Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
giovedì 29 marzo 2012
Il bluff dell’oro nero lucano: non ha portato né lavoro né soldi. E i giovani emigrano. - di Enrico Fierro
Altro che "Libia di casa nostra" come diceva il governatore Pd De Filippo: le royalties sono troppo basse, alla regione restano le briciole di un grande business che arricchisce multinazionali e Stato italiano. Così la Basilicata resta la più povera d'Italia.
“Richiamate i vostri uomini, fateli venire da qualsiasi paese straniero si trovino e dite loro che qui finalmente c’è lavoro”. Era lo slogan preferito di Enrico Mattei cinquant’anni fa. Lo aveva scandito col suo accento marchigiano anche in Basilicata, a Ferrandina, mentre dava il via alla prima trivella della regione. Con lui Emilio Colombo, allora giovane ministro dell’Industria e padrone del grande serbatoio di voti Dc in Lucania. È il sud in bianco e nero degli anni Sessanta, terre tagliate fuori dal boom economico e famiglie intere che chiudevano in una valigia di cartone disperazione e speranze. Nelle viscere di monti e pianure c’è l’oro nero. “Richiamate i vostri uomini…”. E invece i nonni non tornarono più, i padri partirono, e ora emigrano anche i figli. Più di tremila giovani ogni anno lasciano la Basilicata. Le trivelle continuano a pompare una ricchezza che non li sfiora. E loro vanno via dalla regione più povera d’Italia dove il 31,6% di chi ha dai 15 ai 34 anni non ha uno straccio di lavoro, e più del 28% delle famiglie vive al di sotto della soglia di povertà.
“Governo e multinazionali possono maneggiare le statistiche come vogliono, ma dai pozzi di petrolio non sono usciti né lavoro, né sviluppo”, ci dice Pietro Simonetti, un passato da operaio sindacalista e un presente di direttore del “Centro studi e ricerche economico-sociali”. “Il petrolio si serve della marginalità e del sottosviluppo”, nota l’antropologo Enzo Alliegro. Altro che Texas, altro che “Libia di casa nostra”, come andava dicendo l’entusiasta governatore Vito De Filippo, Pd. Dopo decenni di trivellazioni Potenza non è Dubai, la Val d’Agri non ha l’aspetto di un emirato e la “Basilicata coast-to coast” è solo un bel film.
Per capire il grande inganno del petrolio bisogna aggrapparsi ai numeri. Dai 25 pozzi attivi in Val d’Agri, la Basilicata estrae l’80 per cento della produzione petrolifera italiana, il 5-6 del fabbisogno nazionale. Le compagnie petrolifere, l’Eni e la Shell, in particolare, puntano a passare dagli attuali 80mila barili al giorno ai 104 mila previsti da un accordo del 1998, più altri 25 mila che dovrebbero venir fuori dal miglioramento delle tecniche estrattive. Con l’ampliamento del Centro oli di Viggiano e l’entrata in funzione dell’impianto Total di Tempa Rossa, a Corleto Perticara, la Basilicata raddoppierebbe la sua produzione petrolifera fino a 175 mila barili al giorno, il 12% del consumo italiano.
“Così tra i lucani crescerà la potenza attrattiva del totem nero”. È il titolo di un libro di prossima uscita dell’antropologo Enzo Alliegro, lucano trapiantato all’Università napoletana Federico II. “Il petrolio è un totem, un oggetto ambivalente, desiderato ma anche temuto, che ha ridefinito l’immaginario collettivo. Si sogna la ricchezza, ma si teme la catastrofe”. L’illusione di un improvviso benessere si chiama royalty, la quota che le compagnie pagano allo Stato italiano per lo sfruttamento dei pozzi. Una legge del 1957 definiva un sistema di sliding scale royalties che andava dal 2 al 22% a barile, nel ‘96 una nuova normativa bloccò la percentuale al 7, successivamente portata al 10. Un vero eldorado per le compagnie. Che in Italia pagano molto di meno rispetto alla Norvegia e all’Indonesia, dove le royalties sono all’80%, o alla Libia, 90, mentre in Canada i governi locali si lamentano perché giudicano insufficiente il 45% che incassano su ogni barile. Pochi soldi, ma comunque tanti per la Basilicata che in 11 anni si è vista piovere addosso 669 milioni, 800 se si calcolano anche quelli destinati ai comuni. Un mare di “petroleuro”, in apparenza, in realtà solo le briciole di un grande business che arricchisce multinazionali e Stato italiano.
NEL 2010, anno d’oro per l’Eni (utile netto di 6,89 miliardi), la quota destinata alla regione e ai comuni lucani, più il 2,10% per il fondo benzina, è stata di 110 milioni. Pochissima cosa rispetto a quella che qui chiamano la “royalty camuffata”, quel 42% di tasse che lo Stato impone alle compagnie petrolifere: 450 milioni di euro solo per il 2010. Ma è come sono stati spesi i 33 miliardi del Fondo Benzina, ad indignare i lucani. È la storia della card da 100 euro di carburante arrivata ai 335 mila patentati della Basilicata. In pratica un paio di pieni per una macchina media. “Un’ingiustizia, quei soldi dovevano andare a tutti i residenti”, dice il governatore De Filippo. “Abbiamo restituito ai lucani soldi che gli appartengono. Una rivoluzione”, replica l’ex sottosegretario Pdl Guido Viceconte. Un vero affare per Poste Italiane, visto che ogni card costa 20 euro. Archiviata questa polemica, gli adoratori ottimisti del “totem petrolio”, calcolano che per il prossimo decennio saranno almeno 6 i miliardi di royalties che piomberanno su queste terre. “Una visione miope – dice Pietro Simonetti –, i giacimenti possono essere sfruttati per altri 20-30 anni, in Val d’Agri siamo alla metà del ciclo. Quando i pozzi chiuderanno cosa faremo? Bisogna ricontrattare tutto con lo Stato e le multinazionali, se è necessario anche con movimenti di lotta come abbiamo fatto a Scanzano contro le scorie nucleari”. Le parole d’ordine che si sentono nelle assemblee e nei consigli comunali aperti sono “blocco delle perforazioni, moratoria”. “No a nuovi pozzi – dice il governatore Vito De Filippo – nel 1998, quando sono cominciate le estrazioni non potevamo opporci, ma ora vogliamo imporre all’Eni una svolta radicale. O fanno sul serio o troveranno un muro”.
Tutto è affidato a un “memorandum”, una intesa per lo sviluppo tra Regione e Stato. Al centro i problemi della tutela ambientale e della salute. Allarmano le emissioni e le fuoriuscite di greggio. “Per 13 anni si è vissuti nella più totale opacità. Chi ha fatto i controlli, i monitoraggi? L’Arpab, vale a dire la Regione, ammette che finora non è stato fatto granché, siamo al buio. Solo ora sono partite quattro nuove centraline e tra due anni avremo i risultati degli effetti sul territorio”, dice Ennio Di Lorenzo di Legambiente. “No a nuove trivellazioni, fermiamoci dove siamo e cerchiamo di capire cosa è successo in tredici anni”, aggiunge Giovanbattista Mele, medico della Val d’Agri. Qui c’è l’oleodotto più grande d’Europa. Le sue luci, i bagliori del petrolio che brucia, si vedono dal punto più alto di Viggiano, la basilica dove si prega una Madonna tutta d’oro. Poco più di 3 mila abitanti, un tesoretto da 8 milioni e 300 mila euro di royalties solo quest’anno. Spesi per finanziare gli imprenditori che assumono disoccupati (1.000 euro al mese per tre anni), aiuti alle famiglie, tante opere pubbliche che alimentano il ciclo del cemento. C’è il campo da calcio, quello per il tennis e si sta costruendo la piscina comunale. “Ma non posso prevedere cosa accadrà tra vent’anni alla salute dei cittadini e all’ambiente”, ammette il sindaco Giuseppe Alberti. “Il petrolio porta soldi, ma non risolve i problemi sociali”. I ragazzi di Viggiano prendono l’ascensore del megagalattico e deserto parcheggio multipiano per salire sulla piazza della basilica. Poi scendono giù, a piedi, per le vie strette del paese. Molti, quelli che possono, vanno via. Altri, disillusi dal petrolio-totem, sognano di scappare. Sono i “basilischi” del Duemila. A differenza dei loro nonni raccontati da Lina Wertmüller, non fantasticano più su una Lucania diversa.
“Governo e multinazionali possono maneggiare le statistiche come vogliono, ma dai pozzi di petrolio non sono usciti né lavoro, né sviluppo”, ci dice Pietro Simonetti, un passato da operaio sindacalista e un presente di direttore del “Centro studi e ricerche economico-sociali”. “Il petrolio si serve della marginalità e del sottosviluppo”, nota l’antropologo Enzo Alliegro. Altro che Texas, altro che “Libia di casa nostra”, come andava dicendo l’entusiasta governatore Vito De Filippo, Pd. Dopo decenni di trivellazioni Potenza non è Dubai, la Val d’Agri non ha l’aspetto di un emirato e la “Basilicata coast-to coast” è solo un bel film.
Per capire il grande inganno del petrolio bisogna aggrapparsi ai numeri. Dai 25 pozzi attivi in Val d’Agri, la Basilicata estrae l’80 per cento della produzione petrolifera italiana, il 5-6 del fabbisogno nazionale. Le compagnie petrolifere, l’Eni e la Shell, in particolare, puntano a passare dagli attuali 80mila barili al giorno ai 104 mila previsti da un accordo del 1998, più altri 25 mila che dovrebbero venir fuori dal miglioramento delle tecniche estrattive. Con l’ampliamento del Centro oli di Viggiano e l’entrata in funzione dell’impianto Total di Tempa Rossa, a Corleto Perticara, la Basilicata raddoppierebbe la sua produzione petrolifera fino a 175 mila barili al giorno, il 12% del consumo italiano.
“Così tra i lucani crescerà la potenza attrattiva del totem nero”. È il titolo di un libro di prossima uscita dell’antropologo Enzo Alliegro, lucano trapiantato all’Università napoletana Federico II. “Il petrolio è un totem, un oggetto ambivalente, desiderato ma anche temuto, che ha ridefinito l’immaginario collettivo. Si sogna la ricchezza, ma si teme la catastrofe”. L’illusione di un improvviso benessere si chiama royalty, la quota che le compagnie pagano allo Stato italiano per lo sfruttamento dei pozzi. Una legge del 1957 definiva un sistema di sliding scale royalties che andava dal 2 al 22% a barile, nel ‘96 una nuova normativa bloccò la percentuale al 7, successivamente portata al 10. Un vero eldorado per le compagnie. Che in Italia pagano molto di meno rispetto alla Norvegia e all’Indonesia, dove le royalties sono all’80%, o alla Libia, 90, mentre in Canada i governi locali si lamentano perché giudicano insufficiente il 45% che incassano su ogni barile. Pochi soldi, ma comunque tanti per la Basilicata che in 11 anni si è vista piovere addosso 669 milioni, 800 se si calcolano anche quelli destinati ai comuni. Un mare di “petroleuro”, in apparenza, in realtà solo le briciole di un grande business che arricchisce multinazionali e Stato italiano.
NEL 2010, anno d’oro per l’Eni (utile netto di 6,89 miliardi), la quota destinata alla regione e ai comuni lucani, più il 2,10% per il fondo benzina, è stata di 110 milioni. Pochissima cosa rispetto a quella che qui chiamano la “royalty camuffata”, quel 42% di tasse che lo Stato impone alle compagnie petrolifere: 450 milioni di euro solo per il 2010. Ma è come sono stati spesi i 33 miliardi del Fondo Benzina, ad indignare i lucani. È la storia della card da 100 euro di carburante arrivata ai 335 mila patentati della Basilicata. In pratica un paio di pieni per una macchina media. “Un’ingiustizia, quei soldi dovevano andare a tutti i residenti”, dice il governatore De Filippo. “Abbiamo restituito ai lucani soldi che gli appartengono. Una rivoluzione”, replica l’ex sottosegretario Pdl Guido Viceconte. Un vero affare per Poste Italiane, visto che ogni card costa 20 euro. Archiviata questa polemica, gli adoratori ottimisti del “totem petrolio”, calcolano che per il prossimo decennio saranno almeno 6 i miliardi di royalties che piomberanno su queste terre. “Una visione miope – dice Pietro Simonetti –, i giacimenti possono essere sfruttati per altri 20-30 anni, in Val d’Agri siamo alla metà del ciclo. Quando i pozzi chiuderanno cosa faremo? Bisogna ricontrattare tutto con lo Stato e le multinazionali, se è necessario anche con movimenti di lotta come abbiamo fatto a Scanzano contro le scorie nucleari”. Le parole d’ordine che si sentono nelle assemblee e nei consigli comunali aperti sono “blocco delle perforazioni, moratoria”. “No a nuovi pozzi – dice il governatore Vito De Filippo – nel 1998, quando sono cominciate le estrazioni non potevamo opporci, ma ora vogliamo imporre all’Eni una svolta radicale. O fanno sul serio o troveranno un muro”.
Tutto è affidato a un “memorandum”, una intesa per lo sviluppo tra Regione e Stato. Al centro i problemi della tutela ambientale e della salute. Allarmano le emissioni e le fuoriuscite di greggio. “Per 13 anni si è vissuti nella più totale opacità. Chi ha fatto i controlli, i monitoraggi? L’Arpab, vale a dire la Regione, ammette che finora non è stato fatto granché, siamo al buio. Solo ora sono partite quattro nuove centraline e tra due anni avremo i risultati degli effetti sul territorio”, dice Ennio Di Lorenzo di Legambiente. “No a nuove trivellazioni, fermiamoci dove siamo e cerchiamo di capire cosa è successo in tredici anni”, aggiunge Giovanbattista Mele, medico della Val d’Agri. Qui c’è l’oleodotto più grande d’Europa. Le sue luci, i bagliori del petrolio che brucia, si vedono dal punto più alto di Viggiano, la basilica dove si prega una Madonna tutta d’oro. Poco più di 3 mila abitanti, un tesoretto da 8 milioni e 300 mila euro di royalties solo quest’anno. Spesi per finanziare gli imprenditori che assumono disoccupati (1.000 euro al mese per tre anni), aiuti alle famiglie, tante opere pubbliche che alimentano il ciclo del cemento. C’è il campo da calcio, quello per il tennis e si sta costruendo la piscina comunale. “Ma non posso prevedere cosa accadrà tra vent’anni alla salute dei cittadini e all’ambiente”, ammette il sindaco Giuseppe Alberti. “Il petrolio porta soldi, ma non risolve i problemi sociali”. I ragazzi di Viggiano prendono l’ascensore del megagalattico e deserto parcheggio multipiano per salire sulla piazza della basilica. Poi scendono giù, a piedi, per le vie strette del paese. Molti, quelli che possono, vanno via. Altri, disillusi dal petrolio-totem, sognano di scappare. Sono i “basilischi” del Duemila. A differenza dei loro nonni raccontati da Lina Wertmüller, non fantasticano più su una Lucania diversa.
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Caso Calipari: la verità nascosta. - di Stefania Maurizi
A sette anni dalla morte del funzionario Sismi, esce il libro del pm che condusse le indagini. E ripercorre tutta la storia di quello strano posto di blocco prolungato, dei soldati che spararono contro l'unica auto che aveva i fari accesi, degli americani che rifiutarono ogni collaborazione. Fino all'insabbiamento.
Anche i morti sentono freddo quando sono sulla soglia dell'oblio. A citare Sant'Agostino è un magistrato: Erminio Amelio, sostituto procuratore della Repubblica di Roma, chiamato a sostenere l'accusa in un processo che non si è mai celebrato: quello per l'omicidio di Nicola Calipari, il funzionario del Sismi ucciso a Baghdad il 4 marzo 2005, subito dopo aver liberato la giornalista del 'Manifesto', Giuliana Sgrena.
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Nel giugno 2008, una sentenza della Cassazione ha stabilito che Lozano non era processabile in Italia per un difetto di giurisdizione: la Suprema Corte ha riconosciuto al soldato Usa la cosiddetta 'immunità funzionale', uno scudo che lo ha sottratto a qualsiasi giudizio e condanna.
Se Nicola Calipari fosse stato ucciso nell'era pre-WikiLeaks avremmo potuto solo immaginare certi retroscena della partita Italia-Usa sul caso, dovendoci però fermare alle supposizioni e ai sospetti, come ormai avviene da sessant'anni per i cosiddetti 'misteri italiani': da piazza Fontana a Ustica. E invece i 715.039 file rilasciati dall'organizzazione di Julian Assange, che includono i cablo della diplomazia Usa e i report dal campo della guerra in Iraq e in Afghanistan, hanno portato alla luce 26 documenti segreti, che sollevano il velo delle menzogne e delle trattative inconfessabili tra Italia e Usa sul caso Calipari.
Si tratta della versione dei fatti che l'ambasciatore americano a Roma, Mel Sembler, che ha gestito la partita, racconta al Dipartimento di Stato, certo. Ma quelle comunicazioni diplomatiche non sono parole in libertà, sono report basati su dati e informazioni capaci di orientare la politica estera americana.
I file su Calipari raccontano come Berlusconi, Gianni Letta, Gianfranco Fini, allora ministro degli Esteri, Antonio Martino, alla Difesa, e il capo del Sismi, Nicolò Pollari, accettarono un compromesso con gli Usa, che salvò la faccia a tutti, preservò ragione di Stato, carriere e rapporti personali e diplomatici, facendo solo una vittima: la verità.
Quel compromesso - rivelano i documenti- le istituzioni italiane lo accettarono la sera stessa del funerale di Nicola Calipari, quando incassarono l'offerta di partecipare ai lavori della commissione militare americana. Attenzione: non una commissione congiunta Italia-Usa capace di cercare la verità su basi paritetiche, come allora scrisse quasi tutta la stampa italiana, ma una che facesse quanto fatto «con il caso del Cermis», come sottolineò esplicitamente Mel Sembler, evocando un'altra strage americana contro cittadini italiani rimasta completamente impunita.
E un mese dopo aver incassato il consenso delle istituzioni italiane, Sembler, in un cablo segreto a Washington, ammetterà con candore che uno degli obiettivi degli Stati Uniti fosse stato quello di «prevenire la richiesta di un qualche tipo di commissione congiunta più approfondita, che andasse a indagare sull'uccisione».
I file di WikiLeaks raccontano tutte le trattative per accelerare «la scomparsa del caso dallo schermo radar della politica (italiana)».
Ora, però, il libro del pm Amelio lo riporta in primo piano.
Perché ha scritto questo libro?
«Questo libro vuole essere una testimonianza di un fatto gravissimo che è accaduto sette anni fa. Ho notato che, in un brevissimo arco di tempo, una vicenda che aveva destato scalpore e sdegno poi era finita nel nulla. E di fatto tutto si è risolto nel nulla. Non essendosi potuto celebrare il processo, il popolo italiano non ha potuto conoscere come si sono svolti i fatti. E allora, con questo libro, cerco di dare la possibilità a chi vorrà leggerlo di farsi un'idea, attraverso gli atti delle indagini, e quindi di capire perché Nicola Calipari è morto, per mano di chi, di chi sono le responsabilità».
Nel libro lei sottolinea che il diritto internazionale non prevede l'immunità per un semplice soldato, ma solo per capi di Stato, di governo e poche altre figure. Com'è possibile che si sia 'inventata' un'immunità che non esiste?
«Il diritto non è matematica, dove due più due fa quattro. Ci sono due sentenze che, pur pervenendo alla stessa conclusione del difetto di giurisdizione, ci arrivano attraverso ragionamenti opposti. La Corte di Assise valuta l'immunità funzionale, esposta dal difensore di Lozano, ma ritiene che non si applica e stabilisce che si applica il diritto della bandiera. La Cassazione, invece, stabilisce che non si applica il diritto della bandiera, ma si applica l'immunità funzionale, specificando nella sentenza - e da questo punto di vista accogliendo i motivi del pubblico ministero - che il diritto della bandiera non si applica, perché sussiste per altre vicende: quelle che riguardano i fatti commessi in alto mare, dove non c'è giurisdizione alcuna. E' ovvio che siamo nel campo delle interpretazioni, dove può venire fuori una sentenza che dice una cosa e una che ne dice un'altra, perché il diritto è un'interpretazione da parte di giudici, che secondo la propria scienza e la propria coscienza pervengono a una decisione: per alcuni può essere condivisibile, per altri no. Io non la condivido, ma la rispetto e la critico, perché è previsto l'esercizio del diritto di critica».
Calipari fu ucciso da un soldato americano a un posto di blocco istituito per proteggere il passaggio dell'ambasciatore Usa in Iraq, John Negroponte. Nel libro, lei sottolinea che quella postazione fu mantenuta per oltre mezzora dopo il transito del convoglio di Negroponte: una scelta contro ogni logica, perché esponeva i soldati a un rischio altissimo di attentati. Lei scrive che non pare fantasia che il posto di blocco sia stato mantenuto per sorvegliare le operazioni di recupero di Giuliana Sgrena...
«Io ricostruisco questa vicenda e non lo faccio sulla base mie sensazioni. I fatti dicono che quella postazione non era un check point, era un posto di blocco. E il posto di blocco va organizzato in un certo modo. Non sono io a dirlo, sono gli americani nel loro rapporto. Deve durare al massimo mezzora, perché si tratta di un tipo di postazioni 'volanti', allestite in posti pericolosi per far fronte all'emergenza e quindi la loro durata è necessariamente commisurata a una specifica missione. Sono gli americani a dire che durò fino alle 20.50, il minuto in cui venne ucciso Calipari. Considerando che il posto di blocco era stato posto in essere alle 19.30, è durato un'ora e venti minuti. Sono gli americani a dire che alle 20.30 il capitano Drew ha chiesto di poterlo smantellare, ma gli fu risposto di mantenerlo ancora per altri 20 minuti. Riporto quello che c'è scritto nei documenti. Alle 20.50 passa l'auto di Calipari e i soldati del posto di blocco gli sparano. Non ho aggiunto niente. Poi sarà una coincidenza, non sarà una coincidenza, ognuno si farà un'opinione. Però ecco la funzione del libro: la gente lo deve sapere. E questo libro vuole dare la possibilità di leggere i fatti, visto che non è stato possibile leggerli in un processo».
Gli Usa negarono qualsiasi forma di collaborazione alle indagini della magistratura italiana, al punto che il nome stesso di Mario Luis Lozano è stato acquisito solo per errore, grazie a una banale tecnica informatica che ha permesso di togliere dal report degli americani le 'pecette' elettroniche che ne coprivano il nome...
«Basta consultare gli atti per vedere quali sono state le nostre richieste fin dalla mattina del 5 marzo. Abbiamo chiesto i nomi, i cognomi e di indicare le modalità in cui si erano svolti i fatti. Da parte americana, assoluto silenzio. Quando i nomi sono venuti fuori con quella tecnica informatica, abbiamo detto: visto che anche noi ormai sappiamo quello che voi sapevate e che ci avevate taciuto, ci fornite le generalità di Lozano? Gli notificate l'avviso di conclusione indagini? Neanche questo è stato fatto. Collaborazione nulla da parte degli Usa. Hanno espresso il cordoglio per la famiglia Calipari, e in una delle risposte, anch'essa agli atti, hanno scritto che il caso è chiuso. Quindi l'omicidio del numero due dei servizi segreti italiani, ovvero del più alto funzionario operativo, perché sopra di lui c'era solo il direttore generale, non ha avuto accertamento né in Italia, né negli Stati Uniti, né in Iraq. Questa persona ha regalato la vita agli altri, ha salvato la vita di Giuliana Sgrena per ben due volte nella stessa giornata, ha salvato altri nostri connazionali, ha operato per lo Stato italiano ed è andato in Iraq perché lo Stato italiano lo ha inviato. E di questo si perde memoria. Non è possibile. Di Nicola Calipari ci siamo dimenticati quasi immediatamente, dopo aver dato una medaglia d'oro».
I documenti di WikiLeaks rivelano le trattative per gestire diplomaticamente e mediaticamente il caso. Anche la stampa si fece ingannare da quella commissione congiunta Italia-Usa sulla morte di Calipari. Secondo lei, ci fu una manipolazione della stampa o si trattò semplicemente di superficialità?
«Nel mio libro non ho volutamente parlato dei documenti di WikiLeaks, perché, pur essendo importanti, mi sono voluto attenere ai dati che conoscevamo noi, non a quelli di ambienti in cui l'autorità giudiziaria non può avere accesso. Ho voluto tenerli separati proprio per non contaminarli, mi si passi questo termine. Quella commissione, non congiunta, ma tecnico amministrativa, inizia dei lavori. A cominciare sono gli americani, ma dopo cinque giorni sono ammessi anche gli italiani con una serie di limitazioni. Allora io dico: se una commissione è congiunta, tutti devono avere gli stessi poteri, altrimenti è congiunta solo da un un punto di vista formale. Se io e lei facciamo una commissione e io conto più di lei, allora lei ci sta per avallare le mie scelte. Però, devo dire che gli italiani hanno avuto la forza di dire no: hanno prodotto un documento autonomo nel quale smontano completamente le affermazioni degli americani. Quello è un documento forte».
Ecco, i documenti di WikiLeaks smontano anche questa lettura dei fatti. Rivelano, infatti, che la scelta di presentare due relazioni finali, una americana e una italiana, a chiusura dei lavori della commissione, fu una questione di pura opportunità politica. Non ci fu nessuna rottura. Fu la via d'uscita con cui il governo Berlusconi si salvò la faccia ed evitò l'accusa di avere insabbiato. Gli americani capirono e accettarono machiavellicamente, tanto i loro soldati la facevano comunque franca...
«Sì, ma quello italiano è un documento forte, perché dice agli americani: la tua ricostruzione non vale, non mi puoi dire che non hai messo i cartelli per segnalare il posto di blocco perché tanto gli italiani non capivano l'inglese. Su quei cartelli c'era scritto "stop". Allora se un italiano non conosce la parola stop, non può circolare neanche con la macchina in Italia. Sono cose che fanno sorridere. Perciò nel libro dico che quello italiano è, comunque, un lavoro meritorio. Manca il passo ulteriore, che avrebbe consentito di accertare la verità e probabilmente quel passo non è stato fatto perché si è tenuto conto del contesto storico e degli interessi che c'erano in gioco. Si tratta di una conclusione amara: avevamo forse la possibilità di arrivare alla verità e di fare giustizia. Ed era il nostro dovere e il nostro debito verso Nicola Calipari: dargli solamente verità e giustizia. E' quello che non abbiamo potuto fare».
La domanda più incisiva sul caso Calipari la pone proprio l'ambasciatore americano, Mel Sembler, sui documenti rilasciati da WikiLeaks: 'Perché di trenta auto che quella sera passarono davanti a quel posto di blocco, spararono solo a quella di Calipari?' Lei crede che la sua morte abbia fatto comodo per lo scontro che c'era nei servizi segreti italiani in quegli anni?
«Non mi voglio avventurare in terreni che non sono miei. Registro che spararono alla macchina di Calipari. Ora sarà suggestione, sarà coincidenza, ma hanno sparato all'unica macchina contro cui non dovevano sparare, perché era l'unica che si avvicinava tranquillamente all'aeroporto, aveva i fari accesi, aveva la luce interna di cortesia accesa, un segnale di Baghdad per dire che era una macchina amica. Era un'auto che si avvicinava tranquillamente, perché non aveva alcuna necessità di correre, in quanto c'era un aereo a disposizione che sarebbe partito all'arrivo di Calipari. Calipari e anche il maggiore che era con lui erano delle persone navigate. Eppure gli americani spararono solo contro quella macchina. Che cosa dobbiamo dire? Se avessimo potuto fare qualche indagine in più, se non ci fosse stato anche il segreto di Stato, opposto e apposto, se ci fosse stato un briciolo di collaborazione da parte degli americani, magari avremmo capito di più».
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/caso-calipari-la-verita-nascosta/2177269//0
“Ciao sono iooooo...” di Marco Travaglio - Il F.Q. 29/3/2012
L’altro ieri, alle 10 del mattino, la segreteria romana di Monti chiama il cellulare dell’assistente del premier a Seul: ha in attesa una telefonata urgentissima per lui. Ma lui non può: lì sono le 17, ha appena incontrato Obama, che si appresta a chiudere il vertice mondiale sulla sicurezza nucleare davanti a 50 capi di Stato, di governo e delle massime istituzioni internazionali.
L’assistente prende la chiamata: dall’altro capo del filo, la voce concitata di Fabrizio Cicchitto. Ha un messaggio di B., che non ha tempo da perdere – ha per le mani una partita di ucraine e sta pure girando un film – e fa chiamare da un altro della P2.
Cappuccetto nero non sente ragioni: deve parlare con Monti, e subito. Chi sarà mai questo tal Obama al cospetto del confratello di B.? Come osa Monti preferire il presidente degli Stati Uniti al presidente di Mediaset, del Milan e del Pdl? Chi si crede di essere? E chi se ne frega della sicurezza nucleare mondiale? Ben altra piaga affligge l’Italia, questione della “massima gravità e urgenza”: la ministra Severino s’è messa in testa di scrivere una legge anticorruzione (anti, capito? non pro) e parla addirittura di falso in bilancio.
Ha addirittura fatto parlare un pm, per giunta di Milano, il famigerato dottor Greco, al posto dei soliti imputati e avvocati. Alle parole “corruzione”, “falso in bilancio” e “Greco ”, i berluscones han messo mano alla fondina.
Al di là del merito del provvedimento, che ancora nessuno conosce, è una questione di principio: dopo vent ’anni di leggi a favore della corruzione, la ministra vuol farne una contro. E senza manco chiedere il permesso a Ghedini o a Previti. Ma siamo matti? Ma dove andremo a finire? Ne va della sopravvivenza del governo. Se Obama s’incazza, pazienza: tanto lo sa benissimo, gliel’ha detto B. all’ultimo G8, che l’Italia è infestata di toghe rosse. Super Mario Bros, l’uomo che non deve chiedere mai, il cuor di leone che spezzò le
reni a Bill Gates, capisce che c’è poco da scherzare. Se l’Italia forse “non è pronta” per le sue riforme epocali, lui al richiamo di Arcore è prontissimo, scattante come un leprotto. Del resto, come dicevano i latini, “ubi Cicchitto, Obama cessat”.
Mentre la sua sobria signora rilascia venti pagine di intervista all’autorevole Chi, Monti fa chiamare d’urgenza il fratello Fabrizio, lascia il tavolo con gli altri 50 capi del mondo e si apparta dietro una tenda a parlare con lui, Cick to Cick.
Intanto Obama inizia il suo discorso. L’ufficio stampa di Monti, le agenzie, il Corriere e Repubblica giurano che Barak elogia l’amico Mario: balle.
È vero però che, mentre Obama parla, la sedia di Monti è vuota.
Vocìo in sala. “Dov’è il Mario?”.
“Era qui un momento fa”.
“Dice che è al telefono col dottore, forse un problema di salute”.
“Ah beh a l l o ra ”.
Ecco, in esclusiva mondiale, il testo della telefonata.
“Ciao, sono Cicchittooo”.
“B u o n a s e ra , d o t t o re ”.
“Amore di Silvio”.
“Sì, mi dica”.
“Non resisteva più”.
“Ah, bene”.
“Appena il gatto è fuori città, i topi fanno la legge anticorruzione”.
“Direi che è importante”.
“Quando verrai?”.
“Mah, adesso non so, sono in Corea, mi dia il tempo”.
“Non parlare se lì c’è Obama. Lascia parlare me, di’ sì o no: la blocchi o no ‘sta Paola Severino?”.
“Certo, certo, d’a c c o rd o ”.
“Ma vieni appena puoi. Anche tardi, se tu lo vuoi. Silvio tanto non dormirebbe. Quanto gli manchi non sai”.
“Eh”.
“Ma dillo che ami più Silvio che Paola”.
“Ci può giurare, dottore”.
“Lui di più”.
“No, non credo. Ma lui adesso dov’è?”.
“Con sei ucraine, ma pensa solo a te”.
“Sì, sì, senz’a l t ro ”.
“Ha raschiato il catrame e ha sciolto tutti i capelli finti giù. E Letta ha il profumo che gli hai dato tu”.
“Ah, sì? Non le ho dato la busta giusta?”.
“Ma vieni almeno per un po’. Lui non ha sonno, non lo sveglierai. Di’ quello che vuoi, però stasera non dirgli no”.
“Eh, va bene, va bene dottore, se è proprio
necessario parto”.
“Adesso chiudo, non vorrei fare insospettire Obama. Lui è qui e, alle parole corruzione
e falso in bilancio, potrebbe anche morir”.
“No no, stia tranquillo, lo raggiungo col primo volo. Buonasera, d o t t o re ”.
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mercoledì 28 marzo 2012
"Voglio morire": 58enne si dà fuoco davanti alla Commissione tributaria. - di Luigi Spezia
E' gravissimo, con ustioni "su quasi il 100% del corpo"; dopo il ricovero al Maggiore è stato trasportato a Parma. L'uomo ha una ditta di lavori edili; in alcune lettere scritte per la moglie e per gli uffici spiega il motivo del gesto, legato ai debiti. Oggi doveva comparire in udienza per fatture false. Un passante ha cercato aiuto, sono arrivate due auto della polizia. Un testimone: "Quella cosa a terra pareva un pezzo dell'auto. Invece era un essere umano". Il sindaco: "Fatto sconvolgente, una richiesta di aiuto che non ci può lasciare indifferenti"
L'auto dell'artigiano bolognese che si è dato fuoco(Federico Borella/Eikon studio)
VIDEO Il racconto del testimone
FOTO L'auto in fiamme
Il luogo esatto in cui l'artigiano ha fermato l'auto in cui si è dato fuoco è il parcheggio dell'Intendenza di finanza di via del Giacinto. Tutto è accaduto intorno alle 8.20. L'uomo, residente a Ozzano, è diventato in pochi istanti una torcia umana. Un ragazzo ha notato la scena e allargando le braccia ha chiesto aiuto a una pattuglia di vigili urbani che era nei paraggi per un intervento di sicurezza davanti a una scuola: quando i vigili hanno raggiunto l'uomo aveva i vestiti completamente bruciati, fiamme ancora attive ai piedi. A spegnerle è stato un vigile urbano, che ha usato il suo giaccone. Poco dopo sono intervenuti anche una volante del commissariato Santa Viola, i vigili del fuoco e il 118.
Le lettere. L'uomo ha scritto delle lettere, trovate nelle sue tasche: una aperta, una di scuse alla moglie e una alla commissione tributaria, nella quale scrive di aver pagato le tasse e di sentirsi ingiustamente trattato dal Fisco. Diversi passaggi fanno riferimento a una condizione economica e finanziaria disastrata, e in uno in particolare si legge: "Io le tasse le ho sempre pagate, vi chiedo scusa, ma ora non andate a chiedere questi soldi a mia moglie, lasciatela stare". In un terzo foglietto, quello non indirizzato specificamente ad alcuno, vi sono riportate frasi come "Adesso me ne vado nell'aldilà".
Fatture false. Secondo quanto si apprende l'uomo aveva avuto un contenzioso tributario, finito
male, e inoltre avrebbe dovuto comparire proprio questa mattina in tribunale a Bologna per una vicenda di false fatture. Una denuncia penale nata parallelamente agli accertamenti fatti dall'Agenzia delle entrate nei suoi confronti. Da un lato, il Fisco gli contestava l'evasione di notevoli somme, per almeno diverse decine di migliaia di euro, e la commissione tributaria alla fine dello scorso anno gli aveva dato torto, respingendo il suo ricorso; dall'altro, l'evasione di cui era accusato lo avrebbe portato anche davanti a un giudice in tribunale.
La moglie si è sentita male. La moglie, quando è stata informata dell'accaduto, si è sentita male: a quanto si apprende, sarebbe svenuta due volte e sarebbe stata accompagnata al pronto soccorso di Budrio. La donna non sapeva di particolari problemi economici. Della vicenda è stato informato il pm di turno Massimiliano Rossi che ha aperto un fascicolo conoscitivo in cui non sono ipotizzati reati.
Il testimone. "Ho sentito un gran boato - racconta Moreno Masotti, che stamattina ha assistito alla scena dal suo ufficio - sembrava un incidente, un tubo saltato. Ma affacciandomi alla finestra ho visto l'auto in fiamme, una palla di fuoco. A 25-30 metri i vigili urbani erano accanto a una 'cosa' a terra. Un vigile cercava di spegnerla con il giaccone; sembrava un pezzo dell'auto... poi mi sono accorto che era un uomo". L'artigiano, conferma Masotti, "ogni tanto alzava la testa e si lamentava. Gli infermieri lo tranquillizzavano. Appena partita l'ambulanza sono arrivati i vigili del fuoco che hanno spento il rogo in pochissimo tempo. Ho visto una grande partecipazione dei servizi, un grande al vigile urbano che ha avuto una grande prontezza e determinazione per quello che ha fatto. Mi piacerebbe stringergli la mano".
Il sindaco: sconvolgente. "Quanto è successo questa mattina è sconvolgente", scrive in una nota il sindaco Virginio Merola. "Ai familiari della persona coinvolta esprimo la vicinanza dell'Amministrazione comunale tutta, nella speranza che le gravi condizioni in cui versa attualmente l'uomo possano migliorare. Questo gesto deve fare riflettere tutti perché è una richiesta di aiuto che non ci può lasciare indifferenti. Un ringraziamento va al Corpo della Polizia municipale che è intervenuto immediatamente, all’agente che ha avuto la prontezza di spegnere le fiamme con il suo giaccone, alla Polizia di Stato, ai Vigili del Fuoco ed al 118".
La solidarietà della Regione. "Un gesto drammatico che colpisce profondamente". Il presidente della Regione, Vasco Errani, e l’assessore regionale alle Attività produttive, Gian Carlo Muzzarelli, esprimono solidarietà e vicinanza all’artigiano in gravissime condizioni. "Gesti tanto disperati e non più isolati da parte di lavoratori e imprenditori, ci caricano di una preoccupazione ulteriore. Più passa il tempo, più la crisi si conferma nella sua straordinaria gravità e, nella sua drammaticità, colpisce persone, famiglie, imprese e lavoratori rendendo sempre più urgente la politica di sostegno al lavoro e di rilancio dell’economia. In questo sforzo che riguarda tutti, noi ci sentiamo ancora più impegnati".
Cna: profondo dolore. "Esprimo personalmente e a nome di tutta la Cna un profondo dolore e un grande sgomento per il dramma che sta vivendo l’artigiano di Ozzano che questa mattina ha tentato di suicidarsi. Siamo vicini a lui e alla sua famiglia. Il nostro augurio, di cuore, è che le sue condizioni possano migliorare". E’ il commento di Tiziano Girotti, Presidente Cna Bologna.
Tutti gli sprechi del TAV: 76 miliardi di euro scomparsi!!
Mi sono chiesto: perchè tutti i partiti italiani sono d'accordo a fare la Tav Torino-Lione malgrado i danni ambientali e anche se i dati dicono che sia le merci che le persone che transitano sulla tratta sono inferiori alla portanza delle linee già esistenti!?
Così, poichè tanto unanimismo mi puzza sempre di più, sono andato pure io a mettere insieme le uniche ragioni che davvero capiscono tutti i più grandi partiti in Italia: quelle del portafoglio, il proprio e quello degli amici più prossimi.
E i dati sull'Alta Velocità finora sono impressionanti:
Il piano di spesa sull'alta velocità da Torino a Trieste e da Milano a Napoli quando fu presentato nel 1991 era di 14 miliardi di euro. Il costo reale finora è stato invece di oltre 90 miliardi di euro!!
Un'opera pubblica il cui costo è sei volte quello di partenza, in cui ogni kilometro costa più di sei volte lo stesso chilometro in qualunque ferrovia europea! E questo è avvenuto su "tutte" le tratte realizzate in Italia. Ma com'è possibile!? Ebbene sapete chi ha partorito la legge di finanziamento per la TAV!?
Ma quel Paolo Cirino Pomicino, ministro al bilancio nel 1991 anno in cui, come detto, fu presentato il progetto sulla Tav. Potentissimo uomo politico della Dc campana, ampiamente coinvolto in tangentopoli, Pomicino è lo stesso che confezionò la legge 219 sulla ricostruzione dopo il terremoto dell'irpinia.
E lo schema è esattamente identico: l'affidamento diretto, senza gara d'appalto europea, ai principali consorzi economici del capitalismo italiano, che poi subappaltavano i vari lavori.
In tal modo il costo dell'opera finale viene determinato a posteriori dalla fatturazione dei costi... E niente di più facile che "sovraffatturare" per ingrossare la spesa pubblica e arricchire i proprietari delle imprese, i politici loro amici e le mafie (tramite le tangenti - ci sono state già diverse inchieste in questa direzione che coinvolgono anche l'alta velocità).
Solo che per la ricostruzione post-terremoto la scusa per aggirare le gare d'appalto è stata l'urgenza e questa volta invece la bugia è stata che la TAV sarebbe stata costruita in gran parte con soldi privati: ma invece i soldi dell'Alta Velocità sono venuti tutti dallo Stato, cioè dalle nostre tasche!
La Torino-Lione è partita con un costo annunciato di 2,5 miliardi di euro (per la sola parte italiana). Il preventivo nel 2010 è stato aggiornato a 8 miliardi di euro e probabilmente il costo finale sarà non meno di venti miliardi di euro!
Certo truffare il 650% su un opera di queste dimensioni è davvero da gran ladroni, altro che ponte sullo stretto di Messina...!
E questo mentre nell'ultima finanziaria hanno tagliato un miliardo e 400milioni al trasporto ordinario. Tanto che le Ferrovie dello Stato hanno annunciato la soppressione di 47 convogli locali e interregionali per un totale di 5100 km, un terzo dell'intera rete. Il 61% della rete ferroviaria italiana è a binario unico, un terzo della rete non è ancora elettrificato e la velocità media delle merci sulla rete è di 19 km/h!!
Insomma con la Tav faranno un servizio d'elite a costi pazzeschi per riempirsi le tasche. E tutti gli altri ce la facciamo a piedi nel vero senso del termine...
Ma visto che anche i francesi si sono fermati a scavare non si può fermare questa follia!!?
O lorsignori non si sono mangiati abbastanza denaro!?
Ho trovato online anche un documentario molto "documentato":
"Fratelli di Tav"
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