sabato 7 aprile 2012

Lega, mazzette a Brancher. - di Paolo Biondani e Giovanna Trinchella






Nello scandalo sul Carroccio spunta un pagamento di almeno 150 mila euro all'onorevole pregiudicato del Pdl che da sempre gestisce i rapporti più segreti tra Berlusconi e Bossi.


Nello scandalo di fondi neri, mafia, truffe allo Stato e bustarelle ai politici che martedì 3 aprile ha portato tre Procure a perquisire la sede della Lega Nord, non poteva mancare un pacco di soldi destinati ad Aldo Brancher, l'onorevole pregiudicato che, come risulta da vent'anni di processi che lo hanno coinvolto, custodisce molti segreti sulla Fininvest di Silvio Berlusconi e sul partito di Umberto Bossi. Al centro delle indagini dei pm di Milano, Napoli e Reggio Calabria c'è Francesco Belsito, un discusso imprenditore genovese diventato prima portaborse del parlamentare che gestiva la cassa del Carroccio (nel frattempo defunto) e dal 2010 unico tesoriere del partito di Bossi, che lo ha infilato anche nel consigliere d'amministrazione della Fincantieri. Belsito, in Liguria, è in affari con un imprenditore chiacchieratissimo: Romolo Girardelli, detto "l'ammiraglio", ora inquisito per mafia e riciclaggio. 

Secondo l'accusa avrebbe ripulito soldi sporchi della cosca De Stefano, storico clan della 'ndrangheta di Reggio Calabria, finanziando pure la latitanza di un boss. 

Nel tempo libero il tesoriere della Lega curava anche un altro business personale: organizzava truffe allo Stato, secondo le tre procure, insieme a un faccendiere veneto, Stefano Bonet, detto "lo shampato" dagli stessi intercettati per il suo "look stravagante". L'incredibile trio di indagati - il leghista, il presunto mafioso e il sospetto truffatore - è unito dall'utilizzo dello stesso canale di riciclaggio: un giro di conti esteri gestiti da un amico di Bonet, un certo Paolo Scala, italo-cipriota. E' appunto la coppia Bonet-Scala a ricevere da Belsito, per smistarli tra Cipro e la Tanzania, almeno 5,7 milioni di euro di finanziamenti pubblici versati dallo Stato alla Lega Nord. Soldi che Bonet e Scala, intercettati, spiegano di aver cominciato a far rientrare in Italia di nascosto, "segregati" e "dopo due processi di filtrazione". Belsito è stato registrato e pedinato, nonostante i primi articoli del "Secolo XIX", mentre intasca buste piene di soldi, recapitategli dall'autista di Bonet. E i pm ritengono che abbia provveduto alle spese del cerchio magico bossiano con i soldi del partito. 

Ma in mezzo allo scandalo lumbard ora spunta un infiltrato: Aldo Brancher, un parlamentare vicinissimo a Berlusconi. Segni particolari: si è appena visto infliggere una condanna definitiva per appropriazione indebita e ricettazione. E adesso dagli atti dell'inchiesta su Belsito salta fuori che il suo presunto compagno di truffe, lo "shampato" Bonet, avrebbe versato almeno 150 mila euro proprio a Brancher.

In attesa che le indagini chiariscano le cifre e il movente, le intercettazioni sull'onorevole restano un mistero. Uno dei tanti di cui è costellata la sua vita. Ex sacerdote, Brancher negli anni Ottanta entra alla Fininvest e diventa il cassiere delle tangenti. Arrestato per mazzette all'ex ministro De Lorenzo e al Psi di Craxi, resta tre mesi a San Vittore: i giudici lo accusano di coprire i vertici del Biscione, ma lui giura di aver fatto tutto da solo. Quindi risarcisce 300 milioni di lire e conquista la prescrizione. 

In politica ci entra da grande burattinaio: è lui a ricucire l'alleanza tra Berlusconi e Bossi che nel 2001 riporta il centrodestra al governo. Sui retroscena di quel patto, gli spioni della Pirelli si scatenano in dossier scandalistici, ma nessuno trova prove. Quindi Brancher diventa parlamentare e smette di pagare: da allora le tangenti le incassa. Il banchiere Giampiero Fiorani confessa di aver "comprato il suo appoggio politico" versandogli "almeno 827 mila euro". Fiorani aggiunge di avergli consegnato "anche una busta di soldi per Roberto Calderoli, che aspettava nell'altra stanza". Il ministro leghista però nega. Ed è proprio Brancher, smentendo Fiorani, a far assolvere Calderoli. 

Il peso politico del sacerdote convertito sulla via di Arcore nasce proprio dalla capacità di arbitrare nel silenzio i patti con la Lega Nord. Tra un processo e l'altro, l'onorevole diventa ministro di un dicastero molto padano che prima si chiama "per il federalismo" e subito diventa "per la sussidiarità e il decentramento", ma deve dimettersi dopo 17 giorni. Perduto lo scudo Alfano, nel marzo 2011 si vede confermare in Cassazione la condanna a due anni (coperti dall'indulto) per i soldi rubati alla Banca Popolare di Lodi. Tre settimane dopo, Berlusconi e Tremonti lo nominano al vertice di un nuovo ente parastatale, chiamato Odi, con 160 milioni di euro da distribuire tra i comuni di confine con il Trentino. A rivelarlo è "l'Espresso", che nell'agosto scorso documenta anche il suo legame con l'allora sconosciuto Stefano Bonet: Brancher lo presenta ai sindaci veneti come il "consulente privato" che con la sua società Po.la.re. può aiutarli a "ottenere fondi pubblici". L'inchiesta giornalistica svela anche un aggancio con le feste pirotecniche organizzate da Brancher come presidente dell'associazione dei comuni del Lago di Garda. Ora si scopre che proprio Bonet con la sua Po.la.re. è sotto accusa come regista di una truffa napoletana che, attraverso finti progetti di ricerca, avrebbe garantito indebiti rimborsi statali a società come la Siram spa.

Ma nelle carte giudiziarie si parla pure del Garda. 

Il 2 agosto 2011, poco prima della più spettacolare nottata di fuochi d'artificio targati Brancher, il suo amico Bonet ordina un versamento misterioso. La sua segretaria non vuole saldare una fattura di 40 mila euro per "il progetto Garda", perché le sembra gonfiata. Al che il faccendiere s'infuria: "E' un problema politico... E' un'operazione politica e bisogna pagare, fine della questione". Chi sarà mai il beneficiario del versamento "politico" deciso dal presunto truffatore-riciclatore? E perché nello scandalo leghista spuntano altri soldi che le intercettazioni collegano a Brancher? Ai giudici l'ardua sentenza. 



http://espresso.repubblica.it/dettaglio/lega-mazzette-a-brancher/2178010

venerdì 6 aprile 2012

BUONA PASQUA...


Disperazione


22/02/2012: Trento, 44 anni per i troppi debiti si getta sotto ad un treno.... è salvo.
25/02/2012: San Remo, 47 anni, elettricista si spara.
26/02/2012: Firenze, 65 anni, imprenditore si impicca.
02/03/2012: Ragusa, commerciante tenta di darsi fuoco.
02/03/2012: Pordenone, 46 anni, magazziniere si suicida.
09/03/2012: Genova, 45 anni disoccupato, sale su un traliccio della corrente.
09/03/2012: Taranto, 60 anni, commerciante trovato impiccato.
10/03/2012: Torino, 59 anni, muratore si da fuoco.
14/03/2012: Trieste, 40 anni, appena disoccupato si da fuoco.
15/03/2012: Lucca, 37 anni, infermiera ingerisce acido.
21/03/2012: Lecce, 29 anni, artigiano si impicca.
21/03/2012: Cosenza, 47 anni, disoccupato si spara.
23/03/2012: Pescara, 44 anni, imprenditore si impicca.
27/03/2012: Trani: 49 anni, imbianchino disoccupato si getta dalla finestra.
28/03/2012: Bologna: 58 anni, si da fuoco davanti all'Agenzia delle entrate.
29/03/2012: Verona, 27 anni, operaio si da fuoco.
01/04/2012: Sondrio: 57 anni, perde lavoro, cammina sui binari, salvato in tempo.
02/04/2012: Roma: 57 anni, corniciaio, si impicca.
03/04/2012: Catania, 58 anni, imprenditore si spara.
03/04/2012: Gela,78 anni pensionata si getta dalla finestra,riduzione della pensione
03/04/2012: Roma, 59 anni, imprenditore, si spara con un fucile.
04/04/2012 Milano, 51 anni, disoccupato si impicca.
04/04/2012 Roma Imprenditore si spara al petto col fucile La sua azienda stava fallendo.


Fate copia incolla e fate girare........


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Cambiamo quella legge. - di Stefano Rodotà





Che cosa alimenta ogni giorno l'antipolitica, la fa crescere, la fa divenire un elemento che struttura la società e il sistema politico, che allontana i cittadini dall'idea stessa di partecipare alle elezioni, come dimostrano rilevazioni e sondaggi? Lo sappiamo, i fatti sono ormai da troppo tempo sotto gli occhi di tutti. E' un viluppo di corruzione e privilegi, di uso privato di risorse pubbliche e di spudorata impunità, che è divenuto sempre più stringente, che soffoca una democrazia in affanno e ne aggrava una crisi già drammatica. Ed è proprio la politica, vittima di questa deriva, a farsene complice, comportandosi come se non fossimo di fronte ad una emergenza devastante, perché essa stessa ha finito con il radicarsi sul terreno concimato da un finanziamento pubblico ai partiti che ha tradito le sue ragioni ed è divenuto veicolo di nuove opportunità corruttive, di diffusione dell'illegalità.

A questi argomenti, o piuttosto constatazioni, si oppongono risposte indignate e virtuose. Basta con i moralismi, non si può fare d'ogni erba un fascio, non tutti i partiti sono allo stesso modo coinvolti negli scandali, i politici corrotti sono una minoranza. Ma queste sono parole ormai consumate, che suonano false. I politici onesti, i partiti che fanno certificare i loro bilanci non possono limitarsi ad essere i custodi della loro virtù. Essi, più d'ogni altro, hanno il dovere di agire, di pretendere un radicale mutamento, poiché non si può certo chiedere ai corrotti d'essere i protagonisti di una simile stagione.

Questi sono tempi di scoperte quotidiane dei modi fantasiosi in cui viene usato il denaro pubblico destinato ai partiti. Abbiamo conosciuto una nuova figura sociale, quella del tesoriere/faccendiere, sciolto da ogni vincolo, legittimato ad ogni impudicizia, milite ignoto per i leader dei partiti. Da lui si ritraggono, o meglio fingono di ritrarsi, i sodali di ieri. Ladri, pecore nere  -  questo sarebbero. E la responsabilità penale, come vuole la Costituzione, è e deve rimanere personale, non può contaminare gli altri dirigenti, gli onesti militanti. E così, per l'ennesima volta, viene eluso il nodo della responsabilità politica, che è assai diversa da quella penale, e ci si sottrae all'obbligo di mosse politiche impegnative, che avviino da subito quel tanto di rigenerazione di politica e partiti ancora possibile. 

È di ieri la notizia che la commissione sulle retribuzioni di parlamentari e amministratori pubblici, affidata al presidente dell'Istat Enrico Giovannini, si è arresa, ha rimesso il suo mandato e ha invitato la politica a prendersi le sue responsabilità. Dal Governo è venuta la prevedibile risposta burocratica: "Proseguirà la propria azione nell'obiettivo di giungere ad una razionalizzazione dei trattamenti retributivi in carico alle amministrazioni pubbliche". E il Parlamento, e i partiti? Si rendono conto che l'uscita di scena di quella commissione non fa nascere un problema, ma è la caduta di un alibi? Il tempo è scaduto. Una agenda politica responsabile deve avere in cima la questione del finanziamento pubblico.

In Parlamento sono state presentate molte proposte di legge, che qui non è possibile discutere nei dettagli. Ma è urgente una risposta immediata, anche nella forma di una disciplina transitoria, che blocchi definitivamente assurdità come il denaro a partiti inesistenti, ridimensioni radicalmente l'ammontare del finanziamento, imponga severissime regole di gestione e sanzioni penali adeguate. Un ceto politico con un minimo rispetto per se stesso, che aspiri ad una sopravvivenza rispettabile, o fa subito questo o è destinato ad essere giustamente sommerso dal discredito. E tuttavia anche questa mossa non basterebbe in assenza della nuova normativa sulla corruzione, oggi impantanata e per la quale il Governo non ha impiegato un grammo di quella energia spesa nella battaglia ideologica sull'articolo 18, pur sapendo che la corruzione è un vero freno agli investimenti e allo sviluppo.

L'invito alla trasparenza del Presidente della Repubblica cade al momento giusto. E dovrebbe indurre ad uscire dagli opposti estremismi che hanno contribuito a far degenerare la questione del finanziamento pubblico. A chi difendeva un finanziamento pubblico senza se e senza ma, infatti, si è opposta la pericolosa suggestione di un finanziamento tutto privato. Certo, un referendum abrogativo del finanziamento pubblico è stato colpevolmente aggirato e sono stati ignorati proprio gli inviti ad abbandonare un sistema che impediva nella sostanza ogni controllo sui bilanci dei partiti (ricordo le accuse di moralismo rivolte negli anni '80 a Gustavo Minervini e ai deputati della Sinistra Indipendente che insistevano testardamente su questo tema). Ma una politica tutta affidata solo al contributo dei privati è fatalmente destinata alla dipendenza del potere economico, alla creazione di diseguaglianze. Questo tema è stato affrontato mille volte, ed è all'origine delle discipline sul finanziamento pubblico esistenti quasi ovunque, accompagnate però anche da limiti severi alle spese elettorali (in Francia Jack Lang perdette il suo seggio all'Assemblea nazionale per aver superato di poco la soglia fissata, mentre in Italia sono state cancellate tutte le pur modeste sanzioni previste dalle leggi).

Proprio il costo delle elezioni divora la democrazia, come dimostra il loro vertiginoso accrescersi negli Stati Uniti, dove le nuove opportunità di raccolta di fondi direttamente dai cittadini, rese possibili da Internet, non hanno affatto ridimensionato il potere delle grandi imprese private, favorite da una "liberalizzazione" del finanziamento privato imposta dalla Corte Suprema. Non dimentichiamo che, all'inizio di questo millennio, alcuni senatori americani decisero di non riproporre la loro candidatura, dichiarando che il tempo da dedicare alla ricerca di fondi superava ormai quello dedicato allo svolgimento dei compiti pubblici. Un filosofo liberale, John Rawls, ha proposto che le campagne elettorali dovrebbero essere finanziate solo da fondi pubblici eguali per tutti i candidati, proprio per neutralizzare il potere del denaro.

Pur senza accogliere questo suggerimento ragionevole e radicale, è ovvio che sono necessarie forme di incentivazione fiscale del finanziamento privato, accompagnate però da una totale pubblicità del nome d'ogni finanziatore. E non dimentichiamo, tornando a casa nostra, che il Pdl si fonda su una gigantesca fideiussione concessa da Silvio Berlusconi. Chi altri potrebbe fare lo stesso? E come non concludere che chi paga dall'interno diventa padrone del partito e della sua politica? E non dimentichiamo che l'unica opera di difesa della legalità possibile in questa materia viene, ancora una volta, dalla magistratura. Non a caso la sua affidabilità è grandemente cresciuta presso l'opinione pubblica, mentre precipita quella di Parlamento e partiti. 



http://www.repubblica.it/politica/2012/04/05/news/cambiamo_quella_legge-32795004/index.html?ref=HRER2-1

Floriade. La collina fatta a giardino. - di Isa Grassano



Un'altra parte dell'area indonesiana, con chiaro richiamo a Bali

Via al kolossal decennale di bulbi e piante. Un immenso giardino (66 ettari) creato dal nulla, ogni volta in un'area diversa dei Paesi Bassi: nel 2012 è il turno di Venlo. 2 milioni di visitatori attesi fino a ottobre.


Amate i fiori? Il loro profumo vi inebria, le mille sfumature dei petali vi emozionano? Se per questo long week end di Pasqua, avete scelto i Paesi Bassi, ma anche l'area della Germania centro-occidentale, quella di Colonia, di Bonn, di Düsseldorf, per intenderci, non potete non fare una tappa a Venlo, una piccola città sul confine orientale tedesco, trasformata in paradiso di boccioli, corolle, piante verdi e arbusti. È stata inaugurata ieri, da Sua Maestà la Regina Beatrix, Floriade, l'Esposizione internazionale orticola, nella  provincia olandese del Limburgo del Nord. Se invece, siete fuori zona, sappiate che avrete tempo fino al 7 ottobre per visitarla. Una grande manifestazione che viene organizzata ogni dieci anni, e ogni volta creando un immenso giardino in una differente area del Paese che dei fiori è sinonimo, e che rappresenta un'occasione speciale per vivere una delle più alte espressioni della natura e dell'arte. 

La kermesse punta a numeri di eccezioni: sono attesi almeno due milioni di visitatori paganti: il 40% proveniente dai Paesi Bassi, il 40% dalla Germania (principalmente dallo stato federale tedesco del North Rhine Westphalia) e il 20% dagli altri paesi, tra cui Italia, Gran Bretagna, Francia e Cina.

Ovunque, in cinque aree tematiche (Relax & Heal, Green Engine, Education & Innovation, Environment e World Show Stage, progettate dall'architetto del paesaggio John Boon) si può sperimentare l'influenza dell'orticoltura nella vita quotidiana utilizzando tutti i cinque sensi. Ovunque, su una superficie di 66 ettari, un tripudio di meraviglie della natura: nelle aree boschive sono stati piantati 1,8 milioni di bulbi, 190.000 piante perenni, 18.000 arbustive, 15.000 siepi, 5.000 roseti e 3.000 alberi. Il "Friend's Woodland" (il bosco degli amici) contiene una vasta collezione di alberi e arbusti da frutto che comprendono varietà tradizionali e moderne. 


Il viale alberato è costituito da 120 diverse specie arboree inconsuete, tra cui la Ginko biloba, nota anche in Giappone come albero di noci e in Cina come albero sacro coltivato nei templi. Altre affascinanti attrazioni sono le siepi di tiglio con ben dieci livelli di rami, che è possibile osservare nell'area tematica "Education & Innovation", un boschetto di nodosi ulivi piantati nel terreno roccioso, e poi i tulipani, immancabili, rossi, gialli e viola, mescolati con l'uva e giacinti bluette.

Al termine dell'evento, tutta l'area verrà donata al GreenPark di Venlo: un parco commerciale sostenibile completamente immerso nel verde, per non disperdere questo patrimonio naturalistico. Per ammirare una panoramica dell'intero parco, da non perdere, poi, un giro sulla funivia di Floriade. Lunga 1,1 Km e con più di 30 metri di altezza, trasporta i visitatori da un lato all'altro del parco in soli cinque minuti. Un colpo d'occhio sui colori in basso di grande impatto e sugli edifici ecosostenibili appositamente costruiti.

Sono rappresentati  35 paesi e anche l'Italia, per la prima volta, ha il suo ruolo da protagonista con un padiglione in legno perfettamente ecocompatibile dalla superficie di 400 mq e circondato da uno spazio verde di 500 mq. Ospita l'installazione "Viaggio in Italia", tour virtuale tra le principali attrattive della penisola e "L'Italia dei sapori", che permette di avere un quadro interattivo dell'offerta agricola e ortofrutticola di ogni singola regione. Diverse le iniziative legate alla bioagricoltura, settore per cui il nostro Paese è tra i primi 10 produttori al mondo.
Non solo piante e fiori. Floriade offre ogni giorno un programma culturale di musica, danza, teatro e arti visive con artisti provenienti da tutto il mondo. Gli spettacolari trampolieri del gruppo teatrale Close Art accolgono i visitatori. I musicisti si esibiscono su un palco mobile che li trasporta lungo tutto il parco. Ogni sera l'esibizione musicale "Floriade Goodbye", a cui partecipano 180 bande di fiati e ottoni del Limburgo (per il calendario completo degli eventi culturali visitate il sito). Ogni area tematica, inoltre, è dotata di un parco giochi e punti di accoglienza in cui gustare un'ampia gamma di piatti tipici nazionali e internazionali. Ci si può rilassare con un picnic sul prato o sdraiati lungo le rive dei corsi d'acqua o divertire con spettacolo o un'esibizione in programma nell'anfiteatro. I piccoli, tra 4 e 12 anni, possono vivere uno speciale programma tutto per loro, "Floriade Kids": c'è la "Casa del Gusto", dove i bambini hanno a disposizione giochi interattivi o possono aiutare gli chef in cucina.

Sono tanti gli spunti per organizzare un fine settimana alla scoperta di questo "immensa ricchezza botanica" (tra l'altro a basso costo; Ryanair collega ben 12 città italiane all'aeroporto di Düsseldorf - Weeze che si trova a 45 km da Floriade, il più vicino). E se si ha ancora voglia di spaziare, si possono visitare i numerosi giardini nei dintorni, da quelli del Castello di Arcen, con il più grande roseto d'Olanda e il Giardino acquatico orientale, ai giardini di Appeltern che si trasformano ogni giorno, con piante e prodotti sempre nuovi. Oppure scoprire la cittadina di Venlo, raccolta attorno al suo centro storico, tra opere d'arte monumentali e antichi palazzi, tra cui il Municipio, la Ald Weishoes e il palazzo comunale di Blerickse.

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OSTENTAVA UNA FINTA LAUREA IN MEDICINA. INTERPRETO' LE ANSIE DI UNA PARTE DEL PAESE

Intuì il malessere del Nord, tenne testa alla Dc e a Craxi. Ma con riti celtici e Padania ha lacerato il Paese. Due volte con Berlusconi, più di tutti l'ha insultato e difeso.

Ora il colore si sprecherà: e di colore Umberto Bossi ne ha sempre fornito molto, sin da quando si faceva chiamare Donato e imitava la voce di Celentano, oppure - finto medico - usciva di casa con lo stetoscopio nella borsa dicendo che andava in ospedale e invece si infilava al bar; ogni tanto poi organizzava una serata per festeggiare una laurea in medicina mai presa, e quand'era già un leader politico pretendeva ancora di aver fatto parte in gioventù di un'équipe che lavorava a un certo laser dai poteri taumaturgici.
Si sprecheranno anche le invettive, di cui l'Italia è generosa con gli sconfitti; e di invettive Bossi ne ha meritate davvero. Ha offeso prima gli italiani del Sud, poi gli extracomunitari; ha portato in politica il linguaggio delle peggiori osterie; ha detto di voler «raddrizzare la schiena» a un magistrato sulla sedia a rotelle; ha espulso dal suo partito chiunque gli facesse ombra, fosse pure la sorella; ha minacciato di morte ogni suo avversario, da ultimo Monti. Soprattutto, Bossi ha soffiato sul fuoco delle divisioni del Paese, rinfocolando antichi rancori, straparlando di una secessione impossibile, tentando di approfondire il solco tra gli italiani del Settentrione e quelli del Mezzogiorno.
Eppure, se Bossi fosse stato solo un mitomane e un prepotente, non avrebbe contribuito a far crollare un sistema politico collaudato da mezzo secolo, non avrebbe trascinato dietro di sé milioni di elettori, non si sarebbe procurato un posto nella storia italiana. E invece, nella nostra storia meschina e grandiosa, Bossi entra di diritto. Con il suo armamentario orribile e ridicolo di grida gutturali, di elmi cornuti, di insulti maschilisti e omofobi, di famigliona impresentabile, di figli dai nomi immaginifici (Eridanio, Roberto Libertà), di seguiti famelici. Ma anche con il coraggio pazzesco di andare contro la Democrazia cristiana - un partitone dal 40 per cento (dalle sue parti, nelle valli bianche dell'Alta Lombardia, anche di più) sostenuto dall'America e dal Vaticano -, di attaccare comunisti e preti, Craxi e per qualche tempo pure Berlusconi, di far crollare la Prima Repubblica e tentare di costruirne una Seconda basata sul federalismo.
Bossi è entrato nella nostra storia perché, con il suo intuito da ignorante - in questo davvero imitatore di Celentano -, con il suo fiuto da uomo di bar, ha sentito per primo la richiesta di autonomia che cresceva dal Nord, un Nord stanco di una burocrazia asfissiante, di un fisco opprimente, di uno Stato sentito come distante e nemico, del centralismo romano e dell'egemonia culturale mediterranea. Un Nord animato da sentimenti forse non nobili, forse rancorosi e piccolo borghesi, eppure diffusi: l'allergia crescente per una Rai romanesca, un cinema e in genere un'industria culturale estranea fin dal gergo e dall'accento; l'insofferenza magari sbagliata per piccole cose - tipo essere fermati e un po' maltrattati da carabinieri dall'accento invariabilmente meridionale -, magari legittima di fronte a miti editoriali e personaggi di cui se fossero nati a Verbania o a Thiene non si sarebbe accorto nessuno. Un Nord, liberato dal pericolo rosso ma non dall'eccesso di statalismo, che alla fine degli Anni 80 chiedeva di contare di più, di essere meglio rappresentato, e di poter spendere sul territorio una parte maggiore delle sue imposte.
A questa domanda di dignità e di identità, di diritti e di interessi, Bossi ha dato una risposta disastrosa. La sua Lega fin dal principio è stato il più «sudista» dei partiti: familista e clientelare, costruito attorno al più mediterraneo dei criteri, non il merito e le regole ma i legami personali (meglio se di sangue) e la fedeltà al capo. Adesso si leggeranno amarcord sugli inizi, sulla fase epica in cui Bossi portava Maroni sotto i cavalcavia per tracciare le scritte sull'autostrada, si faceva 200 mila chilometri l'anno - divenuti nelle agiografie anche 300, 400, 500 mila -, e Cossiga, come gli confiderà più tardi un po' scherzando un po' no, meditava di fargli nascondere la droga in macchina per screditarlo. Ma fin dagli esordi goliardi o gloriosi la Lega e il suo capo si portavano dentro il vizio che li avrebbe perduti: la pretesa di sostituire il centralismo di «Roma ladrona» (slogan che non nascondeva l'odio per la capitale quanto per lo Stato) con quello di Cassano Magnago, l'illusione di reggere un partito salito anche oltre il 10% nazionale sempre con lo stesso gruppo di amici varesotti; il Piemonte affidato a chansonnier o a leaderini usa e getta, il Veneto governato con le espulsioni, prima Rocchetta poi Comencini, e se ne avesse avuta ancora la forza Bossi avrebbe espulso volentieri pure Tosi.
L'altro limite è stato la follia di sostituire una nazione che culturalmente esiste da secoli come quella italiana con una nazione totalmente inventata, la Padania. La Lega ha dato il meglio di sé con sindaci popolari e capaci, ma non ha compreso sino in fondo che il localismo italiano è fondato sulla città, sul Comune, sul campanile; non su una presunta patria nordica che non è mai esistita. Il partito di Bossi è cresciuto a dismisura non grazie ma nonostante i matrimoni celtici, i riti druidici, le ampolle di acqua del Po, il lancio della pietra e del tronco, il giro ciclistico della Padania, Miss Padania, il campionato del mondo delle nazioni non riconosciute (che la Padania vinceva sempre a mani basse). Del sole delle Alpi e delle rune al Nord moderato che ha creduto di riconoscersi nella Lega non importava ovviamente nulla. Eppure Bossi se n'è servito per creare un mito di gruppo, per forgiare quel «cerchio magico» partito da Merlino e Obelix per finire ai maneggi tanzaniani dell'infido tesoriere Belsito, attraverso i successi di Credieuronord, la pseudobanca del Carroccio.
Eppure, si aveva un bel sorridere dei leghisti. Per tre decenni, Bossi li ha guidati con un fiuto pazzesco, da rabdomante. Un po' tutti, a sinistra e a destra, ne annunciavano la fine, e lui rispuntava dove meno te l'aspettavi. Spregiudicatissimo, capace di andare al governo con i missini (dopo avere urlato «mai coi fascisti!») e di sfilare il giorno dopo al corteo milanese del 25 aprile, ora di attaccare la Chiesa - i «vescovoni» - ora di presentarsi come difensore della famiglia tradizionale dai matrimoni gay e baluardo dell'Occidente contro le moschee e l'Islam, di aggredire i comunisti talora anche fisicamente e di fare incetta del loro elettorato (del resto negli Anni 70 proprio al Pci si era iscritto il giovane Bossi).
Il massimo di spregiudicatezza, il Senatur l'ha avuto nel rapporto con Berlusconi. A inizio '94 intuì che l'alleanza era un percorso stretto ma inevitabile. Finse un accordo con Segni, in modo da screditarlo, poi andò ad Arcore. In canottiera, però; e quel segno plebeo fu letto come una sana dissacrazione, una rivendicazione di diversità rispetto al miliardario col mausoleo in giardino. Poi arrivò la rottura, a ben vedere per lo stesso motivo che ha portato anche stavolta alla fine del governo di centrodestra: il no di Bossi all'abolizione delle pensioni di anzianità. Vennero gli anni dell'antiberlusconismo leghista, degli insulti anche grevi, di «Berluskaz» e del «mafioso di Arcore». Fino a quando il patto non venne riscritto, per le Regionali 2000 e le Politiche del 2001, quando la Lega perse voti ma andò al potere, grazie anche al rapporto di ferro tra il capo e Tremonti. L'«asse del Nord» venne infranto dall'ictus e dalla malattia. Fu nell'anno di sofferenza e silenzio seguito all'11 marzo 2004, quando la famiglia Bossi si trovò in gravi difficoltà anche materiali, che si strinse definitivamente il rapporto di lealtà ai limiti della sudditanza con Berlusconi, e la volontà indebolita del fondatore fu condizionata da quegli interessi privati che ora (a meno di ripensamenti) gli impongono le dimissioni.
Un anno dopo l'ictus, Bossi diede la sua prima intervista, che segnò il ritorno alla politica. Dopo giorni di appuntamenti rinviati e attese tipo tenda di Gheddafi, aprì la porta della villetta di Gemonio non ancora ristrutturata all'inviato del Corriere . Raccontò di serate in famiglia passate a suonare la chitarra e a cantare Battisti. Espresse desideri poi realizzati, sia pure con alterne fortune: sentire una canzone in dialetto lombardo al Festival di Sanremo; vedere un film sulla battaglia di Legnano. E annunciò la fondazione della dinastia: «Dopo di me verrà mio figlio Renzo». Infastiditi, i colonnelli presero a chiamarlo «il delfino». Allora il padre, nel giorno della cerimonia dell'ampolla alle sorgenti del Po, inventò quel soprannome - «Trota» - che al rampollo è rimasto impresso come un marchio di inadeguatezza.
Oggi, in un sussulto tardivo di dignità, Bossi si rende conto di aver fatto male i conti, e dice: «Chiunque abbia sbagliato, qualunque cognome abbia, pagherà».
Nell'ultima stagione di governo, il suo proverbiale fiuto si era esaurito. La spinta dei «barbari» si era infranta contro l'immobilismo berlusconiano e si era fatta parodia con la pantomima dei ministeri finti nel parco di Monza. Alla difesa del Cavaliere, Bossi ha pagato prezzi altissimi. Anche perché - e qui sta il suo vero fallimento - alla fine non ha portato a casa, cioè al Nord, quasi nulla: la «devolution» annullata dal referendum del 2006, il federalismo fiscale interrotto dalla crisi finanziaria; di altre bandiere storiche, dai dazi sulle merci cinesi alle ronde, meglio non parlare. Così come è meglio ricordare il Bossi purosangue delle origini anziché quello imbolsito del tramonto, che a ogni domanda sgradita risponde con il dito medio. Oggi i tre quarti d'Italia che non lo sopportava fa legittimamente festa. Altrettanto legittimo è rendere al vinto l'onore delle armi. Ora vedremo se Maroni riuscirà a rendere la Lega un partito plurale e legato agli interessi del territorio, o se farà la fine di Martelli. Di sicuro, la causa di un Nord che chiede più rappresentanza e più libertà non finisce con Bossi.

giovedì 5 aprile 2012

Senza titolo.



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Reddito di cittadinanza, il modello sociale europeo che l’Italia ignora. - di Giovanni Perazzoli.




La trasmissione sullo stato sociale di Michele Santoro è stata un’altra occasione persa per parlare dello stato sociale. 
Per me che vivo in Olanda appare assolutamente incomprensibile che non si ponga in Italia alcuna attenzione ai sussidi di disoccupazione europei.

I giornali parlano di un “modello tedesco” che è frutto più di fantasia che di realtà. Tanto più, allora, perché non informare l’opinione pubblica italiana che in Germania (come in tutta Europa) non sono, attenzione, coloro che sono stati licenziati ad avere dallo stato l’affitto dell’alloggio e un sussidio illimitato, ma tutte le persone maggiorenni disoccupate, indipendentemente dal fatto che abbiamo o meno mai lavorato? Il sussidio termina, in mancanza di un’occupazione, con la pensione. Non è assolutamente vero quello che scrivono i giornali italiani che sia a tempo determinato. Confondono per ignoranza o in modo intenzionale l’indennità di disoccupazione e il sussidio di disoccupazione. 

Come si fa a ignorare in Italia un aspetto così importante della vita di ogni cittadino europeo? Non me ne capacito. In Italia non si sa neanche che chi in Europa (Francia, Germania, Gran Bretagna e non solo Danimarca, Svezia…) non guadagna abbastanza ottiene un’integrazione del reddito, e anche chi lavora part time ottiene un’integrazione del reddito. Poi si scopre che in Italia il reddito medio è da miseria. E tutti si sorprendono. Ma veramente in Italia si ignora l’abc dello stato sociale? Mi pare strano da credere.

L’esistenza di quello che di fatto è un reddito di cittadinanza in Europa spiega molte cose che in Italia vengono riproposte, lasciatemi dire, in modo del tutto assurdo. Spiega la flessibilità europea (peraltro di gran lunga minore che in Italia), spiega l’assenza di lavoro nero, spiega l’assenza delle massicce raccomandazioni, spiega anche il fatto che le persone competenti occupino in genere il posto che compete loro (mentre così non è in Italia). Non capisco perché nonostante l'Europa raccomandi dal lontano 1992 all’Italia di introdurre un reddito di cittadinanza questo non succede neanche con la crisi. E soprattutto è incomprensibile che a sinistra nessuno ne parli chiaramente. A chi giova? Evidentemente a qualcuno gioverà.

Certo non giova agli operai che si danno fuoco, alle famiglie che resteranno senza un reddito, e senza una casa di cui Santoro mostra ogni volta il dramma. Ma senza mostrare le soluzioni che in altri paesi hanno adottato da decenni, la denuncia mi pare parziale e anche un po’ ambigua. Non mi pare che sia uno scoop scoprire quello che per diversi milioni di persone è assolutamente normale. La Francia è stata l'ultimo paese in Europa ad adottare una forma di sussidio che di fatto è un reddito di cittadinanza ben venti anni fa. La rivista “Esprit” dedicò un numero speciale all'evento. Possibile che in Italia nessuno ne sappia nulla?

Le persone giudicano per paragoni e confronti. Se il confronto con gli altri paesi viene loro negato non ci si può lamentare che non cambi nulla. La primavera araba è iniziata con la possibilità di guardare con la televisione e con internet fuori del recinto nazionale. Lo stesso avvenne nei paesi dell’Est. 

Forse non si vuole la democrazia europea e si guarda ad altro? In ogni caso, per scegliere bisognerebbe conoscere. Sapere che un’altra società non solo è possibile, ma già esiste da diversi decenni, impegnerebbe diversamente le forze politiche, e i sindacati. Questo sarebbe "rivoluzionario", e sarebbe europeo. L'unico che in Italia sta ponendo con coerenza il problema del reddito di cittadinanza sul modello europeo è Maurizio Landini; temo però sia un outsider, una scheggia impazzita del sistema.

Ichino ha detto in trasmissione che l’indennità di disoccupazione che vorrebbe introdurre il governo Monti è di qualche mese più lunga dell’indennità di disoccupazione tedesca (12 o 18 mesi). Ma non ha spiegato bene (anche perché nessuno glielo ha chiesto) che dopo l’indennità di disoccupazione in Germania (e in tutta Europa) c’è un altro sussidio, meno “ricco”, per modo dire, ma che èillimitato (ovvero limitato solo dalla pensione e, ovviamente, da una nuova eventuale occupazione) e che copre anche l’affitto dell’alloggio. Vi pare poca cosa? Vi sembra un dettaglio trascurabile? Una donna sola e disoccupata con figli ha in Germania dallo stato più di 1800 euro mensili. Non mi fermo qui sulle cifre e sulla tipologia dei benefici che hanno le persone che non lavorano nei paesi europei e in particolare in Germania: l’ho fatto nel numero in uscita su MicroMega. 

Io mi chiedo sgomento: come è possibile dedicare un’intera trasmissione sullo stato sociale, far iniziare la Fornero con la sua proposta di riforma degli "ammortizzatori sociali", e non parlare dei sussidi di disoccupazione che esistono in Europa? Possibile che nessuno ritenga importante ricordare che è dal 1992 che l’Europa raccomanda all’Italia di adottare il reddito di cittadinanza? Possibile che nessuno abbia notato che anche nella famosa lettera della Bce (sic!) si rinnova al governo italiano l’invito a introdurre i sussidi di disoccupazione sul modello europeo e che la stessa cosa viene ripetuta nelle famose domande di chiarimento dell’Europa?

Una breve ricerca su internet: ecco una parte del testo della raccomandazione 92/441 CEE pubblicato anche sulla Gazzetta ufficiale. Leggo:

Ogni lavoratore della Comunità europea ha diritto ad una protezione sociale adeguata e deve beneficiare, a prescindere dal regime e dalla dimensione dell'impresa in cui lavora, di prestazioni di sicurezza sociale ad un livello sufficiente.
Le persone escluse dal mercato del lavoro, o perché non hanno potuto accedervi o perché non hanno potuto reinserirvisi, e che sono prive di mezzi di sostentamento devono poter beneficiare di prestazioni e di risorse sufficienti adeguate alla loro situazione personale.


Poi leggo:

(12) … il Parlamento europeo, nella sua risoluzione concernente la lotta contro la povertà nella Comunità europea (5), ha auspicato l'introduzione in tutti gli Stati membri di un reddito minimo garantito, inteso quale fattore d'inserimento nella società dei cittadini più poveri; 

O anche 

il Comitato economico e sociale, nel suo parere del 12 luglio 1989 in merito alla povertà (6), ha anch'esso raccomandato l'introduzione di un minimo sociale, concepito ad un tempo come rete di sicurezza per i poveri e strumento del loro reinserimento sociale

E dunque l’Europa raccomanda a tutti gli stati membri: 

di riconoscere, nell'ambito d'un dispositivo globale e coerente di lotta all'emarginazione sociale, il diritto fondamentale della persona a risorse e a prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla dignità umana e di adeguare di conseguenza, se e per quanto occorra, i propri sistemi di protezione sociale ai principi e agli orientamenti esposti in appresso.
E questo significa che al reddito minimo garantito si può avere accesso 

senza limiti di durata, purché il titolare resti in possesso dei requisiti prescritti e nell'intesa che, in concreto, il diritto può essere previsto per periodi limitati, ma rinnovabili
(http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:31992H0441:IT:HTML)

In tutti i Paesi dell’Europa questo è realtà. Non in Italia, in Grecia e in Ungheria.

Possibile che nessuno abbia capito che quello che manca in Italia è quella sicurezza economica che viene dalla rete dei sussidi che permette alle persone di cambiare lavoro con relativa tranquillità soprattutto da giovani? Un mio giovane amico olandese ha fatto un’infinità di mestieri; è stato, tra le altre cose, maestro di sci, ha aperto una scuola di windsurf, ha aperto un Hotel, poi lo ha chiuso e aperto una ditta di costruzioni. È questo che si chiama “flessibilità”, non la macelleria sociale che hanno in mente in Italia destra e sinistra. 

Possibile che non si capisca il significato di apertura del mercato e della protezione sociale? Non significa licenziare in massa la gente, significa fare in modo che i giovani possano sperimentare le loro possibilità e le loro idee in un mercato aperto e non controllato dalla corporazioni e dalle varie rendite (vera potenza italiana). È per questo che l’Europa chiede le liberalizzazioni, non certo per perseguitare i tassisti (una delle cose, non so se più ridicole o drammatiche, è stata la farsa sui tassisti, come se da loro dipendesse lo spread. Magari si voleva solo alzare un gran polverone e mandare tutto il resto in caciara?). 

Liberalizzare significa aprire l’accesso alle professioni senza doversi fare un tessera di partito, pagare tangenti, essere parte di un sistema di potere, di una lobby famigliare, politica, religiosa ecc. Significa che in Italia uno che vuole fare il giornalista o il notaio non debba essere figlio di un giornalista o di un notaio, significa che se vuole aprire un negozio si viene aiutati (come avviene in tutta Europa) e non ostacolati. È così difficile da capire? Aprire il mercato significa andare un po’ a vedere come si fa carriera nella televisione di stato, alla Rai. Significa andare a vedere quanti sono i figli di papà dentro le università. Magari dei papà “riformisti”. Ma veramente nessuno capisce che una cosa è la precarietà con la certezza del reddito e dell’alloggio, e un’altra è la precarietà con il niente?
Ho capito che il reddito minimo garantito è come un punto archimedeo: sembra piccolo, ma in realtà è il punto d’appoggio di due concezioni della società completamente diverse.



http://temi.repubblica.it/micromega-online/reddito-di-cittadinanza-il-modello-sociale-europeo-che-l%E2%80%99italia-ignora/