sabato 30 luglio 2011

Ingroia, caro Paolo ti scrivo: da 19 anni inseguo la verita'.


''Adesso ho 52 anni, la tua eta' di quel 19 luglio di 19 anni anni fa. E la cosa che ho piu' inseguito in questi 19 anni e' stata la verita' sulla tua morte: perche' in questi 19 anni la verita' ci e' stata sempre negata. Finora. Se tu vedessi l'Italia di oggi resteresti impressionato per il puzzo del compromesso morale, ma saresti felice dei tanti giovani liberi che vogliono verita'. Dai quindi a loro e a noi piu' energia e convizione per vincere, per prevalere su chi non vuole la verita'''.
di Antonio Ingroia

Caro Paolo, sono passati 19 anni da quel maledetto 19 luglio 1992. 19 anni che mi manchi, che ci manchi, che non ti vedo più, che non ti incontriamo più. E mi colpisce che 19 sono anche gli anni che ci dividevano: infatti ora ti ho raggiunto, ho la tua stessa età. Gli stessi 52 anni che avevi tu quando sei morto ed è singolare, un segno del destino beffardo, il fatto che mi ritrovo alla tua stessa età, nello stesso posto da te ricoperto (Procuratore Aggiunto alla Procura Distrettuale Antimafia di Palermo). Del resto, in questi 19 anni non ho fatto altro che inseguirti: inseguire la tua ombra, inseguire le tue orme, inseguire il tuo modello, inseguire la tua carriera (insieme a Marsala ed insieme da Marsala a Palermo, e poi fino al posto di Procuratore Aggiunto a Palermo), ma la cosa che ho più inseguito di te è stata un'altra: la Verità sulla tua morte.

Cercando di ispirarmi ai tuoi insegnamenti: inseguire la Verità, cercarla, lottare per trovarla, senza mai rassegnazione, anzi quasi con ostinazione. Perché non posso rassegnarmi all'ingiustizia di una verità dimezzata e quindi incompiuta, e perciò negata. Perché la piena verità sulla tua morte terribile è sempre stata negata. Finora.

Ma a quella verità ho diritto come tuo allievo e come tuo amico, e ne hanno ancor più diritto i tuoi figli, tua moglie, i tuoi fratelli. E non solo i tuoi parenti, anche gli italiani onesti, di ieri e di oggi. E quella verità – lo sento – si avvicina, anno per anno, momento per momento. La verità rende liberi, ma bisogna essere liberi per poter conquistare la verità. Tu avevi un'ossessione per la verità, specie sulla fine di Giovanni Falcone, il tuo migliore amico, quasi un fratello, e anch'io ho una specie di ossessione – lo confesso – per la verità sulla tua morte. Certo, se tu vedessi l'Italia di oggi resteresti impressionato per il puzzo del compromesso morale, ma saresti felice dei tanti giovani liberi che vogliono verità. Dai quindi a loro e a noi ancora più energia e convinzione per vincere, per prevalere su chi non è libero, su chi non vuole la verità.

Noi possiamo dirti, ed io in particolare ti assicuro che faremo, che farò di tutto per trovarla questa verità. E con la verità verrà la giustizia. Il tuo esempio, il tuo modello ci aiuterà, così farai giustizia attraverso tutti noi. Sarà un modo di averti sempre fra noi, perché così, fra noi, ti abbiamo sentito in questi 19 anni, ed ancor più ti sentiremo, convinti di poterti sentire, da domani in poi, in un'Italia più giusta, in un'Italia più uguale. Più libera nella verità. Perché la verità rende liberi. La giustizia rende eguali. E noi vogliamo come te un'Italia più libera e più giusta. Un'Italia senza mafie e senza corruzione. Per rivederti sorridere. Per rivedere sul tuo volto quel tuo sorriso inconfondibile, il sorriso con il quale mi salutasti l'ultima volta che ci incontrammo, quel pomeriggio di metà luglio in Procura. Lo stesso sorriso che hai regalato ai tanti che ti hanno conosciuto, ti hanno apprezzato, ti hanno amato. I tanti dell'Italia migliore.


Il tuo Sostituto

La guerra a Gheddafi e la difficoltà di Eni, Finmeccanica e Impregilo. - di Vittorio Malagutti.


Il cane a sei zampre perde 280 mila barili al giorno. Minori entrate anche per lo Stato.


Milano – Quando tutto è cominciato, a febbraio di quest’anno, Paolo Scaroni aveva tagliato corto con queste parole: “Le agitazioni politiche nei Paesi del Nordafrica non avranno alcun impatto su Eni”. Troppo presto. Troppo facile. Certo, in quel momento solo le solite Cassandre ammonivano sul rischio che la rivolta libica si trasformasse in una vera e propria crisi internazionale. Fatto sta che ieri Scaroni è stato costretto a fare marcia indietro. “Il primo semestre del 2011 – ha spiegato agli analisti il numero uno dell’Eni – ha sofferto della mancata produzione in Libia che ha avuto un impatto su tutti i nostri settori d’attività”. Ecco spiegato, allora, il calo del 6 per cento (a 3,8 miliardi di euro) dei profitti del gruppo nei primi sei mesi dell’anno. E l’effetto Gheddafi si è fatto sentire soprattutto da aprile a giugno, quando la rivolta è diventata una guerra. In quel trimestre la produzione è calata addirittura del 15 per cento, con profitti in diminuzione del 30 per cento circa.

Tutte le attività libiche del cane a sei zampe sono stati chiuse causa guerra e di conseguenza è venuta a mancare una produzione equivalente a 280 mila barili al giorno, tra petrolio e gas naturale. Scaroni assicura che non appena cesseranno le ostilità tutto riprenderà come prima, perché gli impianti non hanno subito danni. Vero, ma tutto dipende, appunto, dalla durata della guerra. Un mese, tre mesi, un semestre intero, o addirittura un anno? Alla lunga le crepe nel bilancio dell’Eni rischiano di allargarsi, anche per i costi supplementari legati alla ricerca di fonti di approvvigionamento che sostituiscano il gas libico.

Per il momento Eni conferma risultati “solidi” per il 2011 e annuncia un acconto di 0,52 euro per azione sul dividendo. Del resto il primo a soffrire per un ipotetico futuro taglio della cedola sarebbe proprio il governo di Roma che direttamente e attraverso la Cassa depositi e prestiti controlla il 30 per cento dell’Eni.
Con i tempi che corrono non è proprio il caso di rinunciare a centinaia di milioni di incassi sotto forma di dividendi. Anche perché di questi tempi un’altra grande azienda di Stato naviga in acque agitate e il vento di guerra che spira dalla Libia contribuisce a complicare le cose.

I guai questa volta riguardano Finmeccanica, che nelle ultime due sedute di Borsa è arrivata a perdere un quarto del proprio valore. Colpa dei risultati deludenti del primo semestre e delle previsioni negative per l’immediato futuro. Tra le aree di sofferenza c’è anche la Libia dove il gruppo che produce, tra l’altro, armi e sistemi elettronici, l’anno scorso aveva siglato nuovi contratti. A cominciare da quello per la fornitura di tecnologia e macchinari in campo ferroviario del valore di circa 250 milioni. “I ricavi cominciano a calare per il mancato apporto di importanti commesse” in Libia, si legge nella relazione semestrale appena pubblicata da Finmeccanica. Tra gennaio e giugno il gruppo è arrivato all’utile di fatto solo grazie a proventi straordinari e tra gli analisti c’è chi prevede un bilancio in rosso per fine anno. Si trovano in difficoltà settori strategici del gruppo come quello ferroviario e (un po’ meno) quello aeronautico. E adesso la crisi libica crea guai supplementari. Anche in questo caso il governo di Roma, che possiede il 30 per cento di Finmeccanica, rischia di perdere risorse preziose. Con l’ultimo dividendo, distribuito a maggio, l’azionista pubblico ha incassato una cedola di 70 milioni, cedola che alla luce dei risultati semestrali appare quantomeno incerta.

Del resto in questo momento è difficile fare previsioni sull’evoluzione della situazione in Libia. La strategia delle bombe non ha fin qui portato risultati tangibili. La guerra tra Gheddafi e i rivoltosi non sembra ancora vicina a una svolta. Così anche un altro grande investitore come il colosso delle costruzioni Impregilo, controllato dai gruppi Benetton, Gavio e Ligresti, è per il momento costretto a rinunciare alle ricche commesse siglate di recente, quando Berlusconi filava d’amore e d’accordo con Gheddafi. Appalti importanti, valore oltre un miliardo, per la costruzione di strade, università, una conference hall a Tripoli. Tutto rinviato a chissà quando. Perché la guerra continua. E i conti sono sempre più in rosso.

Solo pochi giorni fa il Parlamento ha votato il rifinanziamento dell’impegno militare italiano a sostegno delle milizie anti Gheddafi. Fanno 58 milioni per tre mesi carico degli italiani, sotto forma di nuove tasse o tagli ai servizi.


I gargarozzoni di stato.



Può sembrare strano ma il quotidiano Libero ha fatto diverse puntate sulle costumanze della “casta”, un inchiesta con dovizia di dettagli che permette di vedere al meglio chi abbiamo al Senato e Parlamento, eccovi i link :
1 puntata
2 puntata
3 puntata
4 puntata
5 puntata
6 puntata
Dopo questa lettura, lascio a voi i commenti, il mio pensiero è ….

Tremonti spiato, la Finanza smentisce “Non vive in caserma dall’estate del 2004″


La replica informale delle Fiamme gialle raccolta oggi da Repubblica. Il ministro aveva affermato di essersi trasferito nell'appartamento di Marco Milanese, indagato per corruzione, per sfuggire all'indebito controllo dei militari. Ma i tempi non quadrano.


“L’ultima volta che Giulio Tremonti fu ospite con cadenza regolare di una struttura del Corpo fu quando, nei primi mesi dell’estate del 2004, alloggiava in una delle foresterie al secondo piano della caserma di via Sicilia”. Così la Guardia di Finanza smentisce il ministro dell’Economia, che nei giorni scorsi aveva affermato di aver abbandonato l’alloggio a sua disposizione in una caserma delle Fiamme gialle perché si sentiva “spiato”. Si tratta di una smentita non ufficiale – ma circostanziata - raccolta da Repubblica in edicola oggi.

La vicenda era emersa nell’indagine della procura di Napoli a carico di Marco Milanese, deputato del Pdl ed ex consigliere del ministro, inseguito da un ordine di arresto per corruzione e altri reati. Tremonti non è indagato, ma è finito al centro di polemiche roventi per aver utilizzato un lussuoso appartamento romano del suo collaboratore, pagandogli, a suo dire, una quota di affitto “in contanti”. Forse un “errore”, lo ha definito, determinato appunto dalla necessità di sottrarsi alle indebite attenzioni dei militari: “Non ero più tranquillo, mi sentivo spiato, controllato, persino pedinato”.

Ricorda però la Repubblica che lo stesso Tremonti colloca il trasloco da Milanese nel febbraio 2009, cioè cinque anni dopo aver definitivamente lasciato la vita da caserma, come la Guardia di finanza sarebbe in grado di documentare, perché delle attività di vigilanza su una carica così importante “naturalmente si tiene traccia”. Il ministro, inoltre, non ha mai parlato esplicitamente di questi timori nei suoi interrogatori di fronte ai pm napoletani, ma si è riferito genericamente a “cordate” interne al Corpo che si contendevano le prospettive di carriera ai massimi livelli, con relativi rapporti politici. Una di queste, secondo il ministro, farebbe capo al generale Michele Adinolfi, molto vicino a Gianni Lettae al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

I ricordi di Tremonti, nota il quotidiano romano, diventano invece ben più drammatici “in assoluta coincidenza temporale con l’aggravarsi della posizione processuale e politica di Marco Milanese, con l’impossibilità di togliersi d’impaccio dalla vicenda di via di Campo Marzio con una scrollata di spalle, o rapide scuse”. A questo punto è possibile che il ministro dell’Economia sia risentito dalla Procura di Napoli per chiarire tutta la vicenda.



Senato verso il voto sul processo lungo L’ultimo regalo ad personam per B. - di sara Nicoli


Nella fretta i berluscones sbagliano riscrivere l'emendamento commettendo errori di diritto. Per questo, una volta arrivato alla Camera, il documento dovrà essere riscritto dalla maggioranza.


Pongono la (48esima) fiducia a sorpresa, temendo di non riuscire a portarsi a casa prima della chiusura del Senato, l’ultima legge a favore del Cavaliere, il processo lungo. Ma nella fretta spasmodica di mettersi in tasca il risultato, sbagliano clamorosamente a riscrivere l’emendamento cuore dell’articolato (Mugnai) commettendo marchiani errori di diritto che costringeranno poi la maggioranza, una volta alla Camera, a rimetterci le mani. E, a ricominciare tutto daccapo.

Una figuraccia enorme, che vanifica ogni sforzo degli uomini di Berlusconi di costruire un articolato tale da permettere agli avvocati del Cavaliere di allungare a dismisura le liste dei testimoni per raggiungere serenamente la prescrizione di tutti i suoi principali processi.

È stato il senatore dell’Idv, l’avvocato Luigi Li Gotti, a mettere in aula la maggioranza spalle al muro, raccontando ai pochissimi presenti rimasti ad ascoltare un dibattito totalmente inutile dopo la presentazione della fiducia da parte del governo (in aula erano in 13) in quale errore fosse incorsa la compagine degli avvocati berlusconiani di stanza a Palazzo Madama; in pratica, confondendo i numeri di alcuni articoli del codice di procedura penale, quelli legati al reato di strage e quelli sul sequestro di persona con le successive aggravanti, i berluscones in commissione Giustizia hanno escluso dai benefici penitenziari coloro che hanno commesso una strage “se è morto il sequestrato”.

Insomma, un papocchio giuridico, una svista che si tramuta in un mostro giuridico e inficia tutta la legge. Il relatore del processo lungo, Roberto Centaro del Pdl, ha provato fino all’ultimo a convincere le opposizioni a far finta di nulla, consentendogli di mettere mano all’errore, ma il no è stato netto, anche perché il regolamento non lo consente e i funzionari di Palazzo Madama si sono opposti con vigore. Morale; una fiducia sprecata e un buco nell’acqua per il Cavaliere che non potrà vedersi approvata la sua legge entro ottobre, come avrebbe voluto, in modo da mandare a gambe per aria i processi Mills, Mediaset e Mediatrade.

Ma quello di ieri, se possibile, è stata l’ennesima prova di una maggioranza totalmente allo sbando, minata al suo interno e gravata da un’unica, vera urgenza oltre a quella di omaggiare ancora Berlusconi con una legge ad personam; andare in vacanza il prima possibile. Con Renato Schifani, presidente del Senato, vero regista di una grottesca commedia degli equivoci che ha fatto andare su tutte le furie il Pd e ha lasciato perplessa anche la Lega. In un primo momento, infatti, si è offerto di fare da garante del dibattito, evitando di contingentare i tempi, ma minacciando comunque di farlo se le opposizioni avessero tentato manovre ostruzionistiche. Poi, in sua assenza, il governo è arrivato a porre la fiducia, consentendo a Rosi Mauro, la pasionaria leghista che presiedeva l’aula, di chiudere di botto il dibattito che solo più tardi si è riavviato, ma con “solo delle anime morte, non più di una quindicina di senatori – racconta Pancho Pardi dell’Idv – che non avevano alcuna voglia di stare lì”.

È stato in questa atmosfera surreale, da “ottundimento dei sensi” (sono sempre parole di Pardi, ndr) che Felice Casson, ha sparato alzo zero contro la maggioranza: “Vorrei dare un consiglio agli avvocati di Berlusconi – ha detto l’ex pm di Venezia – anche se non ne avrebbero bisogno; di portarsi nei processi a Milano tutte le escort della città, quindi centinaia e centinaia di persone: possono star sicuri che con la nuova norma di legge il giudice non potrà assolutamente dirgli di no. Sia in Internet sia sulle pagine gialle se ne possono trovare centinaia e centinaia”.

Anche dell’Amn, che aveva parlato di normativa capace di “avere effetti devastanti, fino a rischiare la paralisi di tutti i procedimenti pendenti” ma a Montecitorio, a settembre, la strada del processo lungo si annuncia tutta in salita; Giulia Bongiorno, presidente della Commissione Giustizia della Camera ha già detto che per lei è un provvedimento “inaccettabile”.



Sos dal pool anticamorra "Noi, a piedi e senza scorta"


Situazione d'emergenza per gli straordinari non pagati agli autisti. Lettera dei pubblici ministeri al prefetto: chi è esposto rischia di rimanere senza protezione.


di CONCHITA SANNINO

Un "unicum" nel panorama delle Procure antimafia italiane. Mentre a Napoli si accelera nelle inchieste su corruzione (in politica) e crimine organizzato (dentro e fuori le istituzioni) i pubblici ministeri del pool anticamorra di Napoli denunciano di essere rimasti "senza tutela". In due parole: a piedi. Dalle 18 in poi, ormai di fatto è "vietato" restare a lavorare. Il motivo? Non vi sono autisti disponibili ad accompagnarli nelle auto blindate, cosiddette di tutela. Il caso, anticipato da Repubblica e confermato dal procuratore Giandomenico Lepore con una punta di amarezza, finisce ora nero su bianco all'attenzione del prefetto Andrea De Martino. E a scrivere, sono proprio i pm.

LA SUCCESSIONE/Ecco i 16 candidati alla guida della Procura

Al centro della vicenda, il braccio di ferro in corso tra gli autisti addetti alla guida delle blindate assegnate alla Distrettuale antimafia ed il Ministero della giustizia. Il quale deve a questi lavoratori un anno intero di arretrati (il 2010) più alcuni mesi del 2011. "Non ci pagano lo straordinario, e dalle 18 basta servizio", è stato il legittimo annuncio. Lasciando pm e procuratori "a piedi": paradossale visto che per almeno 15 di loro è alta la soglia di rischio. Lepore aveva già detto: "Speriamo che il ministro Tremonti firmi presto questo provvedimento".

Dopo l'sos di alcuni magistrati, come Antonello Ardituro, ieri è il pm Cesare Sirignano a mettere nero su bianco l'allarme. Non è un caso. Sirignano è autore di catture di capiclan e vari blitz, dai killer del clan Setola ai rapporti economico-mafiosi con le articolazioni mafiose di Totò Riina: ma soprattutto, insieme con il pm Alessandro Milita, è uno dei magistrati già minacciati dai clan, vedi le parole di morte del detenuto Giovanni Venosa, estorsore e nipote del boss (omonimo) dei casalesi (nonché attore - non per caso - nel film Gomorra).

Scrive Sirignano: "Gli autisti di questo ufficio si astengono dalle prestazioni straordinarie, adducendo ragioni connesse al mancato pagamento degli emolumenti. I magistrati dell'ufficio (...) hanno fino ad oggi mostrato ampia comprensione". Ma la situazione comincia a diventare pesante. Spiega il pm: "Incide sulla funzionalità, e determina di fatto una pericolosa interruzione del dispositivo di protezione previsto per i magistrati esposti a pericolo. In mancanza di risposte immediate del Ministero e in previsione del protrarsi dello stato di agitazione per la carenza di fondi - sottolinea ancora il sostituto - appare urgente procedere all'adozione dei necessari provvedimenti". Appare peraltro "incomprensibile" che quando i magistrati sono in ufficio al lavoro e dunque non è necessaria l'auto, "venga assicurata la funzionalità del servizio di accompagnamento; e che, viceversa, "quando il magistrato lascia l'edificio in cui presta la propria attività per l'intera giornata, sia privato sia dell'accompagnamento sia, soprattutto, della tutela".

http://napoli.repubblica.it/cronaca/2011/07/29/news/sos_dal_pool_anticamorra_noi_a_piedi_e_senza_scorta-19767709/?ref=HREA-1


Ecco perchè il doppio Giulio non ci convince per nulla. - di Franco Bechis



Ecco perché il doppio Giulio non ci convince per nulla

L’unica cosa che aveva regalato finora agli italiani era una battuta o poco più. Un comunicato di poche righe nel giorno più difficile, e uno scherzoso «mi sono dimesso… da inquilino», con cui Giulio Tremonti aveva pensato di archiviare la vicenda della casa romana sbucata fra le pieghe del caso Milanese. C’è voluta la punzecchiatura del suo amato Corriere della Sera (il quotidiano con cui collaborava) e il richiamo di una firma illustre come quella dell’ambasciatore Sergio Romano che stigmatizzava quella casa pagata in nero dal ministro che insegue gli evasori per convincere Tremonti a qualche passettino in più.
Il ministro dell’Economia ieri ha scritto una breve lettera al quotidiano diretto da Ferruccio De Bortoli e l’ha accompagnata per non fare torto al rivale in edicola a una chiacchierata informale con il vicedirettore di Repubblica, Massimo Giannini. Al Corriere ha raccontato di essere un ricco professionista e rivelato di ricevere come tutti i ministri 2.390 euro al mese di stipendio in contanti. Quindi per uno come lui non è stato un problema dare 4 mila euro mensili in contanti a titolo di rimborso spese per la casa che gli aveva messo a disposizione il suo collaboratore Marco Milanese. Per Tremonti non si tratterebbe di nero perché «fra privati cittadini non era dovuta l’emissione di fattura o vietata la forma di pagamento». Il ministro spiega di avere raggiunto un accordo verbale con Milanese e di avere pensato all’inizio «a un diverso contratto, che ho poi subito escluso per ragioni personali». E sostiene di non avere fatto nulla di male. A Repubblica invece la versione fornita è assai diversa, e in qualche passaggio addirittura divergente. Per prima cosa Tremonti ammette: «Ho fatto una stupidata». Poi aggiunge una spiegazione choc (che peraltro era già stata rivelata da Libero qualche settimana fa): «In quella casa ci sono andato per banale leggerezza. Il fatto è che prima ero in caserma, ma non mi sentivo più tranquillo. Nel mio lavoro ero spiato, controllato, pedinato».
Nel lungo colloquio Tremonti aggiunge di essersi sentito spiato perfino in hotel e che per questo dal febbraio 2009 ha deciso di «accettare l’offerta di Milanese. L’ospitalità di un amico, presso una abitazione che non riportava direttamente al mio nome, mi era sembrata la soluzione per me più sicura».
Basta tutto ciò a cancellare ombre? Francamente no. Anzi la duplice versione di Tremonti pare aggiungere ombra ad ombra. Per chiarire bisognerebbe andare avanti settimane con carteggi e colloqui confidenziali. E già in questo c’è la principale anomalia. Tremonti è il capo del fisco italiano. Negli ultimi due anni ha varato misure assai severe su evasione ed elusione fiscale. Il suo mandato all’Agenzia delle Entrate è stato recuperare ad ogni costo 10 miliardi di euro l’anno scorso (obiettivo raggiunto) e 20 miliardi nell’anno in corso. Non ci possono essere ombre sui comportamenti fiscali privati di chi obbliga tutti gli altri a una condotta rigorosa. Quando quelle ombre sono emerse sulla casa romana di Tremonti, il ministro non avrebbe dovuto attendere nemmeno un giorno. La soluzione più naturale sarebbe stata convocare una conferenza stampa ed accettare di rispondere a qualsiasi domanda fosse arrivata. In quel modo si sarebbe rivolto ai contribuenti italiani e non ai giornalisti di fiducia, che è ben altra cosa. Questa incapacità di parlare all’elettorato e a tutti gli italiani sta diventando un handicap grave nel centro-destra. Lo avesse fatto Tremonti avrebbe forse chiarito quel che al momento è ancora oscuro.
Che significa che fra privati può girare del nero? Non è forse privata la mia padrona di casa a cui pago l’affitto? Lo devo fare in contanti e lei semplicemente incassarlo nel disinteresse del fisco? Si poteva quindi non firmare un contratto con la mia padrona di casa per «ragioni personali» come quelle misteriosamente citate dal ministro dell’Economia? Se è così per Tremonti, deve essere così anche per tutti gli altri italiani.
Abbiamo letto su Repubblica qualche giorno fa Milanese negare qualsiasi rapporto di amicizia con il ministro: «Gli do del lei e lo chiamo professore». Due giorni dopo Tremonti spiega di essersi sentito più sicuro con «l’ospitalità di un amico». Le due versioni palesemente stridono. Quale è falsa?
Infine la domanda più rilevante: quanti anni ha passato il ministro a sentirsi spiato e perfino pedinato prima di riparare nel 2009 a casa Milanese? Quali sono le prove di un’accusa così grave? È stata denunciata alla magistratura? Ha chiesto di essere sentito dal Copasir? Ha dovuto prendere in questa situazione decisioni che altrimenti non avrebbe preso? Non sono domande inutili. Inutile è il rimpallo con i giornalisti amici. Che contano assai meno dei contribuenti italiani.