sabato 16 luglio 2011

La rivolta contro i politici corre sul web E su Facebook spunta la pagina anti-Casta. - di Lorenzo Galeazzi


L'autore dice di essere un ex assistente di un onorevole "licenziato dopo 15 anni di precariato" a Montecitorio e vuole di svelare "pian piano" tutti i privilegi dei parlamentari. Gola profonda o bufala telematica, in Rete sta già spopolando.


Cento nuovi utenti al minuto. Seimila fan in poche ore. E’ la pagina Facebook “I segreti della casta di Montecitorio” curata dal fantomaticoSpidertruman. Le uniche informazioni che l’internauta fornisce sulla sua identità riguardano la sua ex professione, “licenziato dopo 15 anni di precariato in quel palazzo” e il suo scopo “ho deciso di svelare pian piano tutti i segreti della Casta”.

Quale sia il vero nome della gola profonda telematica ancora non è dato saperlo, ma in rete è già una star. Che, per il momento, rimane avvolta dal mistero. L’unico strumento per contattarlo è una casella mail rotellinarotta@libero.it. Non si sa nulla neppure del grado di attendibilità delle notizie che Spidertruman sta diffondendo su Internet, ma basta nominare i tanti privilegi dei parlamentari e il successo su Internet (e non solo) è assicurato. Specie in questi giorni in cui l’approvazione della manovra – pesante per i cittadini, ma quasi indolore per i politici – sta scatenando un putiferio di polemiche. Gli argomenti sono sempre quelli: auto blu, viaggi gratis degli onorevoli e tariffe telefoniche scontatissime per deputati e senatori. Solo per citarne alcuni.

Con chi abbiamo a che fare? Con un nostrano Julian Assange deciso a divulgare i tanti privilegi di cui godono i politici o con qualcuno che si diverte a soffiare sul vento dell’indignazione dei cittadini-contribuenti prendendoli per i fondelli?

Ancora non lo sappiamo. Ma il mix di post che Spidertruman pubblica è intelligente: qualche notizia già uscita (e quindi verificata), magari arricchita da nuovi particolari, insieme ad alcune novità assolute. Come la storia dell’agenzia di viaggi dentro a Montecitorio. “La prima volta che sono andato a fare i biglietti, il funzionario parlamentare adibito all’agenzia (7000 euro al mese) mi ha chiesto il codice millemiglia, che con accortezza il deputato-padrone mi aveva fornito – scrive sulla sua bacheca – Cosa ho scoperto: che lor signori non solo si fanno i viaggi gratis, ma con quei viaggi accumulano punti su punti che poi utilizzano per far viaggiare gratis anche mogli, amici e parenti sui voli Alitalia”.

Questo genere di articoli sono mescolati ad altre notizie che avevano già riempito le cronache dei giornali. Come quella dei furti a Montecitorio, dove c’è una polizza assicurativa che copre qualsiasi ladrocinio, di qualsiasi entità, che avviene dentro il palazzo. “Ogni giorno c’è sempre un deputato che denuncia il furto del suo costosissimo computer portatile”, attacca l’internauta chiedendosi come sia possibile, visti i rigidi controlli di polizia ai portoni, che alla Camera continuino ad agire un manipolo di ladri indisturbati: “Forse perché probabilmente i ladri sono coloro i quali entrano ed escono dall’ingresso principale quando vogliono: i deputati infatti sono gli unici esentati dai controlli”.

Pane per i denti dell’indignazione popolare verso una classe dirigente che mentre vara una finanziaria lacrime e sangue, di notte, al riparo da occhi indiscreti, in commissione Bilancio, boccia tutti i tagli ai costi della politica.

Ma la bufala, soprattutto su Internet, è sempre dietro l’angolo. E anche sul sito di Mark Zuckerber gli esempi non mancano. E’ di qualche giorno fa la notizia del falso profilo della Conad di Pomigliano d’Arco. Sulla wall del supermercato campano c’era un post con scritto che se i clienti, una volta in cassa, avessero gridato “viva Berlusconi” avrebbero ottenuto il 10 per cento di sconto sullo scontrino della spesa. Apriti cielo. “Promozione discriminatoria” ha tuonato il movimento 5 Stelle locale. La notizia è uscita addirittura su Liberazione, ma, tempo di qualche ora, è arrivata la secca smentita della catena di distribuzione. Il profilo era falso ed era stato messo online da qualche burlone telematico.

Ancora più clamoroso è il caso di Tommaso Debenedetti, noto alle cronache come “il genio degli articoli truffa” che per anni aveva piazzato sui giornali del nostro paese interviste ai più grandi autori internazionali, da Gore Vidal a Philip Roth. Tutte rigorosamente inventate. Debenedetti aveva messo in rete i falsi profili di Umberto Eco e Abraham B. Yehoshua e, per restare al semiologo di Alessandria, sulla sua finta bacheca era tutto un proliferare di “Onoratissima professore” e “Grazie mille”. Gente che non poteva credere di annoverare Eco fra i propri amici sul social network.

“Ci sono cascati tutti, giornalisti compresi”, aveva raccontato in un’intervista al Fatto Quotidiano. Ma alla fine qualche errore d’ortografia di troppo ha fatto vacillare la fiducia dei suoi fan.

Poi il finto Eco ha deciso di fare outing proprio dalle colonne del nostro giornale: “Ho voluto svelare il confine fra verità e menzogna”. Alla fine l’avvertimento: “Sono già al lavoro su dei progetti simili. Presto, online, ve ne accorgerete”. Che sia proprio lui lo Spidertruman anti-casta di cui la Rete si è innamorata?




Trani-Gate, per Berlusconi spunta un reato non ministeriale: abuso d’ufficio. - di Marco Lillo




La montagna ha partorito il topolino. Dopo quindici mesi il Tribunale dei ministri ieri ha finalmente statuito che un reato nelle telefonate del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi intercettate a Trani c’è. Solo che – secondo i giudici – il reato non è la concussione ai danni dell’ex commissario AgcomGiancarlo Innocenzi, né le minacce ai danni dell’Autorità Garante delle Comunicazioni per far chiudere Annozero, come ipotizzato a Trani. Per queste due ipotesi di reato, giovedì scorso il Tribunale dei reati ministeriali ha archiviato la posizione del premier con un’ordinanza di sei pagine.

Questo successo per il Cavaliere però potrebbe trasformarsi in un boomerang. L’ordinanza dei tre giudici Eugenio Curatola, Alfredo Maria Sacco e Pier Luigi Balestrieri, infatti, da un lato concede l’archiviazione, ma dall’altro ipotizza l’esistenza di un reato non ministeriale. Il Tribunale dei ministri suggerisce alla Procura di Roma di valutare se non sia il caso di indagare Berlusconi, stavolta assieme a Giancarlo Innocenzi, per un reato diverso: l’abuso di ufficio. Un’accusa magari meno grave, ma molto più rognosa perché solo per i reati ministeriali il presidente del Consiglio può contare sul paracadute dell’autorizzazione a procedere della Camera, mentre per l’abuso comune la magistratura ordinaria può rinviarlo a giudizio e condannarlo senza chiedere il permesso a nessuno.

I fatti sono noti grazie al Fatto Quotidiano che, a partire dal 12 marzo del 2010, ha pubblicato tutte le telefonate del premier con Innocenzi e quelle di Innocenzi con l’allora direttore della Rai Mauro Masi, nelle quali si delinea la strategia per chiudere Annozero e gli altri talk show sgraditi a Berlusconi.

Secondo il Collegio dei reati ministeriali, nessuno è innocente in questa storia: non lo è Berlusconi, ma non lo è nemmeno Innocenzi che invece nella ricostruzione della Procura di Trani era qualificato come vittima (concusso) delle minacce del premier. Per il Tribunale dei ministri, Innocenzi non brigava con Masi perché intimorito da Silvio Berlusconi che, come diceva lui al telefono “mi ha fatto due shampoo ed è incazzato nero”. Il commissario dell’Agcom minacciava di fare il “tupamaru” dentro l’Agcom perché condivideva la linea del boss. Ergo, Innocenzi non è una vittima, ma potrebbe essere invece – se questa impostazione fosse accolta dalla Procura – colpevole di abuso di ufficio assieme al suo Grande capo.

Da quello che trapela, sarebbe più sfumata nell’ordinanza del Tribunale dei ministri, l’analisi della posizione di Mauro Masi, che non è mai stato indagato. Anche se, alla luce dell’ordinanza del Tribunale dei ministri e delle intercettazioni dell’inchiesta P4 (che riguardano sempre il caso Santoro), la Procura di Roma potrebbe rivalutare la sua posizione. Comunque, le dissertazioni giuridiche del Tribunale dei ministri riguardo ai reati non ministeriali non vincolano i pm romani. Sarà il procuratore aggiunto Alberto Caperna, con i suoi due sostituti, a valutare se iscrivere Berlusconi nel registro degli indagati. Se Caperna non ritenesse provato l’abuso d’ufficio, potrebbe spedire tutto in archivio. Si arriverebbe così al paradosso di un’indagine sul premier che finisce in nulla nonostante tre organi diversi (Procure di Roma e Trani più il Collegio dei reati ministeriali) abbiano ravvisato reati a suo carico. Saremmo di fronte a un caso unico di strabismo giudiziario nel quale cinque pm e tre giudici sono bravi a vedere solo i reati di Berlusconi sui quali non hanno competenza. Questo esito della pochade giudiziaria iniziata a Trani nell’autunno del 2009 non era scontato.

Tutti si attendevano che il Tribunale dei ministri – come gli era stato proposto dalla Procura di Roma – chiedesse semplicemente alla Camera l’utilizzazione delle intercettazioni telefoniche a carico del premier per poi procedere contro di lui, e lui soltanto, per concussione e minacce. I fatti erano chiari e le intercettazioni parlavano da sole.

E invece, dopo avere fatto melina per mesi, il Tribunale dei reati ministeriali giovedì improvvisamente si è accorto che il reato non è ministeriale. Forse i tre giudici avranno anche ragione. Forse qualificare Innocenzi come vittima è stato un errore. Forse il reato giusto è l’abuso d’ufficio. Forse non c’è reato ministeriale. Ma certamente potevano dirlo prima senza tenersi per quindici mesi un fascicolo così delicato per il presidente del Consiglio, ma anche per il pluralismo dell’informazione. Anche perché, mentre i giudici di via Triboniano si baloccavano con il codice, il mondo intorno continuava a girare. Il provvedimento pilatesco di giovedì poteva essere scritto quando Annozero era in onda, Masi era ancora alla Rai e Innocenzi era ancora all’Agcom. Ancora un po’ e nemmeno l’ultimo superstite sarebbe stato presente all’indirizzo di Palazzo Chigi. Con l’ordinanza cerchiobottista trasmessa ieri in Procura, il Tribunale dei ministri si libera di una questione probabilmente al di sopra delle forze di un organo strutturalmente inadeguato perché composto da tre giudici estratti a sorte e abituati a occuparsi d’altro che improvvisamente si ritrovano a decidere, nel tempo libero dal loro lavoro ordinario, il destino di un premier.

Ora si ricomincia da capo e tocca alla Procura di Roma decidere se chiedere alla Camera di usare le intercettazioni contro Berlusconi, per accusarlo di un reato non ministeriale. Una cosa è certa: Berlusconi diceva al telefono al fido Innocenzi il 14 novembre del 2009: “Quello che adesso bisogna concertare è che l’azione vostra sia un’azione che consenta… che sia da stimolo alla Rai per dire “chiudiamo tutto”, ma non solo su Santoro, aprite il fuoco su tutte le trasmissioni di questo tipo”. A distanza di un anno e 8 mesi, Santoro è stato convinto a sloggiare, il Tribunale dei ministri è riuscito a trovare il modo per archiviare e intanto gli scherani del sultano continuano a ostacolare le altre trasmissioni sgradite. Il bilancio per il premier è positivo. Per i cittadini che pagano il canone e le tasse e vorrebbero ottenere pluralismo e giustizia, un po’ meno.



Panico a Palazzo, i fantasmi di Tangentopoli tormentano Re Silvio e la sua corte. - di Mario Portanova



L'impunità scricchiola con il caso Papa, Berlusconi chiama alla resistenza contro i magistrati ma Bossi si sfila. Approvata la finanziaria "lacrime e sangue", Tremonti lancia strani messaggi. E se il peggio dovesse ancora arrivare?

Panico a Palazzo, un continuo evocare i vecchi fantasmi, quelli del 1992-1993: le casse dello Stato esangui, l’inchiesta Mani pulite, gli intoccabili in manette, il crollo del sistema, i potenti messi improvvisamente da parte dopo regni decennali. Nei giorni della finanziaria lacrime e sangue e delprimo sì all’arresto del deputato Alfonso Papa, i fantasmi tormentano innanzitutto Silvio Berlusconi: “Stiamo tornando al clima di Tangentopoli, Dobbiamo reagire, impedirlo a tutti i costi”, ha detto il presidente del consiglio ai suoi, in uno sfogo ripreso dalle agenzie di stampa. E’ la “gogna giudiziaria”, ma questa volta i magistrati vanno bloccati prima che sia troppo tardi, per le richieste di arresto già pervenute e per quelle che – secondo i boatos che percorrono il Parlamento – arriveranno a breve. “E’ arrivato il momento di dire basta, non dobbiamo mollare, altrimenti si rischia di fare come nel ’92″.

Dire basta, però, non è facile, se il grande alleato degli ultimi dieci anni si mette di traverso a muso duro: “In galera”, ha sibilato Umberto Bossi a proposito di Papa. La Lega ha già annunciato che voterà a favore del suo arresto, quando il caso arriverà alla Camera, e già oggi l’astensione dei suoi due rappresentanti nella Giunta per le autorizzazioni a procedere è stata determinante. E non è che apra grandi spiragli sull’altro caso caldo, quello di un altro deputato Pdl inseguito da una richiesta di arresto, Marco Milanese.”Poi ci pensiamo, una cosa alla volta”, si è limitato a dire Bossi. Altri fantasmi: il grande tradimento del 1994, quando la Lega fece cadere il primo governo del Cavaliere, il cappio sventolato in Parlamento dal deputato del Carroccio Luca Leoni Orsenigo. Intanto il tribunale del riesame conferma gli arresti domiciliari a Luigi Bisignani. Un simbolo anche lui, inguaiato con la legge tanto nella prima quanto nella seconda Repubblica.

Non poteva mancare, nella rievocazione che semina panico, la scena simbolo di Bettino Craxi all’hotel Raphael di Roma .“Il presidente del Consiglio è a rischio monetine“, dichiara Carmelo Briguglio di Fli, “e poiché è un uomo intelligente, negli ultimi tempi non solo non parla, ma scansa tutte le manifestazioni pubbliche, da Lampedusa ai funerali del nostro militare caduto in Afghanistan. Gli consigliamo sinceramente di lasciare Palazzo Chigi, la protesta contro il governo sta montando nel Paese”. Intanto, come sempre accade in Italia quando la politica si avvita nella spirale dell’inefficacia e del malaffare, si fanno i nomi dei “tecnici” che potrebbero raddrizzare le cose. Il nome che circola è quello di Mario Monti. Un classico.

La prima Repubblica finì con Tangentopoli e con una voragine nei conti pubblici. Con la lira sotto atrtacco della speculazione internazionale, nel luglio del 1992 il presidente del consiglio Giuliano Amato varò una Finanziaria-mostro da 100 mila miliardi di lire, con tanto di prelievo forzoso dai conti correnti degli italiani. Vent’anni dopo, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti descrive la prospettiva delle finanze pubbliche con il più celebre dei naufragi: il Titanic. E avverte che “neanche i passeggeri di prima classe si salvarono”. Sfiorato anche lui dalle inchieste giudiziarie, in particolare con il caso Milanese, Tremonti lancia strani messaggi a chi fin dalla discesa in campo l’ha sempre voluto al suo fianco. Alla buvette di Montecitorio, dopo l’approvazione della Finanziaria alla Camera, dice ai cronisti di non aver nulla da dichiarare. Ma butta lì la citazione di due libri diGeorges Simenon, “Tre camere a Manhattan” e “Il Presidente”. La storia, quest’ultima, di un uomo molto ricco e potente, in procinto di diventare, appunto, presidente. Ma siccome è vecchio e malato, viene controllato perché qualcuno lo ritiene pericoloso. Sullo sfondo un gioco di ricatti e documenti compromettenti tra lui e un suo ex collaboratore in carriera.

Le suggestioni si affollano, ma i fatti, in fondo, sono ancora poca cosa rispetto agli anni ribollenti di Tangentopoli. Almeno i fatti di dominio pubblico. Forse, nel Palazzo in preda al panico, ne conoscono e temono di inediti e più gravi.




venerdì 15 luglio 2011

video shock 3 luglio no tav violenza polizia



In un video inedito vengono raccontate le immagini che mancavano della giornata del 3 luglio alla Maddalena no tav di Chiomonte. Siamo sul fronte Ramats dietro il museo archeologico della Maddalena di Chiomonte e il prato inquadrato è l'area archeologica vera e propria dove erano custodite due tombe del neolitico. In un primo tempo si vedono i manifestanti fermati che vengono brutalmente pestati a freddo dagli agenti che lontani dai luoghi di contatto con i manifestanti si sfogano con bastoni calci e manganelli. In un secondo tempo si vedono gli agenti raccogliere delle pietre a terra per poi lanciarle verso i manifestanti. In un terzo tempo ancora si vede una ruspa cingolata ed un camion idrante che impunemente passano sulle tombe preistoriche e vengono dirette verso i manifestanti nel bosco.


"La manovra non basta, in un mondo ideale Berlusconi se ne andrebbe"




L'editoriale del Financial Times.

Non basta la manovra di austerità del ministro Giulio Tremonti per salvare l'Italia dalla crisi, scrive oggi il Financial Times in un'editoriale dal titolo "Tutelare la credibilità fiscale dell'Italia". La manovra "è lungi dalla perfezione" anche perchè una bella fetta è destinata all'applicazione nella prossima legislatura. Tuttavia deve essere approvata il prima possibile. Ma poi "per convincere i mercati che è credibile, l'Italia ha bisogno di qualcosa di più dell'austerità. Roma deve mandare un chiaro messaggio di intenti - sottolinea il quotidiano finanziario - in un mondo ideale questo significherebbe la rimozione del premier Silvio Berlusconi e la nascita di un governo di larga maggioranza guidato da tecnici".

Tuttavia, continua il Ft, dal momento che l'uscita di scena di Berlusconi appare remota, i leader politici italiani (che non sarebbero "capaci di orchestrarla") devono trovare altri modi per dimostrare la loro determinazione: "L'approccio migliore sarebbe quello di accompagnare la manovra di austerità di Tremonti con un programma di riforme strutturali radicali, volte a incrementare il tasso di crescita a lungo termine del Paese". Il quotidiano della City indica quindi nella liberalizzazione delle professioni, nella riforma del mercato del lavoro e nello snellimento della burocrazia le riforme più urgenti per il Paese.

"E' una vergogna che gli sforzi di Berlusconi in questa direzione siano stati quasi interamente rivolti a tutelare i suoi complicati interessi", ammonisce il quotidiano, che bacchetta anche il tentativo del premier di inserire nella manovra di Tremonti una misura per rinviare il pagamento della multa alla Cir: "La sua volontà di mettere a rischio la credibilità del suo Paese per difendere il suo patrimonio personale è spregevole". In questo momento, riprende il Ft, "il Parlamento deve approvare senza indugi la manovra di Tremonti", ma "se l'Italia vuole ripristinare la fiducia dei mercati, le riforme sono indispensabili".


http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/411646/


'Corruzione, B. è un bluff.' - di Stefania Maurizi




Un nuovo file di WikiLeaks rivela che nel 2008 il governo Usa cercò di capire cosa stesse facendo il premier italiano per combattere le tangenti. E la risposta fu: niente, anzi ha smantellato l'unico organismo che c'era.

La lotta alla corruzione? Silvio Berlusconi non ha deluso soltanto gli italiani, ma anche il suo migliore alleato: l'America di George W. Bush. Che esamina con sgomento come sia stato smantellato persino il timido tentativo di un organismo anti-mazzette.

Al posto dell'Alto Commissario il Cavaliere ha improvvisato un ufficio senza arte ne parte: meno efficace della struttura già debole che ha rimpiazzato. Dipendente da un ministro dello stesso governo su cui deve sorvegliare. Con un mandato così ristretto da non potersi occupare nemmeno delle corruttele dei membri del parlamento italiano.

Una bocciatura netta, senza appello, che porta la firma di Ronald Spogli, l'ambasciatore romano di Bush.

Il file segreto ottenuto da WikiLeaks, che "l'Espresso" pubblica in esclusiva, mostra quanto sia bassa la credibilità dell'esecutivo sulle questioni morali.

L'argomento del rapporto mandato a Washington è il SaeT, acronimo che sta per "Servizio anticorruzione e Trasparenza". E' stato creato nel 2008 dal governo Berlusconi che, appena tornato al potere, aveva abolito l'Alto Commissariato anticorruzione, sostituendolo con il SaeT.

L'eliminazione del Commissariato era stata criticata da più parti in Italia e nel mondo. L'Ocse, che subito aveva chiesto chiarimenti a Roma. Ma gli americani non si fidano delle parole e per abitudine vanno a controllare di persona.

Così nel novembre 2008, l'ambasciatore Ronald Spogli visita gli uffici del nuovo ente e trasmette le sue conclusioni al Dipartimento di Stato: «Ci ha deluso. Crediamo probabile che il SaeT giocherà un ruolo meno efficace dell'organizzazione che ha rimpiazzato».

La critica si basa su un lungo elenco di dati. «Le attività del SaeT arrivano solo fino al governo», un mandato che quindi non gli consente di occuparsi della corruzione nelle aziende private, ma addirittura neppure di quella dei membri del parlamento, «a meno che questi ultimi sono svolgano un ruolo pubblico in istituzioni governative».

La nuova struttura anti-mazzette ha un staff «di appena 15 esperti e due direttori» mentre «l'Alto Commissariato aveva 60 persone». Inoltre il Saet non ha «alcun potere di supervisione: opererà come "hub di coordinamento" che spera di "delegare" molto del suo lavoro ad altre istituzioni (carabinieri, dogane, Banca d'Italia e altri)».

E anche se l'Alto Commissariato «non è mai stato veramente efficace, perlomeno sembrava avere un minimo di indipendenza», perché finanziato e dipendente dal Parlamento, «il SaeT, al contrario, è stato messo sotto un ministro del governo» e «non ha fondi indipendenti». Dipende, infatti, dal ministero della Pubblica amministrazione di Renato Brunetta.

Spogli chiude con un commento negativo. «Nel nostro lavoro con l'Alto Commissariato avevamo capito che si trattava era un'organizzazione piena di buone intenzioni, ma largamente inefficace. Siamo andati a visitare il SaeT sperando di vedere il debutto di un ente capace di affrontare seriamente il problema della corruzione dilagante in Italia».

E il diplomatico spiega che ad alimentare la speranza era anche la stima per Brunetta, ritenuto nel 2008 «il più energico dei riformatori del governo italiano». E invece no, il Saet si rivela un bluff: «La nostra visita ci ha deluso». E in Italia ne è stata dimenticata persino l'esistenza.



L’ultima del governo “affievolire il 41 bis” “Palazzo Chigi teme le parole dei Graviano”. - di Davide Milosa


La Corte europea bacchetta l'Italia sulla violazione dei diritti umani in fatto di carcere duro. Il Dipartimento degli affari giuridici risponde ventilando l'ipotesi di cancellare il 41 bis. "un fulmine a ciel sereno", commenta Giovanna Chelli dell'Associazione vittime di via dei Georgofili.

Diritti e costi. Ufficialmente si gioca su questi due elementi l’ultimo tentativo del governo Berlusconi di ammorbidire il 41 bis. Il copyright è infatti, tutto di palazzo Chigi. Anzi del Dipartimento per gli affari giuridici della presidenza del Consiglio che l’11 luglio scorso risponde così all’Europa che ci bacchetta sul rispetto dei diritti umani nell’amministrazione carceraria. “Affievolire il 41 bis o non reiterarlo per quei detenuti i cui contatti con le organizzazioni mafiose sono venuti meno”. Motivo di tanta chiarezza? Le sentenze della Corte europea scaturite dai ricorsi dei detenuti al carcere duro. Le domande, sostiene il Dipartimento, pesano sulle “risorse lavorative” e invece potrebbero essere destinate ad altro se venisse annullata la reiterazione dei ricorsi. Dunque via libera a terroristi e soprattutto a mafiosi? Ancora no. Ma certo l’aria che tira non è delle migliori. “E’ stato un fulmine a ciel sereno, una grande fregatura che, a ripensarci, fosre ci aspettavamo anche”, dice Giovanna Chelli dell’associazione familiari delle vittime di via dei Georgofili. Per capirci: cinque morti, tra cui una bambina, e 48 feriti. Era il 27 maggio 1993. Pochi mesi dopo, il 27 luglio, altre cinque vittime. Questa volta in via Palestro a Milano. Cambiano i luoghi, ma la mano che guida le stragi è sempre quella di Cosa nostra.

Insomma, la sensazione non è delle migliori. Soprattutto se, in un momento di crisi come questo, il governo pensa a rivedere il 41 bis, il principale pallino dei boss. E del resto Giovanna Chelli non ha dubbi: “Oggi a Firenze si sta celebrando un processo decisivo, quello sulla trattativa tra Stato e mafia”. Di più: “Il Tar recentemente ha restituito a Gaspare Spatuzza la patente di collaboratore di giustizia”. Le parole del killer di Brancaccio hanno pesato e potranno farlo in futuro. La spada di damocle resta soprattutto su chi oggi sta al governo. Perché non c’è solo Spatuzza, ma anche i fratelli Graviano, veri depositari degli ultimi grandi misteri sulle stragi del 1993. I boss bravissimi a mandare segnali, per ora stanno in carcere non parlano. E questo, nonostante le parole di Spatuzza aggancino i loro destini passati a quelli di Silvio Berlusconi. “La lettura è giusta”, dice la Chelli. Quindi prosegue: “Questa uscita di palazzo Chigi sul 41 bis apre nuovi scenari. Forse siamo davanti a una nuova trattativa ancora in corso”.

Questo è il quadro. Sul quale, il Dipartimento degli affari giuridici, prendendo la palla lanciata dall’Europa, entra in scivolata. E lo fa, invadendo un campo quasi tutto politico e toccando un argomento delicatissimo in fatto di lotta alla mafia. Per capire basta leggere alcuni passaggi della relazione: “In prospettiva si potrebbe pensare di trasformare il 41 bis da regime speciale a regime ordinario di detenzione o addirittura a pena di specie diversa inflitta dal giudice con la sentenza di condanna e prevedere meccanismi di affievolimento o revoca nel corso dell’esecuzione alla stessa stregua di quanto accade attualmente per tutte le altre pene in genere”.

Insomma, il carcere duro parificato a una detenzione normale, dove a decidere della scarcerazione sarà un giudice e non, come accade ora, il ministero della Giustizia su indicazione delle procure. Il motivo di una tale scelta il governo, però, lo ha in tasca: “I primi 41 bis – si legge nella relazione che conta su una prefazione a firma di Gianni Letta – sono in proroga continua da 15 anni, per cui si percepisce nella magistratura di sorveglianza, un certo disagio nel motivare la perdurante sussistenza dopo tanto tempo di mancati contatti con le associazioni criminali di riferimento anche perché difficilmente la polizia svolge indagini sui condannati e dunque mancano relazioni di polizia giudiziaria effettivamente utilizzabili”. In realtà, diverse indagini giudiziarie, oltre alla commissione Parlamentare antimafia, hanno più volte registrato come i boss di Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra continuino a comandare e a dirigere i propri affari anche dal carcere duro. Eppure, la Corte europea ne fa una questione di diritti umani. “Evidentemente – dice la Chelli – l’Europa ha meno problemi di noi in fatto di mafia”. Di più: “Dove stava l’Europa negli anni delle stragi”.

E così, se pur in via di principio le sentenze europee sollevano un problema presente nelle nostre carceri (al di là del 41 bis), dall’altro l’indicazione rischia di dare fuoco alle polveri di un caso che oggi resta al centro delle inchiesta più importanti su Cosa nostra. Dopodiché, si sa, il carcere duro per i boss siciliani resta il vero cruccio. Lo abbiamo capito già nel 202 quando Leoluca Bagarellaintervenne in aula per lanciare messaggi ai politici. “Le promesse – disse nel suo italiano stentato – non sono state mantenute”. In quello stesso anno, pochi giorni dopo l’approvazione della legge sul carcere duro dagli spalti dello stadio La Favorita di Palermo comparve un ormai storico striscione che recitava: “Uniti contro il 41 bis. Berlusconi dimentica la Sicilia”. E così, quasi dieci anni dopo, il presidente del Consiglio sembra aver ritrovato la memoria, complice, forse, il terrore di una collaborazione da parte dei Graviano. Giovanna Chelli si domanda: “Perché tanta solerzia nell’abolire il 41 bis da parte della presidenza del Consiglio? Perché proprio ora? E comunque per me il 41 bis non viola i diritti umani”. Quegli stessi diritti umani “che Salvatore Riina e i fratelli Graviano si sono messi sotto i piedi la notte dei Georgofili”. Un fatto è certo, oggi a Palermo si sta celebrando un processo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia. Un complicato accordo che tra i suoi vari punti prevedeva l’uscita dal carcere di centinaia di mafiosi.