Perché mai Giorgio Napolitano, in piena campagna per i ballottaggi del prossimo 20 maggio, si lascia andare a una battuta sprezzante contro Beppe Grillo, negando l’indiscutibile successo del Movimento 5 Stelle alle elezioni comunali di domenica scorsa?
Come è possibile che un personaggio politico di lunghissimo corso, sempre così attento alle liturgie istituzionali, non si renda conto che al presidente della Repubblica, mentre la partita elettorale è in corso si addice un silenzio assoluto, tombale per non sentirsi dire, altrimenti, di avere comunque interferito? E che dire della immediata replica dell’altro che, giocando in punta di Costituzione, ricorda che il ruolo di garanzia del Presidente riguarda tutti ma proprio tutti i cittadini, anche quelli che l’inquilino del Colle ha sulle scatole. Talché alla fine, tra battute e moniti, non si capiva chi era il comico e chi l’uomo di Stato.
Che il grillismo parlante metta Napolitano di pessimo umore si era già capito lo scorso 25 aprile, nel discorso che partiva dai valori resistenziali per difendere la democrazia dei partiti e deplorare il qualunquismo dei “nuovi demagoghi” eredi di Guglielmo Giannini. Ne seguì vivace polemica che molta acqua portò al mulino di 5 Stelle, come del resto auspicato dall’ex comico, fedele alla regola: molti nemici molti voti.
Chissà, forse il boom di Grillo ha scompigliato il sottile disegno quirinalesco della grande coalizione, pietra angolare della prossima legislatura tecnica e costituente. Di cui restano solo macerie, come ha lealmente riconosciuto Pier Ferdinando Casini con il de profundis sul centro moderato. Perché di moderati, in un paese devastato da crisi, tasse e disoccupazione, ce ne sono sempre di meno. E di crisi di nervi sempre di più. Anche Lassù.
Il presidente della Repubblica guadagnerà il 30% in meno come tutti i ministri. Nelle aziende controllate dallo Stato i manager non potranno guadagnare più di venti volte del dipendente meno pagato.
PARIGI - Sarà una delle prime misure simboliche del quinquennio Hollande: un decreto ridurrà del 30 per cento gli stipendi del capo dello Stato, del primo ministro e dei membri del governo. Lo accompagnerà un secondo decreto, con il quale sarà stabilito un tetto alle remunerazioni dei dirigenti del settore pubblico. E per qualcuno il taglio sarà salato. Riprendendo una proposta del suo partito, François Hollande ha infatti deciso di fissare una regola: la forbice salariale dovrà essere compresa fra 1 e 20. Per essere più chiari: un presidente e amministratore delegato di un'azienda pubblica non potrà guadagnare più di venti volte del suo dipendente meno pagato.
Considerati livelli salariali nelle partecipazioni statali, più alti che nel privato, gli stipendi massimi dovrebbero aggirarsi sui 400-420 mila euro, comprensivi di tutto: tredicesima, indennità, benefit vari. Tra gli attuali manager, ci sarebbe un grande perdente: Henri Proglio, numero uno della Edf, il cui stipendio è di 1,6 milioni, cioè 65 volte superiore al salario più basso dell'impresa. La sua remunerazione dovrebbe diminuire del 69 per cento: conoscendo il suo carattere e la sua amicizia con Nicoolas Sarkozy, c'è da immaginare che non resterà a lungo al suo posto. Il presidente delle Ferrovie, invece, avrà margini per farsi dare un aumento, visto che la sua remunerazione è solo dieci volte superiore al livello salariale più basso.
Hollande, tuttavia, non ha precisato i dettagli del provvedimento e restano alcune incertezze. La misura si applicherà a tutte le società controllate al 100% (Posta, Ferrovie, tv pubblica, ente di gestione del metrò parigino) e anche a quelle in cui possiede più della metà del capitale. Non potrà invece imporre la sua volontà nelle società in cui detiene una quota importante ma minoritaria. In questi casi, farà una raccomandazione ai consigli di amministrazione, cui spetterà la decisione. Laddove la partecipazione minoritaria è molto alta (Gdf Suez, France Télécom), la regola potrebbe essere introdotta, mentre in altre società, come Renault o Air France, sembra difficile che i consigli accettino la proposta.
Infine, ci sarà anche da precisare le persone cui si applicherà il provvedimento. Finora, infatti, si è parlato genericamente dei Pdg (presidenti-amministratori delegati), ma in un'azienda come Edf, per esempio, alcuni membri della direzione hanno uno stipendio superiore a quello di Proglio. La logica vuole che la nuova regola venga applicata a tutte le remunerazioni, ma il rischio di una fuga di cervelli verso il privato potrebbe indurre il nuovo governo a riflettere sulla questione.
Perquisizioni disposte dalla Procura di Siena: controlli sia in uffici di istituti di credito collegati, sia nelle abitazioni di alcuni dirigenti della banca, nella fondazione e nel Comune e nella Provincia di Siena. Accertamenti anche su Mussari, ora presidente Abi.
Cinquanta militari della Guardia di Finanza si sono presentati questa mattina a Rocca Salimbeni, sede della Banca Monte dei Paschi di Siena, prima dell’apertura degli uffici. La polizia tributaria indaga su presunti reati di aggiotaggio e ostacolo agli organi di vigilanza, quindi per ipotesi di rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio. Le perquisizioni hanno interessato anche le sedi del Comune e della Provincia di Siena. Gli indagati sono almeno due, e sono esponenti di banca Mps. Da fonti investigative si apprende che le perquisizioni hanno interessato anche le abitazioni di Antonio Vigni, ex dg del Monte e dell’attuale direttore generale della fondazione Mps Claudio Pieri. L’ultimo accertamento riguarda l’abitazione e l’ufficio senese dell’ex presidente della banca Mps Giuseppe Mussari, ora presidente dell’Abi (associazione bancaria italiana), che sono stati perquisiti. Mussari – viene ribadito – non è indagato.
L’indagine su Banca Monte dei Paschie in particolare sulla acquisizione di Antonveneta sarebbe partita nell’autunno scorso.In particolare uomini del gruppo valutario della Guardia di Finanza di Roma vogliono capire come il Monte abbia acquisito l’Istituto veneto ad un prezzo di 9,3 miliardi di euro, poi salito a 10,3 dall’Istituto spagnolo Santander che solo due mesi prima aveva pagato la stessa Antonveneta 6,6 miliardi di euro. Stamani gli uomini della Gdf hanno perquisito anche l’abitazione senese dell’ex dg della Fondazione Marco Parlangeli e nell’abitazione del presidente Gabriello Mancini e di altri dirigenti sia della fondazione sia della Banca.
In particolare l’obiettivo è verificare il reperimento delle risorse utilizzate per l’acquisizione di Antonveneta, le comunicazioni fatte nel tempo agli organi di vigilanza e le operazioni sul titolo, per alterarne il valore di scambio. Gli inquirenti vagliano una serie di condotte poste in essere a partire dal 2007, in occasione dell’acquisizione di Banca Antonveneta dagli spagnoli del Banco Santander, protrattesi sino al 2012. In particolare ci sono dubbi su un aumento di capitale del 2008 per la parte del cosiddetto fresh da un miliardo di euro.
Per agevolare i lavori di indagine tutti i dipendenti sono stati spostati nell’ala del palazzo che ospita gli uffici finanziari. Intanto il titolo questa mattina apriva in calo, perdendo fino a oltre il 5 per cento e ora il titolo è stato sospeso.
Si è lanciato dalla finestra della Regione. Mister preferenze, lo chiamavano. Era amatissimo dai bolognesi. Si ritirò lo scorso anno dalla corsa per diventare sindaco a causa di un malore. Ieri sera era atteso a una lotteria benefica, alle 21 lo hanno chiamato. Lui ha risposto: "Sì, sì, sto arrivando".
Mister preferenze era diventato mister solitudine. Ma nessuno dei suoi compagni di partito, dei coleghi della Regione, lo aveva forse capito. Nessuno è riuscito ad aiutarlo, neppure la figlia che stravedeva per il padre e lo amava, così come lo amavano senza se e senza ma i bolognesi.
Così, nella stessa solitudine, il consigliere regionale dell’Emilia Romagna e comunale di Bologna, Maurizio Cevenini, 58 anni, ex candidato sindaco del Pd e recordman in Italia per celebrazioni dei matrimoni civili, è morto suicida davanti all’assemblea legislativa. Si è gettato da un terrazzo di Viale Aldo Moro, quello più vicino al suo ufficio. Non è ancora chiaro se sia accaduto ieri sera (ipotesi più accreditata) o stamani mattina, molto presto. Secondo la polizia Cevenini sarebbe rimasto chiuso nel suo ufficio. Ha maturato la decisione di farla finita e solo, come nel totale isolamento politico che viveva negli ultimi mesi, ha scritto un biglietto e l’ha fatta finita. “Una serie di biglietti”, ha detto il procuratore aggiunto Valter Giovannini. Alla famiglia, ma non solo.
La notizia è stata confermata in lacrime dal presidente del’assemblea, Matteo Richetti. Il corpo è stato trasportato all’interno del palazzo, dove per il momento l’accesso è consentito solamente alle forze dell’ordine. Il palazzo è stato raggiunto dal Prefetto Angelo Tranfaglia, dal Questore Vincenzo Stingone e dal Pm Marco Mescolini. Sono poi arrivati arrivati il coordinatore del Pdl di Bologna, Paolo Foschini.
Amato dai bolognesi, il Cev, come veniva comunemente chiamato, era una persona particolarmente sensibile, un dirigente del partito – da sempre – molto apprezzato. Negli ultimi mesi era stato accusato da più parti per il doppio ruolo, quello in consiglio ragionale, e quello in consiglio comunale, al quale aveva risposto attraverso un blog sulle pagine del fattoquotidiano.it. Lo stesso Romano Prodi, che stimava Cevenini, gli aveva detto di non fare un passo indietro.Prodi ha saputo di quanto accaduto a Vienna, appena sceso dall’aereo. Chi era con l’ex presidente del consiglio dice di averlo visto piangere. “Povero amico mio”, sono state le uniche parole che Prodi è riuscito a pronunciare. Prodi è immediatamente rientrato a Bologna e si trova adesso nel suo ufficio.
Secondo quanto sappiamo Cevenini avrebbe lasciato un biglietto, ma le persone che in questo momento si trovano all’interno della Regione, quelle che lavoravano con lui, dicono di non averlo visto. Nessuno, a parte gli inquirenti, al momento sa cosa ci sia scritto.
Una passione sfrenata per il Bologna calcio, e quella per la politica, anche se negli ultimo anno era stato messo un po’ da parte. Dalla nuova giunta di Bologna che era stata eletta anche e soprattutto grazie ai voti di preferenza che Cevenini era capace di portare, era stato fatto da parte. Si aspettava di avere la presidenza del consiglio comunale, ma alla fine venne preferita un’altra persona.
Circondata da una serie di sussurri, invece, è sempre stata la vicenda del ritiro dalla corsa per diventare sindaco. Cevenini era il successore naturale di Delbono. Non c’erano dubbi. Godeva di popolarità, conosceva Bologna e i bolognesi. Aveva esperienza, sia di partito, dove è cresciuto, sia amministrativa. A due mesi dalle elezioni però Cevenini venne colpito da un leggero ictus. Dopo il ricovero a Villalba e qualche giorno per rimettersi in forma annunciò, insieme all’amatissima figlia Federica, che avrebbe lasciato: “I medici e i famigliari mi hanno proibito di mettermi a rischio stress”. Da quel giorno in poi, nei salotti di Bologna, cominciò a girare la storiella che fosse tutta una messa in scena: “Il partito ci aveva ripensato”, dicevano. “E hanno trovato un modo indolore per farlo uscire”. Il Pd sorrideva di fronte a questo chiacchiericcio, ma quando si entrava nel merito della questione in maniera seria, dicevano: “Forse non avrebbe avuto le spalle così larghe per fare il sindaco”.
In realtà Bologna e i bolognesi, come sindaco, è lui che avrebbero voluto. E lo ha dimostrato a spoglio avvenuto: in percentuale era il candidato più votato in Italia, più forte ancora di Berlusconi e degli altri big della politica. I suoi voti furono determinanti perché Merola la spuntasse al primo turno.
Niente di tutto questo sembra riconducibile a un gesto del genere, è bene precisarlo. La vicenda era stata archiviata dall’alto, con la promessa del parlamento. In queste ore sappiamo che ha lasciato una lettera. E che ha scelto la finestra del suo ufficio per lanciarsi nel vuoto. Ma non si conoscono né i contenuti della lettera né i motivi reali che lo abbiamo spinto a compiere un gesto del genere. Sul caso è stato aperto un fascicolo, per dare maggiore chiarezza. Non è esclusa neppure l’ipotesi che non si sia ucciso questa mattina, ma ieri sera dove il Cev era atteso al Parco Nord alla festa di fine stagione del Centro Bologna club, uno di quegli appuntamenti a cui di solito lui non mancava mai. Visto che non arrivava, è stato chiamato varie volte: alle 21 ha risposto al telefono dicendo “sì sì, sto arrivando”. Ma al Parco Nord non è mai arrivato. E le chiamate seguenti sono andate a vuoto.
Foto di gruppo a Panama Giugno 2010 (da destra): Berlusconi, il presidente panamense Martinelli e Lavitola
L’ex editore dell’Avanti ai pm: “Un milione per De Gregorio”.
No, sorrido perché De Gregorio, poverino, è, come penso che voi sappiate altrettanto bene, uno che ha fatto talmente tanti di quei “casini” dal punto di vista economico che io credo che quel milione (di euro, ndr) che ha avuto da Berlusconi se l’è fumato come fosse un mozzicone di sigaretta, perché De Gregorio aveva una capacità di spesa che era superiore a quella di Tarantini...».
È il 25 aprile e Valter Lavitola, ex editore dell’Avanti, faccendiere spericolato iscritto alla P2, viene sentito dai pm napoletani che lo vanno a trovare nel carcere di Poggioreale, per il suo primo interrogatorio investigativo. Lavitola ha appena rivelato che Berlusconi ha pagato un milione per comprarsi il senatore Sergio De Gregorio, eletto il 7 giugno del 2006 presidente della Commissione Difesa di palazzo Madama dal centrodestra, lui che era stato eletto con l’Idv di Antonio Di Pietro. E parlando del suo «amico fraterno» De Gregorio, Lavitola racconta di essere stato il promotore di «Operazione Libertà», la compravendita di senatori dello schieramento avversario, che poi ha condotto insieme al senatore Romano Comincioli. Non ha difficoltà a riconoscere i suoi «meriti», come l’essere riuscito a convincere il senatore calabrese Pietro Fuda (eletto nello schieramento di centrosinistra): «Questo fu uno dei miei meriti, sempre insieme al senatore buonanima Comincioli (deceduto nel 2011, ndr). Io svolgevo una funzione di, tra virgolette, consigliere del senatore Comincioli...». L’ex editore dell’Avanti parla della «Operazione Libertà»: «Tenga presente - si rivolge al pm - gli altri soldi li avrebbero dovuti dare a Dini, a Mastella e a Pallaro». Si apre un piccolo siparietto tra i pm e Lavitola, sulle spinte ideali che portano senatori di uno schieramento a passare all’altro. Risponde l’indagato: «Ma perché Dini e Mastella erano ideologicamente orientati a sinistra? Dini e Mastella erano di centrodestra sempre, Dini è stato con Berlusconi prima, Mastella pure». Prova a rispondere, a convincere della sua buona fede, Lavitola. Tutti i suoi guai, in realtà, nascono da un desiderio mai represso di avere un ruolo politico. Sfortunato, Lavitola, perché aveva contro Gianni Letta e Niccolò Ghedini, nonostante i buoni auspici di Silvio Berlusconi. E, dunque, alla fine, non è stato mai candidato dal Pdl, così avrebbe voluto. Si giustifica sui finanziamenti all’Avanti, parla del suo rapporto di consulente di Finmeccanica a Panama, e di aver incontrato l’allora numero uno della holding pubblica, Pier Francesco Guarguaglini. E ammette di aver presentato il generale della Finanza, Emilio Spaziante all’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per caldeggiare la sua carriera: «In quel momento, si stava discutendo la legge per la nomina del Comandante generale interna al Corpo della Guardia di Finanza, allora, in quella fase siccome chi si occupava di tutta questa storia era il famoso Marco Milanese, dissi al Presidente Berlusconi che se ne doveva occupare lui e gli chiesi di incontrare il generale». I pm gli chiedono di precisare il suo ruolo di procacciatore di affari e commesse a Panama. Lui ribadisce di essere stato un consulente di Finmeccanica: «Abbiamo stipulato quei contratti noti, quello dei sei elicotteri, quello dei radar e quello del telerilevamento, della mappatura del territorio di Panama. Sostanzialmente il mio ruolo si sarebbe esaurito avendo io un contratto di un anno.. facemmo un contratto e mi versarono una prima tranche di centosessantamila euro...». Che sia rimasto socialista, un craxiano di ferro (lui ha raccontato anche di aver portato i soldi di Berlusconi ad Hamammet, a Bettino Craxi), Valter Lavitola non lo nasconde. I pm gli chiedono come mai i suoi interessi di lavoro sono tutti all’estero: «Io in Italia, dottor Woodcook, io non so se gliel’ho già detto, ma non vorrei divagare, ma dopo le vicende di tangentopoli, che mi hanno visto solo spettatore, io in Italia mi sono messo nei “casini” senza fare altre attività, io in Italia non voglio fare assolutamente niente!... E, e, e adesso ancora meno, visto che mi sono tolto l’Avanti, grazie a Dio».