i concerti degli Statuto e dei Lou Dalfin, band folk-rock occitana. Sono modi per passare la notte, come mangiare la pizza cotta nel forno a legna costruito dai giovani dei centri sociali, o bere il “vinotav” e altri vini prodotti nei campi circostanti. “La produzione del vino di Chiomonte è stata compromessa dai lavori per la autostrada Torino-Bardonecchia negli anni Novanta – ci spiega il fotografo Carlo Ravetto – . Le vigne si riempirono di polvere e le concentrazioni di piombo e altre sostanze nell’uva aumentarono rendendo il vino imbevibile. Alcune famiglie ci hanno rimesso”.

Nella tenda-cucina si continua a servire cibi preparati da loro, panini e bevande calde. Osservando l’interno si nota l’umanità varia del movimento: dall’icona dell’arcangelo Michele che “ci difende, ci ispira e ci rassicura”, alla dissacrante immagine di Raoul, “il re del sacro Hokuto” che “è no Tav e combatterà con noi”, dalle citazioni di Cesare Pavese e Francesco Guccini a quella di Frank Zappa. Dentro il tendone c’è Swen, argentino della Valle di Susa. Dovrà controllare il presidio fino alle sei del mattino. Dotato di radiotrasmittente e del cellulare del presidio si tiene in contatto con le sentinelle disposte negli altri presidi. Alle sei del mattino, finito il turno, farà aprire i cancelli e andrà a lavorare come fanno anche altri uomini che stanno al campeggio del presidio. Fa l’artigiano edile ed è convinto che l’occupazione non aumenterà: “Le grosse aziende hanno i loro lavoratori e passando di grado a noi resterà poco”.

Molti credono che i lavori e gli interventi di polizia saranno a ridosso della scadenza o già lunedì, ma c’è sempre qualcuno che teme una sorpresa: “Sono 33 giorni che andiamo avanti così – dice Simonetta, rappresentante di Resistenza Viola -. Arrivano o non arrivano?”. Altri credono che “sarà düra” per le forze dell’ordine arrivare al presidio. Lo spiega Alessandro, di Sant’Ambrogio, mentre mostra le due vie di accesso: “Una è la strada da Chianocco su cui ci sono i posti di blocco fatti con le pietre all’interno di gabbie in rete metallica. L’altro è il sentiero per Giaglione”. Indossa una lampada frontale da trekking e si incammina nel sentiero che – fa capire – è difficile da percorrere di notte o all’alba. Si spera di rallentare gli agenti, lasciando il tempo ai No Tav di riunirsi. In questo week end giungeranno alla Maddalena altri sostenitori della causa, come piega Giorgio, 25enne arrivato da Palermo: “Ho sentito amici da Pisa e Bologna che arriveranno sabato e domenica. Dopo 20 anni questa è diventata una lotta storica”. Eppure alcuni “resistenti” iniziano a essere segnati dai giorni d’attesa: chissà che il presidio non finisca per la stanchezza? “Tutto può succedere – dice Perino -. Però sono 22 anni che resistiamo. Giorno più o giorno meno cambia poco”.



Rifiuti, indagato presidente della Regione Campania Caldoro per epidemia colposa.


Nell’inchiesta si contestano la mancata attivazione di discariche in altre province per fronteggiare l’emergenza. Al vaglio degli inquirenti, in particolare, i dati sul consumo di farmaci per allergie o eruzioni cutanee, un monitoraggio già sperimentato nell'inchiesta relativa alla precedente emergenza 2007-2008.


Il presidente della Regione Campania Stefano Caldoro è indagato nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Napoli sui rischi per la salute pubblica determinati dalla mancata raccolta dei rifiuti. Nell’inchiesta del procuratore aggiunto FrancescoGreco e del pm Francesco Curcio si contestano al presidente della giunta campana la mancata attivazione di discariche in altre province per fronteggiare l’emergenza. Al vaglio degli inquirenti, in particolare, i dati sul consumo di farmaci per allergie o eruzioni cutanee, un monitoraggio già sperimentato nell’inchiesta relativa alla precedente emergenza 2007-2008.

”Sono profondamente colpito, ogni azione diversa da quella messa in campo avrebbe reso la situazione ancora più drammatica. Tutto quello che ho fatto lo rifarei in piena coscienza”, ha commentato Caldoro in un comunicato. “Questa inchiesta consentirà di chiarire alcuni aspetti relativi alla responsabilità delle singole istituzioni nel ciclo dei rifiuti – afferma Caldoro – appena possibile fornirò, nello spirito della piena collaborazione istituzionale, tutte le informazioni, anche documentali”. “La Regione – sottolinea il presidente della giunta campana – come è noto, ha competenze limitate nel ciclo dei rifiuti. Abbiamo fatto tutto quanto era nelle nostre possibilità, ci siamo spesi ben oltre le nostre competenze, supportando gli enti locali e sollecitando utili iniziative”. “Lavoriamo giorno e notte senza un attimo di respiro per affrontare una delle emergenze più gravi della storia amministrativa della nostra città e della nostra Regione, che ereditiamo da 15 anni di inerzia e fallimenti”, aggiunge Caldoro. “La magistratura svolge il suo dovere, ma soprattutto attendo che tutte le Istituzioni facciano tutto quanto è nelle rispettive competenze, a partire dal Governo fino ad arrivare al più piccolo dei Comuni. Per tornare alla normalità ognuno deve fare il proprio dovere”, prosegue Caldoro. “Eventualmente fossero provate, in questa vicenda, responsabilità penali per fatti commessi inconsapevolmente – e siamo convinti di aver fatto fino in fondo tutto il nostro dovere – non esiterei a dimettermi da presidente della Regione”.

Oggi Caldoro aveva rilasciato un’intervista al Corriere della Sera illustrando le differenze e le affinità con il neo sindaco Luigi de Magistris: ”Dobbiamo raggiungere un’intesa istituzionale e ci stiamo lavorando con impegno”, e “l’unica differenza è sull’impianto finale. Discarica, impianti e termovalorizzatore. A mio avviso non c’è altra strada. Naturalmente la differenziata è un’ottima cosa nel lungo periodo. Ma nel breve si limita a ridurre i volumi. E se non hai un luogo dove portarli, si ricomincia da capo”. Il presidente della Regione spiegava che “in questa storia di errori ne abbiamo commessi tutti”, “certamente” anche il governo che “nel 2008 era riuscito a far ripartire il ciclo” ma poi “bisognava aprire le discariche”, cosa che non è avvenuta, perché, affermava, “il dramma dei rifiuti viene sempre sacrificato a ragioni di forza maggiore, al mantenimento delle alleanze”.
Inoltre, attaccava Caldoro, “il decreto che sta per varare il governo andava fatto venti giorni fa. Siamo già in ritardo. E all’interno del governo la posizione della Lega è irragionevole, come inaccettabili sono le parole di Roberto Calderoli”.



P4: indagato Adinolfi, l’inchiesta sulla fuga di notizie punta sulla Guardia di Finanza. - di Marco Lillo


Sabato 25 giugno ore 21,26:
Il capo di stato maggiore della Guardia di Finanza, generale Michele Adinolfi, è indagato dalla procura di Napoli nell’inchiesta P4. I reati ipotizzati nei confronti dell’alto ufficiale sono rivelazione di segreto e favoreggiamento personale. Il generale Adinolfi, secondo gli inquirenti, avrebbe fatto arrivare – tramite un’altra persona – notizie riservate sull’inchiesta a Luigi Bisignani, principale indagato per la P4: notizie che gli sarebbero arrivate da un altro generale della Gdf, il comandante interregionale dell’Italia meridionale Vito Bardi, in servizio a Napoli, anche lui indagato e che ha chiesto che si proceda per calunnia nei confronti di Bisignani e di eventuali altre persone che lo accusano. Il nome del generale Adinolfi sarebbe emerso nel corso di un interrogatorio al deputato del Pdl Marco Milanese da parte dei magistrati Francesco Curcio e Henry John Woodcock, titolari dell’inchiesta. Il generale è stato già interrogato dai pm e, secondo quanto si apprende, avrebbe negato ogni addebito. Successivamente tra i due vi sarebbe stato anche un confronto
(Ansa)

La Procura di Napoli pensa di avere capito chi ha bruciato sul nascere l’inchiesta sulla P4: i vertici della Guardia di Finanza.

Il generale Vito Bardi, comandante delle Fiamme Gialle in tutta l’Italia meridionale, ex comandante regionale della Campania, è indagato per favoreggiamento e rivelazione del segreto, perché tirato in ballo da Luigi Bisignani nelle sue dichiarazioni (da indagato che quindi può mentire) ai pm. Le indagini della Procura di Napoli però non si sono fermate a questo importante generale di corpo d’armata ma sono arrivate a Roma nel cuore del Comando Generale dove i magistrati pensano lavori una seconda talpa, probabilmente di livello molto alto, che avrebbe spifferato al presunto capo della P4 i contenuti dell’indagine.

Non è un mistero che Henry John Woodcock e Francesco Curcio siano molto irritati per quello che è successo. Nessuno sospetta minimamente dei finanzieri del comando provinciale di Napoli che hanno lavorato senza sosta fino agli arresti. Nell’ipotesi investigativa sarebbe stato invece un comandante, magari a Roma, dopo aver ricevuto la notizia dell’inchiesta su Bisignani per via gerarchica a spifferare l’esistenza delle intercettazioni all’indagato.

Nei mesi di settembre e ottobre Bisignani e compagni si lasciavano andare, sicuri di usare schede telefoniche insospettabili. I magistrati però le avevano individuate e inoltre, grazie a una tecnica informatica innovativa, erano riusciti a piazzare una sorta di cimice virtuale nell’ufficio del lobbista. Una mail contenente un messaggio civetta, una volta aperta dai collaboratori di Bisignani, aveva trasformato il suo computer in un registratore sempre acceso. In tal modo i finanzieri del Comando di Napoli potevano ascoltare in tempo reale le trame della P4. All’improvviso però qualcuno ha spifferato l’esistenza dell’inchiesta a Luigi Bisignani. Al telefono gli indagati hanno smesso di parlare liberamente e qualcuno di loro ha cominciato a depistare.

Proprio ascoltando una conversazione con il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo nell’ufficio di Bisignani i pm hanno avuto la prova della fuga di notizie. Bisignani confidava all’amica Stefania, atterrita per il rischio di immagine, di sapere che Woodcock stava indagando. E aggiungeva che ne aveva parlato con Letta.

Da quel momento Woodcock e Curcio hanno cercato in tutti i modi di rispondere a una domanda: chi è stato a bruciare l’indagine? Bisignani ha puntato il dito su Italo Bocchino: “Mi parlò espressamente di una indagine di Napoli ma non fece mai il nome dei magistrati; io rappresentai immediatamente tale circostanza al Papa e il Papa successivamente fece ulteriori accertamenti verificando la fondatezza di tale notizia”. Ed è stato sempre lui a indirizzare i pm sulle tracce della Gdf: “Ricordo che il Papa … è molto amico del Generale Adinolfì”. Bisignani, dopo aver nominato il numero due della Guardia di Finanza, però punta il dito su un altro generale di corpo d’armata, “Ricordo bene che quando io dissi al Papa della notizia che avevo appreso il Papa mi disse che avrebbe chiesto informazioni a Napoli e mi disse che avrebbe parlato con un certo Generale Bardi della Guardia di Finanza; dopo qualche giorno tornò da me e mi disse che effettivamente dalle notizie che aveva appreso a Napoli aveva appurato a Napoli che la notizia dell’indagine era vera e che effettivamente c’era questa inchiesta”.
Insomma Bisignani insiste su Napoli. E i pm per questa ragione iscrivono Bardi.

Però c’è qualche cosa che non convince in questa versione. Alfonso Papa, raccontano alla Finanza di Napoli, non era poi così amico di Papa. L’allora direttore generale del ministero della giustizia circolava per Napoli con una macchina di servizio e due uomini della Finanza. L’assegnazione di questo insolito benefit era stata decisa dal Comando Generale a Roma e fu proprio Bardi, (che ha denunciato Bisignani per calunnia aggravata) a privare Papa dei due finanzieri napoletani che costavano moltissimo alle casse dello Stato perché figuravano sempre in missione a Roma. I pm, pur avendo iscritto il generale Bardi, ritengono che la talpa vada individuata a Roma.
E studiano con attenzione il verbale della testimonianza dell’imprenditore Luigi Matacena. Nonostante il suo nome fosse iscritto nella lista Falciani, quella dei correntisti sospettati di evasione fiscale, Matacena era in ottimi rapporti con i comandanti delle Fiamme gialle. “Effettivamente ho pagato, nell’autunno di quest’anno (in occasione della partita di calcio di andata Napoli – Milan) , un pranzo al Ristorante Mattozzi a cui hanno partecipato il Generale Bardi, il Generale Adinolfi con la moglie, il Generale Grassi, il Generale Zafarana, l’ex ufficiale della Guardia di Finanza Stefano Grassi (oggi alle Poste), il dott. Galliani, amministratore delegato del Milan, con una accompagnatrice e un suo amico (…) in quell’occasione io ho anche regalato a tutti i signori menzionati (ufficiali della Guardia di Finanza e non) dei gemelli comprati da Marinella e per le signore un Fular sempre di Marinella. Pagai io il conto che venne a costare meno di mille euro”. Poi Matacena ha aggiunto: “Conosco, oltre al Generale Bardi, anche il Generale Adinolfi con i quale mi do del tu”.



sabato 25 giugno 2011

P4, il metodo Papa: adescare, ricattare e incassare. - di Claudia Fusani


alfonso papa box


Tra le sedicimila pagine degli atti depositati nell’inchiesta P4 c’è sicuramente una parte che, al momento e a chi non lavora all’indagine, può sembrare sfuggire a logiche di urgenza investigativa. C’è sicuramente molto retroscena politico, il racconto dall’interno di un governo ombra, non ufficiale, esclusivo e vedremo poi se legittimo. Ma c’è una parte che già ora racconta la gravità di certi comportamenti, prima di tutti quelli dell’onorevole Alfonso Papa per cui la Camera dovrà entro il 15 luglio decidere se autorizzare l’arresto oppure no per favoreggiamento e concussione.

Il “metodo Papa”, dunque. Riassumibile in cinque punti: consuetudine con forze dell’ordine e magistrati in modo da presentarsi come il custode dei segreti delle procure; avvicinare imprenditori che possono avere guai con la giustizia; farsi consegnare debolezze e timori; usarli per condizionare – o millantare di farlo – le stesse indagini e subito dopo passare all’incasso di regali e utilità varie in quanto garante della loro incolumità giudiziaria. Il protettore giudiziario con richiesta di pizzo annessa: ecco cosa ha fatto in questi anni romani il pm in congedo Alfonso Papa, dal 2001 al 2008 vice capo di gabinetto al ministero della Giustizia e poi deputato, pupillo del procuratore Cordova, di Marcello Pera e Cesare Previti.

Illuminanti, in questo senso, sono verbali ed intercettazioni di una serie di imprenditori campani capitati, a loro volta in cerca di informazioni, scorciatoie e vantaggi, nell’orbita di Papa. Luigi Matacena, ad esempio, imprenditore campano che figura nella lista Falciani (i grandi evasori elvetici) e che grazie allo scudo Tremonti nel dicembre 2009 ha riportato in Italia due milioni e mezzo. Insomma, un imprenditore che aveva bisogno di avere buoni agganci nella Guardia di finanza. E che, dicono le indagini, gli vengono garantiti da Papa. Racconta Matacena il 16 marzo scorso: «Ho conosciuto Papa un anno e mezzo fa, me l’ha presentato l’amico Gallo (un altro imprenditore che accetta le richieste di Papa, ndr) e da subito si è fatto sotto dicendomi che era a disposizione per il mio lavoro e per aiutarmi per avere entrature, e quindi appalti, con la Protezione Civile e l’Eni.

Papa mi ha detto più di una volta di avere entrature nella G. di F. e nei carabinieri e di essere a disposizione per risolvere ogni tipo di problema. Mi ha detto anche che a Napoli in ambito giudiziario comandava lui». Papa si offre anche come procacciatore di affari. «Quando mi parlò di Bertolaso promettendo commesse dalla Protezione Civile, aggiunse anche che Bertolaso non poteva dirgli di no perché si stava interessando dei problemi giudiziari». In quanto a utilità, Papa non ha ritegno. Sempre Matacena: «Gli ho pagato due notti all’hotel De Russie (tra i più esclusivi di Roma, ndr), duemila euro ciascuna. La camera era intestata a un’attrice dell’est, nome Ludmilla (una delle amanti di Papa, assunta come segretaria all’Eni grazie ai benefici di Bisignani ndr)».

E ancora: «In occasione della partita Napoli-Milan persa dal Napoli 2-1 – continua Matacena - ho pagato un pranzo al ristorante Mattozzi in via Filangieri a Napoli. Tra gli ospiti: il generale Bardi, il generale Adinolfi con moglie, l’ex ufficiale della GdiF Stefano Grassi oggi alle Poste, il generale Zafarana. Ai signori ho regalato gemelli di Marinella e alle signore foulard sempre di Marinella». Ci sono poi le cene offerte a Ischia («due, a distanza di un anno e sempre ai giardini Eden di Ischia in occasione del premio di giornalismo»). Matacena non indica i favori che avrebbe ricevuto da Papa. Non si capisce allora perché gli abbia pagato alberghi, pranzi, cene e «l’auto con autista a Roma». «Il fatto è che Papa mi è sempre sembrato una persona in grado di far del male e un piccolo imprenditore come me aveva solo da rimetterci».

Ad Alessandro Petrillo, amministratore unico della Protecno Impianti tocca pagare autista e segretaria. Anche Petrillo ovviamente ha i suoi piccoli guai giudiziari - l’esca è uguale per tutti - e anche per lui vale la promessa di contatti e nuovi lavori. «Ho conosciuto Papa il 14 settembre 2009 presso i suoi uffici a Santa Lucia a Napoli (anche questi pagati da un altro imprenditore ndr) . Una prima volta, tra ottobre e novembre 2009, ho dato 3000 euro a Willy, l’autista, le mensilità di 1.500 ciascuna che Papa avrebbe dovuto pagare all’autista e alla segretaria. A dicembre Willy mi disse che non lavorava più lì e io ritenni di non dover dare più nulla. Ma mi chiamò subito tale Valentina, segretaria del Papa, che mi disse non solo di passare ma di lasciare nella busta tremila euro perché quella era la somma da me dovuta».

Si potrebbe parlare di Casale, immobiliarista coinvolto in qualche inchiesta che paga a Papa gli affitti di tre appartamenti in pieno centro a Roma, uno per il deputato e gli altri due per due amanti, Ludmilla e Giovanna. Casale è stato arrestato una settimana fa a Milano per evasione fiscale. Ma è curiosa quest’altra forma di utilità: l’Università telematica Pegaso di Napoli ha offerto a Papa un contratto annuale per la cattedra di diritto penale.



Bisignani e le inchieste: «Così davo informazioni». - di Lorenza Sarzanini.

Luigi Bisignani

Il consulente ai pm: «Masi alla Rai un disastro».
«Anche Moretti veniva da me per diventare ad delle Ferrovie. Se potessi ora lo denuncerei».

ROMA - Minimizzare, questa è stata la sua linea. Cinque giorni fa, in poco più di un'ora di interrogatorio, Luigi Bisignani ha cercato di sminuire il proprio ruolo nelle relazioni con i politici e con i manager di Stato. Ma nella trascrizione del verbale si individuano numerosi segnali lanciati a chi con lui ha avuto relazioni in tutti questi anni. Accompagnato dai suoi avvocati Fabio Lattanzi e Gianpiero Pirolo, non si è sottratto ad alcuna domanda e ha tenuto a fare una precisazione: «Io sono una persona per bene, do soltanto consigli».

Le liste di Verdini
Si comincia dai rapporti con Alfonso Papa, parlamentare del Pdl che il giudice chiede alla Camera di arrestare perché accusa entrambi di aver ricattato alcuni imprenditori. E Bisignani risponde: «Per me era fonte di notizie... Papa non era conosciuto solo da me, ma anche dai ministri con i quali aveva lavorato. Aveva questa ambizione di fare, di entrare in Parlamento e mi chiese se appunto io potevo dire a Verdini, coordinatore nazionale che è uno di quelli che compilava le liste... L'ultima parola è di Berlusconi. La prima parola è del Pdl della Campania, per cui il processo non è così semplice e perciò io parlai con Verdini... Lui mi disse quello che dicevano tutti in quel momento, che insomma avvocati e magistrati, soprattutto quando si parla tanto dei temi legati alla magistratura, ben vengano. Poi calcoli che Verdini era anche in buoni rapporti con Pera, che era uno di quelli che conosceva Papa. Pera, pare che sia stato Pera, cioè voglio dire non è che arriva Bisignani e dice mettete Papa nelle liste». E allora perché le chiedevano di parlare con Verdini? «Perché certamente ero in buoni rapporti con Verdini da molti anni... A Letta parlai io di Papa che peraltro lui conosceva... E Berlusconi aveva ricevuto anche altre segnalazioni».

Il giudice chiede di sapere se Bisignani conoscesse le «fonti» di Papa. «A Roma era in rapporti, perché questo lo sapevo, con il dottor Toro (ex procuratore aggiunto che si è dimesso dopo il coinvolgimento nell'inchiesta "Grandi Eventi", ndr), con altri magistrati. Lo sapevo da Papa». Il giudice insiste: qualcun altro le ha detto che effettivamente Papa e Toro sono molto legati? «Me l'ha detto il dottor Zanichelli e mi disse che gli avevano chiesto una consulenza per il figlio di Toro, che il Papa glielo ha chiesto... Zanichelli era un alto dirigente dell'Alitalia, adesso credo che sia presidente di Trenitalia». Poi Bisignani fa altri nomi, parla «del generale Bardi» e aggiunge: «Poi c'era Marra (gli inquirenti ritengono si tratti di Pippo Marra, presidente dell'agenzia giornalistica Adnkronos, ndr) che per una vicenda completamente diversa mi chiamò un giorno e mi disse: non parlare al telefono, non parlare al telefono. Stop. Dopodiché io ne parlai con l'onorevole Milanese (Marco Milanese deputato Pdl, ex ufficiale della Guardia di Finanza poi nella segreteria del ministro Giulio Tremonti, ndr) che dopo un po' mi disse che io avevo il telefono per via dell'inchiesta...».

Moretti e i tedeschi
L'inchiesta dei pubblici ministeri Henry John Woodcock e Francesco Curcio nasce dalla testimonianza di un imprenditore specializzato nei sistemi frenanti - socio dello stesso Bisignani - che ha raccontato di aver deciso di denunciare l'amministratore delegato di Trenitalia Mauro Moretti perché non lo faceva lavorare e di essere stato bloccato da Papa che in questo modo voleva acquisire crediti con il manager. Moretti è indagato per favoreggiamento. «Moretti mi scarica perché sa bene che io gli avevo chiesto tante volte di far lavorare questa società e avevo capito benissimo che dietro quella società, che lui non voleva far lavorare, c'erano gli interessi delle altre società tedesche, la Brint e tutte le altre... Papa mi disse di bloccare la denuncia... Moretti ha assunto un atteggiamento di grande distacco, ma io ho detto che Moretti veniva da me per essere aiutato a diventare amministratore delegato delle Ferrovie». Dunque, domanda il giudice, lei si è fatto un'idea precisa del motivo, se Moretti avesse dei collegamenti con queste società tedesche? «Scusi, perché non si fa lavorare una società italiana che ha cinquanta, sessanta persone, uno stabilimento novello che dovunque è andato ha sempre fatto bene, dopo che ci sono stati i casini... Sono freni fenomenali... Io ho il 35 per cento di quella società, sono socio di minoranza non ci ho mai guadagnato niente, ci ho perso pure un sacco di... se potessi io adesso la farei di corsa quella denuncia».

Lavitola, Cicchitto e gli 007
C'è un ordine di arresto anche per il maresciallo Enrico La Monica, accusato di aver passato notizie sull'inchiesta a Papa in cambio, tra l'altro, di un posto nei servizi segreti. Bisignani ammette: «Io credo di averne parlato con qualcuno. Non mi ricordo chi... certamente non al generale Santini». Il giudice lo invita a fare «mente locale». E lui snocciola alcuni nomi: «Guardi, se posso aver parlato con qualcuno, posso aver parlato con La Motta, con Piccirillo certamente no». Il riferimento è al vicedirettore e al direttore dell'Aise Giorgio Piccirillo. E con Letta? «No, mai...». Per caso ne ebbe a parlare anche con Lavitola? «Assolutamente no...». Walter Lavitola è il direttore del quotidiano l'Avanti coinvolto nella storia dei dossier sulla casa di Montecarlo del cognato di Gianfranco Fini. Bisignani afferma: «Era un vecchio militante socialista in grandissimi rapporti con tutti gli ex socialisti oggi pdl, con Cicchitto sicuramente... Credo che abbia rapporti con il presidente Berlusconi e credo che abbia imputato a me, non so perché, che avessi osteggiato la sua candidatura alle elezioni europee... è uscito fuori con la storia di Ruby, la casa di Montecarlo, io ero contrarissimo a quel tipo di campagna di stampa che faceva...»

La "macchina del fango"
Aggiunge Bisignani: «Un altro punto che io ritengo di dover chiarire è che sicuramente parlavo e informavo il dottor Letta delle informazioni comunicatemi e partecipate e in particolare di tutte le vicende che potevano riguardare direttamente o indirettamente, come la vicenda riguardante Verdini, la vicenda che riguardava me stesso... ma ho rapporti con lui da sempre, lo conosco da quarant'anni, è il mio testimone di nozze. Quando parlavamo con Letta, logicamente si parlava di cose, di inchieste, di quello che c'era sui giornali... A Roma si parla solo ed esclusivamente delle inchieste...». Spiega che «il rapporto era stretto anche con Italo Bocchino perché il mio interesse era che tutta questa gazzarra che c'era tra Fini e Berlusconi in qualche modo rientrasse... Io ritenevo che tutta questa confusione in seno alla maggioranza portava solo guai, perché con la mia esperienza politica mi ha detto che tra alleati in quel modo là non si discute, soprattutto su temi così come poteva essere la casa di Montecarlo. La magistratura avrebbe fatto il suo corso, ma la politica non doveva strumentalizzare queste cose... In realtà io ero assolutamente contrario alla "macchina del fango". Certo che avevo rapporto con D'Agostino e Dagospia che era nato come sito di gossip e poi il presidente Cossiga cercò di farlo diventare una fonte... e io cercavo di dire che per essere credibile doveva diventare sempre più serio... Io cercavo di dare delle notizie che fossero di spessore politico».

Masi alla Rai? «Un disastro»
Le conversazioni con il direttore generale della Rai sono continue, Bisignani ha scritto la lettera di licenziamento per Michele Santoro. E a verbale afferma: «Masi lo conosco da 35 anni. La mia idea su Santoro, l'ho spiegata, era totalmente un'altra e gli dicevo: guarda da dirigente d'azienda tu non ti puoi far mandare a quel paese da un tuo dipendente. Tu devi fare soltanto una cosa, visto che stai già in un sacco di guai nella Rai perché sei così... devi licenziarlo, portare la lettera di licenziamento al consiglio di amministrazione, quello che te l'avrebbe rigettata, tu ti dimetti ma fai vedere che sei un manager che non si fa mandare... ed esci alla stragrande da questa cosa. Pur essendo così amico di Masi, quando doveva essere nominato direttore generale della Rai, che per me ex giornalista è una grande cosa, io non ebbi difficoltà a dirgli: fai un errore clamoroso. L'unica volta che ho visto Berlusconi gli ho detto: guardi presidente, fa un errore a mettere Masi. Masi è una persona competente nelle istituzioni, non alla Rai perché alla Rai farà male. La mia esperienza mi portava a dire che lì Masi avrebbe fatto un disastro». E poi rivolgendosi al giudice: «L'ha nominato lo stesso e questo smentisce ciò che lei dice di me perché la mia influenza era nulla. A Masi dicevo: te ne vai e tutti ti diranno che ci hai provato. Sono vent'anni che cercano di mandare via Santoro, ma non perché ce l'avessi con Santoro, tra l'altro Santoro è il più grande regalo che Berlusconi ha perché ogni volta che fa le sue trasmissioni non sposta niente, anzi. È un errore clamoroso mandarlo via».

http://www.corriere.it/cronache/11_giugno_25/sarzanini_p4-sistema-parallelo-indagati_e48ccc02-9ef3-11e0-8488-e5128670a364.shtml