Le incertezze sull’efficacia della manovra finanziaria, i perenni ribassi di borsa e la tensione crescente sui titoli di Stato, hanno spinto al rialzo il valore dei Credit default swaps a protezione del debito italiano permettendo a questi ultimi di sfondare per la prima volta quota 500 punti base (assicurare un credito da 10 milioni di euro con l’Italia costa 500 mila euro). Un valore che, formule matematiche alla mano, si traduce in un rischio fallimento da record. Nell’opinione dei mercati, in altri termini, le probabilità che l’Italia dichiari bancarotta entro il 2016 sono pari al 34,94%. Allo stato attuale, rende noto Cma Datavision – insieme a Markit la principale società di monitoraggio dei mercati extraborsistici dei titoli derivati – quello raggiunta oggi dall’Italia è il 7° peggior risultato del mondo. Come a dire che solamente sei Paesi, ad oggi, hanno rispetto all’Italia maggiori probabilità di fallire da qui a 5 anni.
Le misurazioni compiute da Cma, come detto, si concentrano sui Credit default swaps (Cds), i derivati assicurativi, utilizzati per scaricare i rischi delle potenziali sofferenze creditizie. Con la sottoscrizione di questi contratti, una parte (A) si impegna a tutelare l’altra (B) dall’impossibilità di recuperare un credito a fronte dell’ipotetica bancarotta del debitore (C). In sostanza A si fa garante del debito di C ma deve essere retribuito da B in proporzione al rischio. Tanto è elevato quest’ultimo, tanto maggiore sarà la retribuzione, ovvero il costo dei Cds. Il cui valore, va da sé, finisce per misurare nel caso dei bond sovrani il rischio di un Paese.
Ed eccola, dunque, la classifica aggiornata dagli analisti di Cma. Al primo posto c’è la Grecia i cui Cds sovrani valgono 4.810,90 punti base: tradotto, per assicurarsi dal rischio default su 10 milioni di euro di obbligazioni da Atene, occorre sborsare 4,8 milioni, quasi la metà della cifra investita. A conti fatti, spiegano da Cma, il fallimento della Grecia da qui al 2016 è praticamente cosa fatta (oltre 93 probabilità su 100). A seguire, ma con distacco, c’è il Portogallo (1.279 punti base per una probabilità di default al 62,98%) che si piazza davanti al Venezuela (1.173,5 / 56,33%). Fuori dal podio l’Irlanda (954,41 / 52,51%), il Pakistan (942,6 / 47,73%) e l’Argentina (833,40 / 44,92%). Nessun altro Paese, all’infuori di questi, procede come l’Italia che, ormai, ha ampiamente scavalcato la Spagna (444,09 punti base e rischio bancarotta al 31,56%).
Quella calcolata dai Cds, resta per fortuna una probabilità di default virtuale. Un po’ perché tra il default tecnico e quello catastrofico ci sono varie soluzioni intermedie – rollover, haircut etc – per le quali i derivati non vengono liquidati (ovvero “l’assicurazione” non paga), un po’ perché i Cds stessi non sono semplici polizze assicurative acquistate da chi ha un legittimo interesse a proteggersi (i detentori dei titoli di Stato) ma veri e propri strumenti di speculazione. Il prezzo dei Cds norvegesi, per fare un esempio, vale 51,33 punti base, equivalenti a una probabilità di default a cinque anni del 4% circa. Ma la possibilità che la Norvegia vada in bancarotta è in realtà pari praticamente a zero, nel senso che nessun investitore sano di mente potrebbe prendere realmente in considerazione un’ipotesi del genere. Ciò non toglie, tuttavia, che movimentando il mercato di questi titoli, gli investitori stessi possano puntare su un loro rialzo guadagnando sullo spread. Nell’ultimo periodo preso in esame, il rischio default “reale” della Norvegia è rimasto praticamente “sottozero”, ma i suoi Cds hanno offerto rendimenti marginali dell’8,24%, praticamente come quelli italiani (+8,44%).
Insomma, la bancarotta italiana a cinque anni resta ancora un evento improbabile. Ma ciò non toglie che i motivi di preoccupazione non manchino tanto nel breve quanto nel medio periodo. L’Italia, per fare un esempio, ha raggiunto un rischio default pari a quello registrato dall’Irlanda un anno fa. Nell’autunno 2010, l’Irlanda aveva 1 possibilità su 3 di fallire entro il 2015. Oggi, come si diceva, ne ha 1 su 2 entro il 2016. Non è assolutamente detto che l’Italia replichi esattamente questo trend, anzi, in definitiva è altamente improbabile. Ma è certo che la risalita dei prezzi dei Cds peserà negativamente sull’asta dei bond di domani quando l’Italia sarà chiamata a piazzare sul mercato fino a 7 miliardi di euro in Btp quinquennali. Il tutto, ovviamente, senza il sostegno della Bce che, come noto, non può acquistare i bond direttamente alle aste ma solo sul mercato secondario.
Le misurazioni compiute da Cma, come detto, si concentrano sui Credit default swaps (Cds), i derivati assicurativi, utilizzati per scaricare i rischi delle potenziali sofferenze creditizie. Con la sottoscrizione di questi contratti, una parte (A) si impegna a tutelare l’altra (B) dall’impossibilità di recuperare un credito a fronte dell’ipotetica bancarotta del debitore (C). In sostanza A si fa garante del debito di C ma deve essere retribuito da B in proporzione al rischio. Tanto è elevato quest’ultimo, tanto maggiore sarà la retribuzione, ovvero il costo dei Cds. Il cui valore, va da sé, finisce per misurare nel caso dei bond sovrani il rischio di un Paese.
Ed eccola, dunque, la classifica aggiornata dagli analisti di Cma. Al primo posto c’è la Grecia i cui Cds sovrani valgono 4.810,90 punti base: tradotto, per assicurarsi dal rischio default su 10 milioni di euro di obbligazioni da Atene, occorre sborsare 4,8 milioni, quasi la metà della cifra investita. A conti fatti, spiegano da Cma, il fallimento della Grecia da qui al 2016 è praticamente cosa fatta (oltre 93 probabilità su 100). A seguire, ma con distacco, c’è il Portogallo (1.279 punti base per una probabilità di default al 62,98%) che si piazza davanti al Venezuela (1.173,5 / 56,33%). Fuori dal podio l’Irlanda (954,41 / 52,51%), il Pakistan (942,6 / 47,73%) e l’Argentina (833,40 / 44,92%). Nessun altro Paese, all’infuori di questi, procede come l’Italia che, ormai, ha ampiamente scavalcato la Spagna (444,09 punti base e rischio bancarotta al 31,56%).
Quella calcolata dai Cds, resta per fortuna una probabilità di default virtuale. Un po’ perché tra il default tecnico e quello catastrofico ci sono varie soluzioni intermedie – rollover, haircut etc – per le quali i derivati non vengono liquidati (ovvero “l’assicurazione” non paga), un po’ perché i Cds stessi non sono semplici polizze assicurative acquistate da chi ha un legittimo interesse a proteggersi (i detentori dei titoli di Stato) ma veri e propri strumenti di speculazione. Il prezzo dei Cds norvegesi, per fare un esempio, vale 51,33 punti base, equivalenti a una probabilità di default a cinque anni del 4% circa. Ma la possibilità che la Norvegia vada in bancarotta è in realtà pari praticamente a zero, nel senso che nessun investitore sano di mente potrebbe prendere realmente in considerazione un’ipotesi del genere. Ciò non toglie, tuttavia, che movimentando il mercato di questi titoli, gli investitori stessi possano puntare su un loro rialzo guadagnando sullo spread. Nell’ultimo periodo preso in esame, il rischio default “reale” della Norvegia è rimasto praticamente “sottozero”, ma i suoi Cds hanno offerto rendimenti marginali dell’8,24%, praticamente come quelli italiani (+8,44%).
Insomma, la bancarotta italiana a cinque anni resta ancora un evento improbabile. Ma ciò non toglie che i motivi di preoccupazione non manchino tanto nel breve quanto nel medio periodo. L’Italia, per fare un esempio, ha raggiunto un rischio default pari a quello registrato dall’Irlanda un anno fa. Nell’autunno 2010, l’Irlanda aveva 1 possibilità su 3 di fallire entro il 2015. Oggi, come si diceva, ne ha 1 su 2 entro il 2016. Non è assolutamente detto che l’Italia replichi esattamente questo trend, anzi, in definitiva è altamente improbabile. Ma è certo che la risalita dei prezzi dei Cds peserà negativamente sull’asta dei bond di domani quando l’Italia sarà chiamata a piazzare sul mercato fino a 7 miliardi di euro in Btp quinquennali. Il tutto, ovviamente, senza il sostegno della Bce che, come noto, non può acquistare i bond direttamente alle aste ma solo sul mercato secondario.