martedì 29 novembre 2011

L'aiuto del Sismi e anche un rogo. Una microspia svela i piani di don Verzè.



Registrato anche un colloquio con l'ex capo dei Servizi Pollari: «quello non vende, manda la Finanza»

MILANO - È dicembre 2005 e don Luigi Verzè, il gran capo dell'ospedale San Raffaele, ha le microspie nel suo ufficio. Non sa che un'inchiesta della magistratura sta legalmente violando la sua privacy. Non si era mai saputo finora.
Non lo sa mentre parla con Nicolò Pollari, l'allora direttore dei servizi segreti militari (Sismi), delle difficoltà politiche dell'amico comune Silvio Berlusconi, della scalata alla Bnl e dei controlli fatti su Stefano Ricucci a favore di Sergio Billè. È ignaro, don Verzè, che qualcuno lo sta ascoltando quando accoglie Cesare Geronzi per parlare di politica o quando risponde alla telefonata dell'«eminenza» vaticana che gli chiede un favore. Con Mario Cal, il manager suicida, conversa di una «grana» giuridica da sistemare con Roberto Formigoni e la Regione Lombardia. E certo il prete che si ispira a San Matteo apostolo («Guarite gli infermi») non immagina che le cimici elettroniche stiano captando il suo piano diabolico per fiaccare la resistenza di un vicino che non intende liberare un terreno.
I BROGLIACCI SEPOLTI - L'inchiesta in corso dovrebbe essere un rivolo di quella sulla maga Ester Barbaglia per presunto riciclaggio (accusa poi rivelatasi infondata) del denaro del clan calabrese dei Morabito. La Barbaglia alla fine del 2004 aveva creato, nello studio di Enrico Chiodi Daelli, notaio storico del San Raffaele, una Fondazione con un patrimonio di 28 milioni destinato alla Fondazione Monte Tabor di don Verzè. È il nesso, probabilmente, alla base delle intercettazioni. Le indagini, però, hanno subito escluso qualsiasi ipotesi a carico del fondatore del polo sanitario milanese. Tant'è che è rimasto sepolto per anni il fascicolo con centinaia di pagine di brogliaccio, cioè il riassunto di conversazioni captate nell'ufficio di don Verzé tra dicembre 2005 e settembre 2006. Molti i «buchi» per i guasti alle apparecchiature e le difficoltà di ricezione. Alla fine non sono molte le conversazioni «rilevanti».
LA FINANZA AL CAMPO DI CALCETTO - È il 13 gennaio 2006 alle 11,32 del mattino quando nell'ufficio di presidenza del San Raffaele «entra l'ing. Roma (capo dell'ufficio tecnico, ndr) al quale don Verzè - riassume l'operatore delle Fiamme Gialle all'ascolto - anticipa che farà venire la Guardia di Finanza per fare i verbali a coloro che giocano a calcio presso gli impianti sportivi vicini al San Raffaele che lo stesso don Verzè vuole acquisire ma che uno dei titolari, tale Lomazzi, non vuole cedere».
I Lomazzi, secondo le informazioni raccolte dal Corriere , avevano un regolare contratto d'affitto (scadenza 2008) su quei terreni del San Raffaele. Ci avevano investito costruendo campi da tennis, calcio e calcetto, spogliatoi ecc. Nel 2005 e nell'inverno 2006 hanno anche subìto due incendi dolosi con blocco dell'attività e danni notevoli. Sembravano avvertimenti. Carabinieri e polizia fecero indagini, senza risultato.
«L'ing. Roma - prosegue il sunto della conversazione intercettata - dice che i finanzieri dovranno chiedere la ricevuta ai giocatori, ricevuta che non avranno perché pagano tutti in nero e così la Finanza inizierà a fare le multe sia ai giocatori sia a Lomazzi ...». Don Verzè non si scompone, tutt'altro, «chiede a che ora dovrebbe mandare la Finanza e l'ing. Roma risponde dalle 21 circa». Non risulta però che un sacerdote abbia titolo per «mandare la Finanza». Dunque?
UN «PIACERINO» DAL SISMI - Passa un'oretta ed «entra in studio tale dott. Pollari». Cioè Nicolò Pollari, generale della Guardia di Finanza, in quel momento anche direttore del Sismi, i servizi segreti militari, finito sotto processo per il sequestro di Abu Omar e attività di «dossieraggio», oggi consigliere di Stato. Da poco Pollari, come ha documentato Il Fatto, aveva acquistato una villa a Roma dal San Raffaele pagandola (500 mila euro) la metà dei soldi sborsati anni prima da don Verzè.
Parlano di politica e a proposito di Berlusconi (in quel momento capo di un governo agli sgoccioli) «Pollari confida a don Verzè che sono momenti difficilissimi», che «lui è preso da molti problemi e la misura della sua buona fede io la valuto ... prima di tutto perché gli voglio bene». «Don Verzè dice: "È travolto dal suo entusiasmo ... lui adesso purtroppo si è lasciato andare ..un pochettino eh eh ... per correttezza morale... però tiene molto alla famiglia". Pollari: "Sì qualche giro di valzer" ...».
La conversazione scivola sulle scalate bancarie, tema caldissimo in quell'inizio 2006. I due parlano di Sergio Billè, ex presidente della Confcommercio. «È un amico - dice il capo del Sismi - sto cercando di difenderlo in tutti i modi ... la storia di Ricucci... posso dirti la verità... Billè è stato informato... puntualmente sulla vicenda di Ricucci almeno da un anno e mezzo». Dossier Ricucci pro Billè, par di capire. Mezz'ora di chiacchiere e poi don Verzè va al punto: «Chiede un aiuto a Pollari per mandare la Gdf da Lomazzi in modo che lo stesso Lomazzi possa cedere una parte del terreno per costruire un residence per studenti. Poi si salutano e Pollari dice che si interverrà su Letta per il finanziamento sulla ricerca ...».
IL BASTONE E IL VANGELO - Temi alti. Poi terra terra. Il sacerdote nato nel 1920 da un latifondista e da una nobildonna veneta, ex segretario del Santo don Giovani Calabria e prediletto del Beato Cardinale Ildefonso Schuster, vuole cacciare il Lomazzi, quello del centro sportivo. «Don Verzè - rilevano le microspie - dice (all'ingegner Roma, ndr) di fare un sabotaggio e di stare attento ai cavalli e all'asilo», che sono del San Raffaele.
«L'ing. Roma specifica di aver individuato il generatore... sarà sabotato il quadro elettrico ... quindi i campi non potranno essere illuminati e quando gli amici dell'ing. Roma andranno da Lomazzi a fargli la proposta di acquisto (per conto del San Raffaele) "sarà in ginocchio..."».
Qualche giorno dopo l'ingegner Roma bussa alla presidenza. I microfoni nascosti afferrano la conversazione, così riassunta: «Roma dice a don Verzè che quando lui sarà in Brasile ci sarà del fuoco, facendo riferimento ai fili del quadro elettrico degli impianti sportivi di Lomazzi che verranno liquefatti».
Metodo don Verzè: il bastone e il vangelo.

Il maxidebito di Berlusconi [ rapporto sui suoi 4 governi ]. - Adriano Bonafede e Massimiliano Di Pace




Che cosa resterà di Silvio Berlusconi? Qual è l’eredità che i suoi governi lasciano nei conti dello Stato e nell’economia italiana? Al di là dei giudizi di parte, sia negativi che positivi, che per lungo tempo (ora un po’ meno) hanno diviso l’opinione pubblica, i suoi esecutivi possono essere valutati anche in termini puramente numerici. 
E, si sa, almeno la matematica non è un’opinione. 
Il numero più importante da tenere in mente è 546. Miliardi di euro. 
Ovvero l’incremento del debito pubblico causato dagli esecutivi del Cavaliere
Questo numero si ottiene come differenza tra il livello del debito pubblico alla fine e all’inizio di ciascuno dei quattro governi di Berlusconi. Si tratta di quasi un terzo, esattamente il 28,7 per cento, di tutto il debito pubblico italiano. Tenuto conto che la durata complessiva degli esecutivi di Berlusconi (9 anni) rappresenta solo il 14,2% della storia dell’Italia repubblicana (63,5 anni), se ne deduce che il Cavaliere ha accumulato debito ad una velocità doppia rispetto alla media degli altri governi repubblicani. 
Di conseguenza, i vari governi targati centrodestra sono costati all’Italia, in termini di incremento del debito pubblico, 60 miliardi di euro all’anno, ossia 1.000 euro per ogni cittadino italiano. Quindi, la permanenza di Berlusconi a Palazzo Chigi per 9 anni ci ha lasciato un conto da pagare di 9mila euro a persona, ovvero, per una famiglia tipo di 4 persone, di 36mila euro, cifra da ripagare con futuri tagli della spesa e dei servizi pubblici, e un incremento delle imposte.
E anche se si valuta l’operato dell’expremier dal punto di vista del rapporto debito/Pil, risulta ancora più evidente la sua pessima performance. Nel 2008, quando Berlusconi prendeva per l’ultima volta le redini del governo, poteva contare su un rapporto debito/Pil lasciato da Prodi con i conti del 2007 pari a 103,6 per cento, mentre dopo 3 anni di governo lo lasciava, a fine 2010, a 119,1 per cento. Si tratta di ben 15,5 punti in più di crescita del debito rispetto al Pil, ossia 5,2 punti in più all’anno. Per trovare uno sprint così fulmineo del debito italiano bisogna risalire alla metà degli anni ’80 e ai primi anni ’90, ma allora non c’era il Patto di stabilità, che costringe (o dovrebbe costringere) i paesi dell’area euro a una politica economica virtuosa.
Non possono davvero essere dimenticati questi numeri, 546 miliardi e il 119,1 per cento del Pil, perché se l’Italia è stata ed è ancora sotto attacco da parte dei mercati, ciò è dovuto proprio al peso di un debito che appare insostenibile.
E’ vero che anche gli altri paesi europei hanno sperimentato dopo il 2008 una crescita significativa del debito pubblico, in alcuni casi anche più veloce dell’Italia, ma è anche vero che, contrariamente a quanto affermato dalla propaganda del centrodestra, la loro situazione era e resta di gran lunga migliore di quella italiana. Se ne ha conferma esaminando i dati del bollettino periodico della Banca d’Italia "Statistiche di finanza pubblica nei paesi dell’Ue": a fine 2010 il rapporto debito/Pil dell’Italia era al 119%, molto di più della Francia, che ne aveva uno dell’82%, della Germania (83%), della Gran Bretagna (80%), per non parlare della Spagna (60%). 
Ma, se si vuole, la più grande colpa dei governi Berlusconi non è tanto quella di aver accresciuto dopo il 2008 il debito pubblico, in condizioni certo eccezionali in tutto il mondo, quanto di non averlo ridotto abbastanza nei cinque anni cruciali, dal 2001 al 2006. Un paese, come l’Italia, che era stato ammesso nel Club dell’Euro anche se non rispettava il parametro del debito al 60 per cento, avrebbe dovuto proseguire a tappe forzate in questa riduzione, e non soltanto perché lo reclamavano i trattati, ma anche per mettere un po’ di fieno in cascina in previsione di tempi meno buoni (quello che poi è davvero accaduto). E invece non lo ha fatto con la necessaria convinzione e con la necessaria rapidità, visto il livello monstre raggiunto dal debito italiano. Tra il 2001 e il 2004, il governo Berlusconi è riuscito a ridurre di soli 2,2 punti il rapporto debito/pil, passando dal 108,8 al 106,6 per cento, mentre poi Prodi in un solo anno, tra il 2006 e il 2007, lo ha ridotto di 3 punti, portandolo al livello più basso mai visto in Italia da quando c’è l’euro, ovvero il 103,6. Con il ritorno del centro destra, nel 2008, è iniziata la rapida rincorsa verso il livello di 119,1, valore che verrà superato di parecchio nel 2011. Anche qui un’osservazione: l’Italia, pur dovendo affrontare una crisi epocale, avrebbe dovuto farlo con più sapienza, magari tagliando le spese improduttive e dando più soldi alle imprese, anche attraverso il rilancio delle opere pubbliche. Invece la verità è che il governo di centrodestra non ha mai voluto scegliere una rotta chiara per portare in salvo la nave Italia, limitandosi invece a riparare le falle via via che apparivano, un po’ qui e un po’ là.
Ma il poco gradito lascito del nostro expremier non finisce qui. Infatti nell’asse ereditario del Cavaliere c’è anche il blocco dello sviluppo economico italiano. Tra il 2001 e il 2010, un decennio quasi tutto ad appannaggio del Cavaliere, visto che il secondo esecutivo di Prodi è durato meno di 2 anni, il Pil italiano è cresciuto in media di uno striminzito 0,4 per cento all’anno. Decisamente poco. Il centrodestra ha sempre detto che la colpa era della crisi internazionale. Ma allora come spiegare che nello stesso periodo il Pil della Francia è cresciuto in media dell’1,1%, del 1% quello tedesco, dell’1,7% quello inglese, del 2,1% quello spagnolo, e del 1,4% quello medio della Ue?
Dunque i casi sono due: o Bin Laden (che scatenò con i suoi attacchi terroristici la recessione del 2001) e la finanza internazionale (che determinò la crisi del 2008) ce l’avevano proprio con il nostro paese, oppure è la politica economica del leader del centrodestra, tutta centrata sugli annunci televisivi e sull’invito all’ottimismo, ma priva di contenuti concreti, a non essere stata efficace, nonostante le indimenticabili e reiterate promesse di un nuovo miracolo economico italiano.
E non è neppure colpa dell’euro – un altro refrain che Berlusconi ha ripetuto spesso agli italiani anche dopo aver lasciato la poltrona di Palazzo Chigi visto che 3 dei 4 paesi che abbiamo utilizzato per il confronto condividono con noi la moneta unica. Se vi è stato un miracolo di Berlusconi in Italia, è stato quello di avviarne in maniera inarrestabile il declino economico, situazione testimoniata dal fatto che a inizio decennio (quando il nostro paese era la quintasesta potenza economica mondiale), il Cavaliere ereditava un paese che aveva un reddito pro capite del 18 per cento superiore alla media comunitaria (Ue a 27 paesi). Presentandosi al Quirinale per le dimissioni il 12 novembre scorso, Berlusconi consegnava un’Italia il cui Pil pro capite era pari a quello medio comunitario (dato del 2010), un valore modesto, visto che include il reddito dei paesi più poveri dell’Europa orientale. Una decadenza tutta italiana, visto che tra il 2001 ed il 2010 il Pil pro capite della Francia è sì sceso, passando dal 115 al 107 per cento, ma molto meno. Quello tedesco è invece salito dal 116 al 117 per cento, mentre quello inglese è calato dal 120 al 114 per cento; quello spagnolo è cresciuto dal 98 al 100 per cento. Dunque, nessuno dei principali paesi comunitari ha perso in questo periodo 18 punti di pil pro capite, e comunque tutti stanno meglio dell’Italia, salvo la Spagna, che tuttavia in questo decennio, nonostante la crisi, ha guadagnato 2 punti.
È un mito berlusconiano, coniato a uso e consumo di chi non sa guardare i numeri dell’economia, anche quello di non aver "messo le mani nelle tasche degli italiani". Ancora una volta gli spietati numeri forniti dalla Banca d’Italia nelle sue relazioni annuali dimostrano che anche quella di non aver accresciuto le imposte è un’altra favola raccontata da questo formidabile creatore di miti alla rovescia. Tra il 2000, anno di un governo di centrosinistra, e il 2010, le imposte dirette sono infatti aumentate comunque del 30,8 per cento, molto di più dell’incremento dell’inflazione, pari al 23,1 per cento. Quelle indirette sono cresciute del 24, i contributi sociali del 45,8, le altre entrate del 42,9, mentre il complesso del gettito è aumentato del 33,7 per cento, ossia 11 punti in più rispetto all’incremento dei prezzi. In pratica le imposte sono cresciute in termini reali di oltre un punto l’anno.
Parallelamente è cresciuta, durante gli esecutivi di centrodestra, la spesa pubblica. Nel 2010 la spesa era pari a 794 miliardi di euro, il 46,5 per cento in più rispetto ai 542 mld del 2000, pur essendo nello stesso periodo i prezzi aumentati solo del 23,1 per cento. Insomma, l’imprenditore che si era presentato agli italiani come l’homo novus della politica, capace di rimettere a posto i disastrati conti dell’Italia, in realtà è stato l’ennesimo assaltatore della diligenza della spesa pubblica, tanto da dare quasi il colpo di grazia alle nostre finanze, come dimostra il giudizio delle agenzie di rating, che si basano non sulle simpatie o antipatie, ma sui numeri che abbiamo visto.
A questo punto dovrebbe essere chiaro anche ai non addetti ai lavori perché i mercati abbiano preso particolarmente di mira l’Italia. Il motivo è semplice: al di là dei nodi irrisolti della costruzione europea <\-> che certo pesano <\-> il nostro paese non soltanto è molto indebitato ed ha una crescita economica ridotta al lumicino, ma ha anche una classe politica, e buona parte della stessa cittadinanza, assolutamente prive della consapevolezza della gravità della situazione.
A questo punto bisognerà pagare il conto dell’eredità negativa di Berlusconi. Chi lo farà, e come? Sarà il Governo Monti a dare queste risposte. E si potranno avere opinioni diverse sulle misure da prendere. Ma sull’eredità del Cavaliere, almeno, i numeri non dovrebbero permettere ulteriori discussioni.



http://www.repubblica.it/supplementi/af/2011/11/28/copertina/001talento.html

lunedì 28 novembre 2011

Ministri a tutto spreco. - di Emiliano Fittipaldi





Tour elettorali. Difesa dei dialetti. Comitati ed enti inutili. Ecco come durante il governo Berlusconi nei piccoli dicasteri si sono moltiplicati uffici e poltrone. E le spese pazze.


All'ex ministro Gianfranco Rotondi piace viaggiare. Responsabile dell'"Attuazione del programma di governo", in tre anni ha girato una ventina di città italiane per spiegare ai cittadini quanto belli e bravi fossero il premier e la sua squadra. Dal palco ometteva di ricordare, però, che gli eventi "Governincontra" ci sono costati un occhio della testa: nel 2010 per la propaganda di Rotondi e del sottosegretario Daniela Garnero Santanché sono stati bruciati 1,6 milioni di euro. Una somma, va detto, che comprende anche l'importante "Osservatorio sulla valutazione delle politiche governative", di cui non si ha traccia. L'anno scorso Rotondi ha investito anche 41 mila euro per "spese di rappresentanza", 260 mila euro per esperti ed incarichi speciali, 397 mila per i suoi fedelissimi collaboratori. Alla fine dell'anno la baracca è costata 2,5 milioni, uno sproposito, visto che ai tempi di Romano Prodi ne costava 800 mila di meno.

Il dipartimento che fu di Rotondi secondo i maligni è l'espressione perfetta del "ministero inutile". Quegli organismi che fanno capo alla presidenza del Consiglio, che costano milioni di euro e che producono poco o nulla. Retti in genere da ministri senza portafoglio che spesso hanno funzioni e deleghe che potrebbero essere accorpate ad altri ministeri più importanti. Il neo premier Mario Monti ne ha cancellati sei, ma leggendo gli ultimi bilanci scovati dall'"l'Espresso" forse avrebbe potuto tagliarne ancora di più: i costi di comitati inoperosi, iniziative bislacche, sedicenti esperti e spese pazze non si contano. 

Partiamo dagli uffici retti fino a qualche giorno fa da Raffaele Fitto, responsabile dei "Rapporti con le Regioni e la coesione territoriale". Il dipartimento costa 1,7 milioni di euro l'anno (tra stipendi, interpreti e indennità varie), ma oltre la metà delle sue erogazioni servono unicamente a "tutelare" le cosiddette minoranze linguistiche "storiche". Tra interventi ad hoc e l'apposito "fondo nazionale", nel 2010 gli italiani hanno speso per la difesa della lingua albanese, di greco, catalano, croato (tre comuni in Molise parlano, in effetti, il dialetto croato-molisano), della lingua francoprovenzale, occitana, germanica, del ladino e del friulano ben 5,6 milioni di euro. A cui vanno aggiunti, of course, altri finanziamenti regionali: anche il sardo è tutelato per legge, così lo scorso maggio a Olbia, Tempio Pausania e Santa Teresa hanno aperto sportelli "linguistici" dove si possono chiedere informazioni e documenti in isolano stretto. Il progetto prevede pure corsi di formazione per quei dipendenti comunali che conoscano, ignoranti, solo l'italiano. Non è tutto. Nel bilancio 2010 spunta pure il "comitato istituzionale paritetico per i problemi delle minoranze slovene" (46 mila euro l'anno) e il dimenticabile Ente italiano della Montagna. Cancellato nel luglio 2010, l'anno scorso c'è comunque costato un milione: per "valorizzare le aree montane" venivano stipendiati un presidente, un direttore generale e 18 tra responsabili (uno, Fabrizio Traversi, è stato arrestato due mesi fa nell'ambito di una presunta truffa da 12 milioni ai danni dello Stato), esperti e segretari.



Renato Brunetta, si sa, è stato titolare dei dipartimenti della Funzione pubblica e dell'Innovazione. Nel 2010 per farli funzionare abbiamo pagato 6,8 milioni di euro, mentre gli impegni per investimenti e spese correnti sono arrivati a 133 milioni. Passi per gli incarichi speciali costati, come ai tempi di Prodi, 355mila euro, passi per il mezzo milione speso per la pulizia dei giardini e dei palazzi e i 427 mila euro per il "restauro di mobili e spese telefoniche", ma leggendo le tabelle qualcuno si potrebbe domandare perché siano stati bruciati quasi 6 milioni di euro per "il funzionamento della commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche". Un organismo lanciato in pompa magna dall'ex ministro veneziano che avrebbe dovuto fornire strumenti concreti per valutare i dipendenti pubblici e fissare standard di produttività per premiare i meritevoli. La Civit, però, non ha fatto molto, tanto che pochi giorni fa la Commissione europea ci ha domandato quando la Commissione "sarà pienamente operativa?". All'inizio del 2011 uno dei commissari, inoltre, se ne andò sbattendo la porta. "Una decisione", spiegava nella lettera di dimissioni, "dovuta alla valutazione dell'impossibilità di perseguire in maniera soddisfacente gli obiettivi per i quali (la Civit, ndr) è stata istituita". 
Ma Brunetta ha speso un pacco di milioni pure per la Scuola superiore della pubblica amministrazione (11 milioni), per il funzionamento dell'agenzia Aran (2,3 milioni), per il Formez (per il centro si prevedeva si investire 19 milioni, ma si è arrivati a 24,2), per non meglio precisati "interventi per la valorizzazione delle risorse umane" (7,3 milioni). Per innovare l'Italia, poi, Brunetta ha messo 4,5 milioni nel progetto "Un cappuccino al giorno", 774 mila euro per una "struttura di missione per l'e-government" e la bellezza di 30,9 milioni per la Pec, la "posta elettronica certificata". Un sistema che per ora è stato adottato solo da 13 Regioni e da 1,1 milioni di cittadini: la grande maggioranza degli italiani non ne ha nemmeno sentito parlare.




Roberto CalderoliRoberto CalderoliPochissimi, d'altronde, sanno che per far divertire Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione normativa, abbiamo speso 732 mila euro. Tanto sono costati nel 2010 stipendi e uffici del dipartimento che secondo il vecchio governo "ha contribuito all'espansione dell'economia del Paese e a diminuire gli oneri a carico dei cittadini e delle imprese". L'ex ministro per le Riforme istituzionali Umberto Bossi ha invece speso "solo" 381 mila euro: 280 mila per "i diretti collaboratori" del leader leghista, altri migliaia per qualche conferenza (si ricorda quella di febbraio 2010, ospite d'onore Aldo Brancher) e il funzionamento dell'ufficio "Affari amministrativi e relazioni esterne". Riforme importanti fatte: zero.

Anche il ministero che fu di Mara Carfagna è un pozzo senza fondo. Le spese correnti toccano i 65 milioni di euro (erano 25 nel 2007), e per gli stipendi di ministro, dirigenti e il funzionamento degli uffici si spendono 3,2 milioni l'anno (ma c'è da sottolineare che rispetto ai governi di centrosinistra i costi dei collaboratori diretti del ministro si sono quasi dimezzati). Qualche risparmio in più, forse, si poteva fare sulla voce del bilancio numero 537, quella relativa all'"Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza e sull'origine etnica". Un organismo che costa 2,3 milioni, usati per raccogliere in un contact center le segnalazioni su possibili casi di razzismo e per compiere ricerche tematiche. Il direttore è Massimo Monnanni, un ex consigliere di Franco Frattini che ha a disposizione tre segretari, quattro esperti (stipendi biennali da 28 a 30 mila euro), un magistrato, più un dirigente generale e dieci dipendenti fissi. Un po' troppo, visti i risultati: a parte qualche finanziamento alle associazioni di genere e un concorso di fotografia, l'Unar - si legge in una Relazione al Parlamento - ha trattato nel 2010 appena 766 casi. Meno di due al giorno, e nel 2009 era andata peggio: solo un caso ogni 24 ore. Il call center? Costa 648 mila euro l'anno, e ci lavorano altre 16 persone provenienti dalle Acli.



Se il Fondo per le pari opportunità costa 49 milioni di euro l'anno (nel bilancio non ci sono dettagli di spesa più precisi) e 2,8 milioni sono serviti per le attività di contrasto alla pedofilia (esiste un Osservatorio, dove due esperte "a supporto" prendono 52 mila euro per un anno e mezzo di lavoro), altri 891 mila sono finiti per la lotta alla repressione delle pratiche di mutilazioni genitali femminili. Non sappiamo se l'importante battaglia abbia avuto successo. Ma sappiamo che nella commissione preposta siedono personalità come Anna La Rosa, Emma Bonino, Fiamma Nirenstein ed Eugenia Roccella (la moglie di Alemanno Isabella Rauti s'è dimessa qualche mese fa) e che la voce di spesa è triplicata rispetto alle previsioni d'inizio anno.

Anche l'ex collega Giorgia Meloni aveva un sacco di denaro a disposizione. Il ministero della Gioventù (cancellato da Monti) non avrà alleviato i problemi dei giovani italiani, stretti tra precariato e disoccupazione che sfiora il 30 per cento, ma ha impegnato comunque 222 milioni di euro, di cui solo 898 mila per gli stipendi del ministro e della sua squadra. Cinquanta milioni sono andati al fondo di garanzia per l'acquisto della prima casa, 70 alle politiche giovanili, mentre 101 milioni sono stati prestati ai co.co.co. e agli autonomi under 29 in difficoltà. Il prestito, ovviamente, deve essere restituito in tempi considerati "generosi": 2 o 3 anni al massimo. Sfogliando il bilancio, anche il dipartimento dello Sport offre sorprese a iosa: se le missioni all'estero (?) sono costate 85 mila euro, l'Italia ha raddoppiato il contributo alla Fondazione internazionale per la lotta al doping (ora giriamo all'agenzia mondiale 1,1 milione di euro) e pure le spese per i mutui concessi grazie a una legge varata alla vigilia dei mondiali di calcio del 1990: per la realizzazione o la ristrutturazione di impianti sportivi nel 2010 si sono spesi 65 milioni di euro.





Paolo BonaiutiPaolo BonaiutiInvece Paolo Bonaiuti, ex portavoce di Berlusconi e gran capo del dipartimento per l'editoria (tra stipendi e uffici il suo funzionamento costa 1,4 milioni), non solo ha dovuto versare ben 170 milioni per contributi a quotidiani e periodici, 18 milioni a radio e tv private e i sacrosanti 999.998 euro all'"editoria speciale periodica per non vedenti prodotta con caratteri tipografici normali su nastro magnetico e in braille", ma pure 3 milioni "da corrispondere alla Rai" per un misterioso accordo di collaborazione "tra Repubblica Italiana e Repubblica di San Marino" firmato nel lontano 1987. Oltre a 7 milioni per la "diffusione di notizie italiane" in tutto il mondo (i soldi finiscono ad alcune agenzie di stampa) e ben 626 mila euro per "un patto radiotelevisivo" tra Italia e Tunisia.

Altro ministro rimasto praticamente sconosciuto alle cronache è invece Elio Vito, titolare del dipartimento per i Rapporti con il Parlamento insieme al sottosegretario Laura Ravetto: tra dipendenti, capo di gabinetto e il suo vice, capo del settore legislativo e capo ufficio stampa Vito (che di fatto ha il compito di rispondere alle interrogazioni parlamentari) ci è costato quasi 600 mila euro. Molto di più, invece, s'è mangiato il dipartimento per la Programmazione della politica economica (ma non c'è già il ministero dell'Economia?) retto fino al 16 novembre da Gianfranco Miccichè. Il Dipe ha speso 28,9 milioni, per "l'unità tecnica finanza di progetto", "la segreteria tecnica della cabina di regia", consulenze varie, "le unità tecniche per il monitoraggio degli investimenti pubblici". Nonostante gli sforzi, gli uomini di Miccichè non hanno potuto far molto contro la crisi. 

Anche Carlo Giovanardi, ex gran capo dei dipartimenti per la famiglia e le politiche antidroga e nel tempo libero presidente dell'Associazione nazionale insigniti onorificenze cavalleresche, ha lasciato le sue impronte digitali su qualche spesa discutibile: se il fondo per la famiglia è passato dai 180 milioni del 2007 ai 100 del 2010 e i soldi per i servizi socio-educativi sono stati azzerati, la discussa Conferenza triennale sulla droga di Trieste è costata 444 mila euro, le campagne di comunicazione sui tossicodipendenti 464 mila euro, l'arcano "sistema di allerta precoce" altri 408 mila.



http://espresso.repubblica.it/dettaglio/ministri-a-tutto-spreco/2167203

Milano, il processo Mills si blocca sulla testimonianza dell’avvocato inglese. -



La difesa dell'ex premier chiede che il teste chiave possa non rispondere alle domande, il Tribunale di Milano deciderà il 19 dicembre. Saltano tre udienze, la prescrizione arriva a febbraio. Raffica di dichiarazioni del Cavaliere: "Mi stavo addormentando, finirà tutto in nulla". E sulla politica: "Non ho comprato Btp. Lasciate lavorare Monti. Io non mi ricandiderò".


Berlusconi e l'avvocato inglese David Mills
Il processo Mills è rinviato al 19 dicembre, dopo un’udienza – con l’imputato Silvio Berlusconipresente in aula – consumata nella battagli procedurale sulla testimonianza dello stesso avvocato inglese, il cui esame era previsto in teleconferenza da Londra. I legali di Berlusconi hanno chiesto che David Mills fosse sentito come testimone “assistito”, quindi con il diritto di non rispondere a determinate domande. La Procura di Milano, invece, intendeva interrogarlo come testimone semplice, obbligato pertanto a dire la verità sempre e comunque.

Nella diatriba si sono inseriti i legali di Mills, sollevando differenze procedurali tra Regno Unito e Italia nel trattamento dei testi. Risultato, il processo è stato aggiornato al 19 dicembre, quando il tribunale deciderà se Mills andra ascoltato come testimone semplice oppure come testimone-imputato in procedimento connesso. Il tribunale ha cancellato le udienze del 5, 6 e 10 dicembre, perché la questione deve essere risolta prima dell’ascolto di altri testimoni e dello stesso Berlusconi (il suo interrogatorio, o in alternative le sue dichiarazioni spontanee, erano previste per il 5 dicembre). Di conseguenza, la sentenza prevista per il 16 gennaio ritarderà, con la prescrizione che incombe a febbraio.

Silvio Berlusconi è imputato per corruzione in atti giudiziari, con l’accusa di avere consegnato 600 mila dollari a Mills affinché fornisse testimonianze reticenti ai processi per le tangenti alla Guardia di finanza e All Iberian. Di grande importanza, dunque, l’esame di Mills in calendario oggi. I legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, hanno chiesto che Mills sia sentito come testimone “assistito”, in quanto già imputato nello stesso procedimento (finito con la prescrizione, ma fino alla sentenza d’appello la corruzione operata da Berlusconi nei suoi confronti era stata confermata). Con la facoltà, appunto, di restare in silenzio davanti a domande che coinvolgano la sua posizione personale, strettamente connessa a quella dell’ex premier.

Alla notizia del rinvio, Berlusconi ha commentato: “Avrei voluto vedere Mills in azione, aspetterò la prossima volta. Da lui mi aspetto la verità perché in questo processo se l’è inventata grossa”. Il riferimento è alla versione data da Mills al fisco inglese sui 600 mila dollari che per l’accusa milanese sono il frutto di una corruzione. Mills, ha sostenuto Berlusconi,  ”ha preferito dichiarare, per pagare meno tasse, che si trattava di un regalo e ha chiamato in causa, per primo, il managerCarlo Bernasconi (dirigente del gruppo Fininvest, ndr) che era morto. Poi in Italia si è deciso a raccontare la verità”.

I primi a intervenire in aula erano stati gli avvocati di Mills, con la richiesta che i pm si recassero a Londra domani per fornire tutte le delucidazioni del caso, e solo dopo il loro assistito avrebbe deciso se testimoniare o meno. Ma il presidente del collegio, il giudice Francesca Vitale, non ha condiviso questa impostazione, perché in Italia un testimone deve dire semplicemente la verità a qualunque domanda ed è impensabile che il pm informi in anticipo il teste sul “perimetro” delle sue dichiarazioni.

Il pm Fabio De Pasquale, intervenuto nel pomeriggio, ha aggiunto che in Italia non c’è l’obbligo di mettere a disposizione i documenti su cui si deve esprimere il testimone e ha comunque sottolineato che tutte le carte conosciute dalla difesa di Silvio Berlusconi sono note anche a quella di Mills. Inoltre, ha precisato che a Mills, sono noti i temi dell’esame a cui dovrebbe essere sottoposto.

Berlusconi è entrato a Palazzo di giustizia in auto. “Ho fatto fatica a non addormentarmi”, ha commentato dopo la prima parte dell’udienza. “Quando un processo non può avere effetti giuridici perché a febbraio interviene la prescrizione è evidente che bisogna abbandonare per doverosi motivi di economia processuale”. Per l’ex premier il comportamento del tribunale di Milano dimostra dunque una “pervicacia incomprensibile” del tribunale di Milano per arrivare “al nulla”.

Alla fine dell’udienza, l’ex presidente del consiglio si è lanciato nell’attualità politica. Sul “Btp Day” ha risposto ai giornalisti: “Io non ho comprato nulla, sono stato qui tutto il giorno”. Quanto al governo di Mario Monti alle prese con la crisi, “non è in ritardo, è appena arrivato e si deve occupare di cose di enorme complessità, ma lasciatelo lavorare”. Berlusconi ha osservato però che “quelle che Monti ha portato in Europa sono misure già varate dal mio governo e per il 55% già approvate dal Parlamento con la legge di stabilità”. Infine il Cavaliere ha smentito di aver detto che sarebbe tornato a occuparsi delle sue aziende, ma allo stesso tempo ha annunciato che non proverà a tornare a Palazzo Chigi: “Non mi ricandiderò, il Pdl farà le primarie”.

Mestieri nobili e lavori ignobili.



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Gli straricchi sono una minoranza ma tassarli frutterebbe 5 miliardi. - di Maurizio Ricci




Il 5,7 per cento delle sostanze possedute nel mondo è in Italia. Nei portafogli ci sono titoli, azioni e depositi ma la proprietà immobiliare rappresenta ancora più della metà di tutte le disponibilità.


ROMA - Delle possibili riforme nel cantiere del governo Monti è la più elusiva. Anche se richiesta a gran voce dalle forze sociali, Confindustria compresa, l'ipotesi di un imposta patrimoniale è al centro di un durissimo scontro fra i partiti della maggioranza, dove il Pdl ha più volte annunciato il proprio veto ad un intervento diretto sulla ricchezza degli italiani. In Parlamento, il presidente del Consiglio è stato attento ad indicare solo l'opportunità di un monitoraggio della ricchezza (e ha voluto ribadire la parola "monitoraggio"), che potrebbe anche voler dire soltanto l'utilizzo di parametri di ricchezza nello stabilire la congruità dei redditi dichiarati. Il terreno, in altre parole, va ancora esplorato.

Sul terreno della patrimoniale ci sono degli ostacoli tecnici. Al di là delle difficoltà di accertamento, sui patrimoni si è già intervenuti o si sta per intervenire. Per gli immobili, tornerà certamente in vigore l'Ici sulla prima casa. Per quanto riguarda i patrimoni finanziari, negli ultimi mesi è stata pesantemente rincarata l'imposta di bollo. L'ottica in cui si discute della patrimoniale, tuttavia, non è quella di colpire, in generale, la ricchezza, ma i ricchi e, in particolare, gli straricchi. Da questo punto di vista, una patrimoniale non universale, ma limitata a "chi ha di più" (un termine usato dallo stesso Monti) consentirebbe di sciogliere una vistosa contraddizione italiana. L'Italia è, infatti, un paese con redditi stagnanti, ma doviziosamente ricco: il 5,7 per cento della ricchezza netta posseduta nel mondo è in Italia, nonostante che gli italiani non siano più dell'un per cento della popolazione globale e il Prodotto interno lordo della penisola sia pari al 3 per cento del Pil mondiale. Una spiegazione corrente è la diffusione della proprietà immobiliare: l'80 per cento degli italiani vive in una casa di cui è proprietario. Ma è solo in parte vero. Secondo le stime della Banca d'Italia, la ricchezza netta degli italiani è pari a 8.283 miliardi di euro, di cui poco più della metà - 4.667 miliardi - è costituita da abitazioni, mentre le attività finanziarie (titoli, azioni, depositi) erano pari, nel 2008, a 3.374 miliardi di euro. 

A spiegare la differenza fra reddito e ricchezza è, piuttosto, l'evasione fiscale, che esaspera l'ineguaglianza crescente della società italiana. La piramide dei redditi (dichiarati) è svelta, sottile, quasi egualitaria. Mentre il grafico della ricchezza (stimata dalla Banca d'Italia) appare pesantemente squilibrato, più un paralume che una piramide: quasi il 45 per cento della ricchezza nazionale, equivalente a 3.700 miliardi è nelle mani di 2,4 milioni di famiglie, il 10 per cento più ricco. Se, come è stato ipotizzato, la patrimoniale si dovesse, tuttavia, applicare solo ai patrimoni superiori a 1,5 milioni di euro, il grosso dei ricchi italiani ne sarebbe fuori. Ma anche una patrimoniale per i soli straricchi darebbe un gettito cospicuo. Il 13 per cento della ricchezza italiana (sempre secondo Via Nazionale) è nelle mani di 240 mila famiglie italiane, l'1 per cento del totale. Si tratta di 1.076 miliardi di euro. Una patrimoniale alla francese, con un'aliquota allo 0,5 per cento della ricchezza, darebbe un gettito di oltre 5 miliardi di euro l'anno. Per ognuna delle 240 mila famiglie significherebbe pagare, su un patrimonio che è in media di quasi 4,5 milioni di euro a famiglia, 22.500 euro l'anno.



http://www.repubblica.it/economia/2011/11/28/news/patrimoniale_straricchi-25708544/?ref=HREA-1

Due Mario italiani per salvare l'euro. - di Eugenio Scalfari




La crisi dei debiti sovrani dell'Europa - di tutta l'Europa, Germania compresa - ha provocato una reazione in Inghilterra e in Usa: le banche di quei due Paesi hanno dichiarato che si stanno preparando alla scomparsa dell'euro dal sistema monetario mondiale. Non è certo un aiuto a resistere, quella dichiarazione, e non è comunque un utile campanello d'allarme, ma piuttosto una campana a martello, di quelle che si suonavano un tempo quando un intero paese andava a fuoco e la popolazione accorreva con le pompe e i secchi d'acqua per spegnere l'incendio.

Ma qui ed oggi non c'è una popolazione da chiamare a raccolta, né bastano i pompieri nazionali a sostenere la moneta europea anche se il loro contributo è necessario. Qui ed oggi c'è un solo soggetto che può impedire una frana generale ed è la Banca centrale europea guidata da Mario DraghiMario Monti è il pompiere nazionale ed il suo contributo è necessario ma insufficiente. 
Salvare l'Europa spetta a Draghi; che la Germania sia d'accordo oppure no, nessuno può impedirglielo perché la Bce è indipendente dai governi purché resti nei limiti previsti dal suo statuto il quale gli pone il divieto di finanziare i governi ma non di finanziare il sistema bancario europeo a rischio di insolvibilità.

Draghi conosce perfettamente questo suo diritto-dovere d'intervenire per evitare il cosiddetto "credit-crunch", cioè il passaggio dall'illiquidità all'insolvibilità. Probabilmente avrà bisogno d'un paio di settimane per mettere a punto un intervento di così ampie dimensioni; dovrà contattare le principali banche di credito commerciale dei 17 Paesi dell'eurozona e anche quelle inglesi e americane perché ormai
tra le grandi banche e i grandi fondi d'investimento del risparmio esiste un intreccio intricatissimo di flussi e di reciproci impieghi. Due settimane, ancorché sotto l'infuriare della tempesta sui mercati, sono sopportabili; andare oltre diventerebbe una scommessa andata male, non una battaglia ma una guerra perduta.

Le dimensioni di un salvataggio del genere ammontano almeno a 
1.000 miliardi di euro e forse anche di più, ma sbagliano quanti pensano che basti l'annuncio e la garanzia da parte della Bce per ottenere il risultato senza bisogno di scomodare la cassa. Non è così. Il sistema bancario europeo è già in condizioni di scarsa liquidità e un semplice annuncio non basterebbe. La cassa è indispensabile, la Bce dovrà stampare moneta e iniettarla nel sistema bancario perché è questa la preziosa acqua necessaria per estinguere l'incendio. Non la darà ai governi ma alle banche e non già per una settimana ma per due o tre anni, con unduplice obiettivoassicurarne la solvibilità e rendere possibile il finanziamento delle imprese affinché contrastino la recessione incombente. E qui entrano in scena i pompieri nazionali, cioè i governi, ciascuno responsabile del proprio debito sovrano e della crescita del proprio prodotto interno.
* * *
Il governo italiano è in primissima linea perché, come hanno detto la Merkel e Sarkozy dopo l'incontro di Strasburgo con Mario Monti, gli interventi che il nostro neo-premier ha in programma sembrano a loro perfettamente in linea con le necessità e perché - come hanno aggiunto - se dovesse diventare insolvibile il debito italiano salterebbe l'euro e con esso l'intera costruzione europea.

Monti deve realizzare due obiettivi
il rigore e la crescita e semmai ci fosse da stabilire un prima e un dopo, la crescita verrebbe prima e non dopo. C'è un terzo obiettivo che Monti si propone ed è l'equità che in realtà rappresenta il giusto equilibrio tra crescita e rigore. L'equità si realizza infatti attraverso l'equilibrio tra quei due termini, attraverso la coesione sociale e attraverso lo sforzo di evitare la recessione e la deflazione. Questi sono i compiti di Monti e del suo governo. Il loro fucile ha due soli colpi in canna:crescita e rigore. La prima si ottiene sostenendo il potere d'acquisto delle fasce sociali medio-basse e diminuendo il carico fiscale delle imprese. Il secondo tagliando la spesa improduttiva, i privilegi e le disuguaglianze. In concreto: riformando le pensioni, equiparando le condizioni di lavoro tra precari e lavoratori a tempo indeterminato, destinando i risparmi così realizzati alla fondazione del nuovo "welfare" destinato a tutelare i giovani e a instaurare un patto generazionale a loro favore.

Il governo ha ormai in avanzata preparazione la riforma pensionistica e quella del lavoro, attingerà risorse immediate dall'Iva e dall'Ici (che è di per sé un'imposta patrimoniale) nonché dalla vendita dei beni pubblici. Rilancerà i lavori pubblici con un pacchetto che vede insieme il ministero di Passera e quello di Barca (Infrastrutture e Coesione territoriale). Due colpi in canna. Ha preso tempo fino al 5 dicembre, una dilazione che coincide con quella di cui ha bisogno Draghi. Neanche a Monti bastano gli annunci, anche lui deve muovere la cassa e non può sbagliare. Dieci giorni sono sopportabili, il di più sarebbe del Maligno e quindi va escluso.
Intanto siano nominati domani i vice-ministri e i sottosegretari affinché il Parlamento possa lavorare. Qui la dilazione non è permessa.
* * *

I debiti sovrani hanno un calendario di aste da tempo stabilito. Quello italiano prevede nel 2012 emissione di titoli in gran parte pluriennali per 270 miliardi. Quello degli altri Stati dell'eurozona ne prevede altri 800, metà dei quali emessi dalla Germania. Nel complesso sarà un anno terribile che si inaugura con un'asta italiana di 40 miliardi nella prima decade di febbraio. Draghi, quand'era ancora in via Nazionale, aveva consigliato Tremonti nel 2010 di anticipare le aste ma il consiglio non fu seguito, erano ancora i tempi nei quali il governo di allora negava la crisi o sosteneva che comunque ne saremmo usciti prima e meglio degli altri. Adesso Cicchitto e La Russa si sbracciano a dimostrare che il loro governo non ha nulla a che fare con quella che Giuliano Ferrara chiama Lady Spread. 
Ma Lady Spread è stata svegliata proprio da quel governo e dalla sua micidiale immobilità. Tre anni d'immobilità, di cui paghiamo adesso il durissimo scotto.
Se Draghi e Monti faranno quel che debbono entro la coincidente scadenza, anche l'anno terribile potrà essere padroneggiato. Ma per quanto riguarda l'Italia, noi abbiamo una scadenza tra pochi giorni, modesta per tempi normali ma assai scabrosa per l'oggi: un'asta di 5 miliardi di titoli pluriennali.

Si potrebbe cancellarla e rinviarla perché il Tesoro può farne a meno, ma sarebbe un pessimo segnale per i mercati. Il rimedio, se si vuole, c'è: la Banca d'Italia, imitando la Bundesbank, potrebbe prendere in parcheggio i titoli in scadenza e collocarli gradualmente sul mercato secondario. Le banche, una volta che la Bce avesse varato il suo programma di prestiti, sottoscriverebbero senza problemi quel ricollocamento come dovranno fare per una buon parte delle aste successive. Questo è il solo modo per trasmettere gli effetti della politica monetaria a sostegno dei debiti sovrani, in attesa che i Trattati siano riveduti, il fisco diventi appannaggio dell'Europa e gli Eurobond siano accettati anche dalla Merkel. Allora intoneremo il "Magnificat" e ne saranno contenti anche i cattolici di Todi e del governo dei tecnici.
* * *
Questa storia del governo dei tecnici continua ad esser vissuta malamente da una parte notevole dell'opinione pubblica, anche da quella vastissima (75 per cento) che appoggia Monti riconoscendo l'esistenza di ragioni di urgenza e di emergenza. Nel mio articolo di domenica scorsa avevo ricordato tre illustri precedenti per collocare l'attuale governo in un contesto storico: i 15 anni di governo della Destra storica (1861-1876), i due anni del governo Fanfani delle "convergenze parallele" (1960-62), la proposta di Bruno Visentini d'un governo istituzionale come soluzione permanente prevista dalla Costituzione (1980).

Dedico la conclusione di quest'articolo al tema sollevato da Visentini, per renderne più chiari i lineamenti e la sua attualità.
1. I governi sono tutti politici se avvengono nel quadro della democrazia parlamentare poiché la loro esistenza e la loro permanenza dipendono dalla fiducia che il Parlamento gli accorda o gli ritira.
2. Il governo istituzionale cui pensava Visentini prevedeva che i partiti non fossero agenzie di collocamento dei loro dirigenti e clienti, ma organi di generale indirizzo politico e di raccolta del consenso popolare sulla base d'una loro visione del bene comune.
3. La legge elettorale doveva (dovrebbe) offrire lo "spazio pubblico elettorale" ai candidati dei partiti o di qualsivoglia associazione o individuo che volesse cimentarsi. Il Parlamento uscito dalle elezioni esprime una sua maggioranza che risponde agli elettori così come ne risponde la minoranza di opposizione.
4. La formazione del governo spetta al presidente della Repubblica il quale, a termini della Costituzione, "nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri". Il governo così nominato deve ottenere entro pochi giorni la fiducia del Parlamento.
Il risultato di questo "combinato disposto" consiste nel fatto che nella formazione del governo il capo dello Stato tiene necessariamente conto della maggioranza parlamentare dalla quale l'esistenza del governo dipende, ma lo nomina senza trattarne la composizione con le segreterie e i gruppi parlamentari dei partiti.

Questo è lo schema del governo istituzionale e costituzionale. Chi non capisce che esso non confisca affatto la democrazia e non umilia affatto il Parlamento, al quale anzi affida piena centralità svincolandolo anche dalla sudditanza ai voleri del "premier" (com'è accaduto nell'appena trascorso decennio berlusconiano) e potenziando il suo diritto-dovere di controllare il governo e la pubblica amministrazione; chi non capisce queste lapalissiane verità è in palese malafede oppure mi permetto di dire che è un perfetto imbecille.



http://www.repubblica.it/politica/2011/11/27/news/due_mario_italiani_per_salvare_l_euro_di_eugenio_scalfari-25666637/index.html?ref=search