domenica 8 luglio 2012

Assisi, il sindaco non vuole le donne: “C’ho provato, ma nessuna è all’altezza”. - Sara Nicoli

claudio ricci interna nuova


La giunta è senza donne e il pidiellino Claudio Ricci ha perso tutti i ricorsi presentati a Tar e Consiglio di Stato. Ma lui non si è arreso e ha fatto colloqui per "aspiranti assessore". Alla fine, però, ha spiegato di non averne trovate rispondenti "al criterio di immediata efficacia operativa".

Ci sono molti modi per guadagnarsi la ribalta delle cronache e la “gloria” politica. E Claudio Ricci, sindaco della serafica Assisi, la terra santa di Chiara e Francesco, si è guadagnato in pochissimo tempo l’astio sincero di tutte le sue compaesane. E non solo. Vinte le elezioni, nel maggio 2011 sotto le bandiere di una coalizione Pdl-Lega-Udc, Ricci ha pensato bene di formare la sua giunta in tempi rapidi. E ci ha messo dentro solo uomini. Di donne, Ricci non vuol sentir parlare. Né in politica, né – tantomeno – nel privato. Una misoginia robusta, di quelle che non crollano neppure davanti alla necessità di garantire, almeno per buon senso, la rappresentanza di genere, le famose “quote rosa”, nelle pubbliche amministrazioni.
Celibe, senza figli, domicilio non conosciuto in città, Ricci è già finito sulle pagine dei giornali per quell’ordinanza che vieta, ad Assisi, di chiedere l’elemosina a 500metri dai luoghi di culto. I concittadini, però, lo conoscono anche per un’altra sua singolare abitudine. Quella che lo porta, in piena notte, nella piazza centrale di Assisi dentro la macchina, a motore e fari accesi, a consultare freneticamente l’Ipad fino alle prime luci dell’alba. Ecco, Ricci è un personaggio un po’ così, che però punta in alto.
Dopo la vittoria alle elezioni si è presentato a Palazzo Grazioli, al cospetto di Berlusconi, chiedendogli un seggio in Parlamento o, meglio, la presidenza della Regione Umbria, ma il Cavaliere, dopo una prima occhiata fugace, l’ha liquidato in modo anche un po’ brusco: “Ma con quelle orecchie a sventola e senza capelli, ma dove vuoi andare mai?”. Delusione cocente per Ricci. Che, tuttavia, non si è perso d’animo. E subito è partito alla formazione della sua giunta nuova di zecca. Dove ha nominato solo assessori maschi. Le associazioni femminili locali e quelle regionali legate ai partiti di opposizione hanno presentato ricorso al Tar. Che lo ha accolto, il 20 giugno del 2012, annullando tutti i decreti di nomina di vicesindaco e assessori perchè lo statuto comunale (all’articolo 30, comma 2) prevede che il sindaco componga la sua giunta “assicurando di norma la presenza di ambo i sessi”.
Insomma, Ricci sembrava definitivamente sconfitto. La sua nota idiosincrasia per l’altro sesso stavolta avrebbe dovuto trovare una compensazione. Ma anche qui, l’uomo ha annunciato l’intenzione di ricorrere al Consiglio di Stato. E poteva anche essere finita così, in attesa dell’appello. Invece no. Ricci ha consumato una sua personale vendetta. Costruita a tavolino in modo da risultare inattaccabile. Ha cominciato a fare colloqui per aspiranti “assessore” del comune: richiesti titoli di studio, competenza politica, alta managerialità, esperienza amministrativa. La selezione è avvenuta anche sulle candidate alle elezioni del 2011 che avevano ottenuto voti, ma Ricci non ne ha trovata neanche una “rispondente al criterio fondante – si legge nel suo decreto del 2 luglio 2012 – dell’immediata efficacia operativa”.
Certo, il sindaco non ha voluto rendere pubbliche “le specifiche valutazioni” di ciascuna, ma l’esito non è stato comunque “positivo” . Quindi ha rinominato assessori quelli “azzerati” dalla sentenza del Tar: “Io ci ho provato – ha spiegato – ma nessuna era davvero all’altezza”. Inutile chiedersi a quale altezza si riferisse il sindaco. Ma è da rilevare un dato che in tutta questa vicenda ha stupito anche gli osservatori più disincantati: i francescani hanno sposato in pieno la battaglia del sindaco. Il loro fondatore, ne siamo certi, avrebbe fatto l’esatto contrario.

Aldrovandi, la madre e la richiesta di scuse: «Grazie Manganelli. Ma non posso perdonare». - A. Cas.


Patrizia Moretti: «Mio figlio è ancora lì che chiede aiuto».

MILANO - «Accetto volentieri di incontrare il capo della polizia Manganelli ed il ministro Cancellieri». In un post sul blog intitolato a suo figlio, Federico Aldrovandi, Patrizia Moretti ringrazia per le scuse che le hanno rivolto pubblicamente. «Ma non mi si chieda di perdonare ciò che per una madre è imperdonabile , insopportabile, inconcepibile». Le hanno ucciso il figlio diciottenne. Poi l'hanno insultata soltanto perché pretendeva giustizia. La giustizia ha impiegato sette anni per appurare la colpevolezza di quattro agenti di polizia. E da uno dei quattro colpevoli, non ancora rimossi dal proprio incarico, ha anche ricevuto pesanti insulti. «Non ho mai nutrito rancore nei confronti della Polizia anche se devo ammettere che da quella maledetta mattina le divise mi fanno paura», spiega la madre di Federico, ucciso il 25 settembre 2005 a Ferrara. Ma il passo successivo, il perdono della violenza e della protervia, è davvero difficile: «Ora ci si aspetta che da una persona come me, probabilmente sopravvalutata, ci sia il perdono nei confronti dei quattro poliziotti che hanno tolto la vita a mio figlio Federico. Io non sono forte. Io non sono lungimirante. Io non guardo avanti. Io non passo oltre».
SOLTANTO UNA MADRE - Patrizia Moretti spiega di sentirsi soltanto una madre:«Una madre che non si è voluta rassegnare alle menzogne, ai depistaggi, alle intimidazioni. Sono una madre normale come tutte le madri che hanno partorito il proprio bimbo e lo hanno visto crescere fino a diventare quasi adulto. Quasi. Ecco, io sono debole. Sono debole perché non riesco a voltare pagina. Sono debole perché non riesco a di dimenticare Federico che chiedeva aiuto e rantolava mentre quei quattro non lo ascoltavano e continuavano. Non riesco a dimenticare che tutti hanno sentito, ma nessuno ha ascoltato. Non riesco a dimenticare che se qualcuno, uno fra i tanti, avesse ascoltato la sua coscienza io avrei ancora il mio bambino e vivrei ancora felice nella mia vita anonima ma meravigliosa vedendo il suo farsi uomo».

La necessità aguzza l'ingegno.



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Regione, Lombardo lo nomina lui non può accettare: è in carcere. - Emanuele Lauria


Regione, Lombardo lo nomina  lui non può accettare: è in carcere
Il commercialista era stato designato a Sicilia e Servizi.

LA NOMINA numero 101 è risultata indigesta a Raffaele Lombardo: il designato era già in carcere da qualche giorno. L'ultima, incredibile, storia del poltronificio Regione riguarda Sicilia e servizi, una delle società più ricche dell'universo parallelo di Palazzo d'Orleans, protagonista negli anni scorsi di appalti milionari e assunzioni politico-clientelari all'ombra del business dell'informatizzazione. Martedì scorso si è riunita l'assemblea dei soci, per eleggere il presidente del collegio dei sindaci che era già stato indicato dal governo: Eugenio Trafficante, commercialista di Burgio, provincia di Agrigento. Su di lui era caduta la scelta di Lombardo e l'assemblea ha solo ratificato la nomina, all'interno di una lista di cinque professionisti (tre effettivi e un supplente) presentata assieme al socio privato, che aveva indicato il proprio componente in Massimo Porfiri. Quello che nessuno sapeva, al momento di votare il nuovo collegio sindacale, era l'impossibilità del designato
di accettare l'incarico. Per un semplice motivo: Trafficante era, dal venerdì precedente, recluso nel carcere di Sciacca. Colpito da un provvedimento cautelare nell'ambito di un'inchiesta condotta dalla procura della Repubblica di Roma. L'accusa è quella di stalking: il commercialista era da tempo destinatario di una misura interdittiva, il divieto di avvicinamento a una donna, ma l'avrebbe violata. Per questa ragione è stato arrestato dai carabinieri, che hanno eseguito un ordine di custodia cautelare della Procura. I legali hanno inoltrato istanza di scarcerazione.
Trafficante, 61 anni, negli anni '80 aveva fatto parte della giunta comunale di Sciacca, su designazione del partito repubblicano, e più recentemente è stato assessore comunale a Burgio. Durante questa esperienza, nel 2005, è stato vittima di un attentato: l'incendio doloso del portone della sua abitazione.
L'episodio ha avuto successivamente risalto nell'ambito del processo antimafia "Scacco Matto". L'attentato è stato ricostruito come un gesto vendicativo da parte di uno degli imputati del processo e ascrivibile a episodi di vita personale di Trafficante. Il professionista ha uno studio a Burgio e uno a Sciacca.
Com'è possibile che al timone di una spa pubblica sia stato indicato e poi eletto un commercialista già in carcere? Il commissario liquidatore di Sicilia eservizi, Antonio Vitale, non se lo spiega: "Guardi, io non sapevo proprio dell'arresto di Trafficante: sto apprendendo da lei la notizia. E nessuno, martedì, era a conoscenza di questo fatto. La cinquina con i nomi dei nuovi sindaci della società era stata depositata sette giorni prima l'assemblea dei soci. Evidentemente, al momento dell'indicazione da parte della proprietà, Trafficante non era ancora stato arrestato.
Ma è indubbio  -  prosegue Vitale  -  che qualcuno avrebbe dovuto comunicarci in tempo utile che il professionista designato era stato colpito da un provvedimento restrittivo. Faremo gli approfondimenti dovuti ". Secondo il commissario, l'arresto di Trafficante comporta la sospensione dalla carica di presidente del collegio sindacale: "Il reato di cui è accusato poco ha a che fare con l'attività di revisore dei conti: l'eventuale revoca è una questione di opportunità che devono valutare i soci ". Ma c'è chi sostiene che Trafficante sarebbe già decaduto per legge e che l'assemblea ha sostanzialmente eletto un ineleggibile. Di certo, si macchia di un "incidente" dai contorni paradossali la marcia di Lombardo costellata da nomine: da quando ha annunciato le dimissioni, a fine aprile, ne ha fatte 101. Questa però, forse, non vale.



http://palermo.repubblica.it/cronaca/2012/07/08/news/regione_lombardo_lo_nomina_lui_non_pu_accettare_in_carcere-38727946/

Gli invisibili e gli intoccabili ecco i convitati di pietra del G8. - Carlo Bonini


Gli invisibili e gli intoccabili ecco i convitati di pietra del G8


Politici e dirigenti delle forze dell'ordine lasciati fuori dall'inchiesta. Dall'allora capo della polizia Gianni De Gennaro al vicepremier Fini, passando per il ministro dell'interno Scajola. E i 400 poliziotti che fecero irruzione sono ancora oggi ignoti.

ROMA - Il processo è chiuso. Ma il giorno dopo, le parole dell'avvocato Rinaldo Romanelli, difensore del comandante del VII Nucleo Mobile Vincenzo Canterini, hanno il lampo della provocazione. "Se dovessimo ragionare da storici, ma con la logica della sentenza della Corte di appello, direi che, a spanne, alla condanna mancano almeno 500 persone". È un'iperbole, appunto. Che tuttavia tocca il nervo scoperto di questa storia: i suoi convitati di pietra. Uomini degli apparati ed ex ministri della Repubblica di cui, come in certe foto di gruppo ritoccate, è scomparsa la silhouette.

In 11 anni, Claudio Scajola, in quei giorni dell'estate 2001 ministro dell'Interno, non ha mai ritenuto opportuno dover chiarire o riferire quali indicazioni politiche aveva fornito al capo della Polizia Gianni De Gennaro. Quali comunicazioni ebbe con lui la notte della Diaz e nei giorni successivi. Perché non ne chiese le dimissioni o perché non gli furono mai offerte. 

Né è stato mai di alcun aiuto lo stesso De Gennaro, oggi sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e già capo del Dis, il vertice della nostra intelligence. In quel luglio del 2001, intervistato da Enrico Mentana, all'epoca direttore del Tg5, dice: "La Diaz era una semplice operazione di identificazione che si è trasformata in un'azione di ordine pubblico perché gli agenti sono stati attaccati. Se ci sono stati eccessi da parte di singoli saranno verificati. Comunque non ci sono stati errori di valutazione o di comportamento collettivi". 

Nelle parole dell'allora capo della Polizia non c'è una sola circostanza vera, o anche soltanto verosimile, come il processo ha accertato. Ma, da subito, le sue parole definiscono il perimetro entro cui, per anni, l'intera catena di comando di quella notte comincia il suo lavoro di ostruzione alla ricerca della verità.

De Gennaro, evidentemente, scommette su un'inchiesta penale destinata nelle sue previsioni a non andare da nessuna parte. Anche perché il Parlamento decide di ritirarsi in buon ordine rinunciando a un'indagine indipendente, e soprattutto perché l'appoggio del governo è ventre a terra. Non fosse altro perché il disastro del G8 crea un legame malato e indissolubile tra chi, di quei giorni, ha avuto la responsabilità politica e chi quella tecnica e, dunque, dalla verità può solo ottenere un danno. 

Del disastro genovese nessuno sembra portare la paternità. Non De Gennaro, appunto. Non Scajola. Non il ministro della giustizia Roberto Castelli, il solo ad aver visitato la prigione di Bolzaneto nei giorni del G8 senza avere la percezione del lager in cui era stata trasformata. Non il vicepremier Gianfranco Fini, che pure ha ritenuto di essere presente nella sala operativa della questura di Genova non si capisce a quale titolo e con quale utilità. Accompagnato dall'allora maresciallo dei carabinieri e futuro deputato di An Filippo Ascierto.

Anche Arnaldo La Barbera e Ansoino Andreassi, rispettivamente capo dell'Ucigos e vicecapo della Polizia e dunque vertice tecnico-operativo della catena di comando presente a Genova, sembrano, almeno all'inizio, un problema risolto. La Barbera, allontanato dall'Ucigos, viene nominato vicedirettore del Cesis. Andreassi transita al Sisde come numero due del generale Mori. Così come un problema che viene presto risolto è Vincenzo Canterini, il comandante del VII Nucleo, premiato con una ricca sinecura in Romania quale alto rappresentante dell'Interpol. Finché la tela si straccia.

L'inchiesta penale afferra i primi bandoli della matassa e la morte di Arnaldo La Barbera (2002) convince tutti i protagonisti di quella notte che è bene sfilarsi e anche rapidamente da quel disastro. Ansoino Andreassi che, nei giorni successivi alla Diaz, ha arringato gli uomini del VII nucleo nella caserma di Castro Pretorio rassicurandoli che "la polizia italiana non si farà processare", diventa teste di accusa. 

Accredita la circostanza di essere stato "commissariato" da La Barbera (un morto che non può difendersi) e di aver espresso il suo dissenso nella riunione in questura che precedette l'irruzione nella scuola. Salvo, inspiegabilmente, non chiarire perché quel dissenso, a maggior ragione dopo gli esiti disastrosi di quella notte, non venne mai esplicitato nei giorni e nelle settimane successive. Altrettanto rapidamente si sfila e diventa teste di accusa il vicequestore Lorenzo Murgolo, che, quella notte, è il delegato dell'allora questore Francesco Colucci di fronte alla Diaz. Anche lui armeggia con Gratteri e Luperi intorno al sacchetto con le molotov portate all'interno della scuola. Ma ha più fortuna dei suoi colleghi. Il processo non lo coinvolge e la sua carriera prosegue nel Sismi di Nicolò Pollari.

Sulla notte della Diaz, negli apparati si consuma una resa dei conti che l'autorità politica finge di non vedere o che, se vede, ignora. Tra il luglio del 2001 e il maggio del 2010 si succedono al Viminale quattro ministri dell'Interno: Claudio Scajola, Giuseppe Pisanu, Giuliano Amato, Roberto Maroni. Non uno di loro risulta abbia imposto o anche solo sollecitato che la Polizia consegnasse alla magistratura genovese l'identità dei 400 poliziotti che fecero irruzione in quella scuola e che, ancora oggi, restano incredibilmente degli incappucciati. 
 

http://www.repubblica.it/politica/2012/07/07/news/gli_invisibili_e_gli_intoccabili_ecco_i_convitati_di_pietra_del_g8-38669109/?ref=HREC1-9

Ruby, l’agente delle Olgettine: “Berlusconi sapeva la sua età”. - Davide Vecchi




Parla il manager di Macrì, Noemi, Guerra e Polanco: “Il presidente le paga per il silenzio, è una farsa”. E aggiunge: "So e conosco ciò di cui sto parlando, l’imbroglio c’è eccome: era nota la minore età sia della ragazza marocchina sia della giovane di Casoria".

“Sinceramente di destra, naturalmente berlusconiano, ma decisamente indignato da come è finito il processo Ruby”. Francesco Chiesa Soprani ci manda una mail che è un grido di rabbia: domenica ha letto l’articolo del Giornale “Fine dell’imbroglio” e, dice, ne è rimasto indignato. Di come ha descritto il processo Ruby? “Certo, non prendiamoci in giro: la fine dell’imbroglio è soltanto l’abile manovra dei legali degli imputati. So e conosco ciò di cui sto parlando, l’imbroglio c’è eccome: era nota la minore età sia di Ruby sia di Noemi. Sono riusciti a comprare il silenzio delle ragazze. Tutto a posto, ma io a passare per fesso non ci sto. Fare sesso a 70 anni sì, ma raccontare la storiella del Burlesque mi sembra eccessivo. Ma gli italiani non si ribellano?”.
Se non arrivasse da una delle “colonne” di Vallettopoli, lo sfogo finirebbe nel cestino. Invece, Soprani l’ambiente del Bunga Bunga non solo lo conosce, ma ha involontariamente contribuito a costruirlo. Q!uarantatré anni compiuti ad aprile, da 12 manager di quasi tutte le ragazze passate per le residenze (e i guai giudiziari) dell’ex premier. Nadia MacrìNoemi Letizia, Barbara GuerraMaristelle Garcia Polanco e molte altre olgettine. Amico di Fabrizio CoronaLele Mora ed Emilio Fede, selezionatore delle meteorine del Tg4. Finito anche ai domiciliari per Vallettopoli nel 2007 per induzione e sfruttamento della prostituzione e “poi assolto”.
Perché vuole parlare?
Non voglio parlare, vi ho mandato una mail di protesta, volete approfondire e sono disponibile a farlo. Quelli del Giornale non sanno nulla di ciò che hanno scritto, io sì. Il mio è uno sfogo, non mi va che passi tutto come nulla fosse. Fede immagino abbia ricevuto una buonuscita importante, Berlusconi sicuro si ricandida e magari vince con qualche idea come quella di tornare alla lira, Corona è in giro e si diverte, Mora esce dal carcere e ha riserve di denaro garantite. Insomma, finisce tutto nel nulla, come sempre in Italia. La giustizia è diventata quasi effimera, inesistente.
Cominciamo da Ruby. Berlusconi conosceva la sua età?Sì. Ho l’ufficio di fronte a quello di Mora dal 2004. Una sera trovai Fede, in attesa con la scorta, e andai a salutarlo: volevo conoscere la ragazza bella e prosperosa che era con lui, Ruby. Il direttore, con conferma della stessa ragazza, mi disse che era minorenne e che quindi non poteva avere un agente, ma che Lele e il presidente al compimento della maggiore età l’avrebbero inserita come meteorina. Capii che era un modo gentile tra addetti ai lavori per chiarirmi che il suo agente era Lele, quindi intoccabile. Per questo dico che la procura sta cercando di accertare ciò che è vero perché io l’ho sentito di persona.
Lei è stato anche il manager di diverse Olgettine.
Barbara Guerra dal 2002, Polanco dal 2001. Seguite fin dall’inizio. Nel 2009 la Endemol mi supplicava, tramite la responsabile casting dell’epoca, di non mandare più Barbara Guerra alle selezioni perché considerata inadeguata. Tempo dopo è inserita nel cast della Fattoria, dopo aver partecipato alle fantomatiche cene dell’allora premier e in concomitanza dell’acquisto di Endemol da parte di Mediaset. Così come Polanco. Tempo fa mi disse che ormai la manteneva il presidente in virtù del suo silenzio, che l’avrebbe fatta lavorare, che l’aveva sistemata. Quindi va bene così. Siamo ancora amici. L’ultima volta che l’ho vista mi ha detto: “Mi mantiene il presidente, sono innamorata e non ho più bisogno di nulla”. Così Noemi.
La ragazza di Casoria.
Sì, lei. L’ho seguita molto. Il padre mi disse di curarne l’immagine puntualizzando che dei soldi non gliene fregava nulla: “Siamo a posto così, chi doveva intervenire ci ha sistemato”. Lei stessa mi raccontò di aver avuto rapporti intimi con Berlusconi. In due episodi. Uno la sera del 31 dicembre 2008 a villa Certosa, lei era ancora minorenne e mi fu confermato anche da un’altra ospite alla festa. Il secondo nei mesi successivi, me ne parlò Noemi in auto di ritorno da una serata. Anche in quel caso le fu promesso che da maggiorenne avrebbe lavorato come meteorina.
Ai magistrati ha mai raccontato queste cose?
Mi chiamarono prima che scoppiasse tutto come persona informata sui fatti. Quindi avevo ben poco da dire all’epoca. Oggi sono disponibile, ma non mi ritengo un testimone piuttosto un italiano indignato. Non ho mai cercato notorietà, altrimenti non avrei aspettato fino a oggi. Polanco mi ha detto che le ragazze sono pagate per non dire la verità. Per loro magari è normale fare sesso a pagamento, ma io mi aspetto giustizia e, comunque, di non essere preso in giro.
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Mappato Dna di un feto utilizzando solo il sangue della madre.


Il nuovo metodo apre le porte alla diagnosi prenatale di malattie genetiche senza esami invasivi.
ROMA
Nuovi passi avanti nella diagnostica prenatale. I ricercatori della Stanford University School of Medicine hanno mappato per la prima volta il genoma di un bebè ancora nella pancia della mamma, usando solo un campione di sangue materno. Dunque senza alcun contributo del papà. E senza analisi invasive e rischiose.

I risultati del nuovo studio, descritto su Nature, sono legati alla ricerca che è stata condotta solo un mese fa presso l'Università di Washington e che ha usato una tecnica - già sviluppata a Stanford - per sequenziare il genoma del feto utilizzando un campione di sangue dalla madre, oltre a campioni di Dna materni e paterni.

L'intero genoma mappato nel nuovo studio di Stanford tuttavia, non ha richiesto il contributo del Dna del padre, «un vantaggio significativo quando la paternità di un bambino non può essere conosciuta - rilevano gli autori - o il padre potrebbe non essere disponibile, o non vuole fornire un campione».

Insomma, questa nuova tecnica fa fare ai test genetici del feto un passo avanti verso l'uso clinico di routine. «Siamo interessati a individuare condizioni che possono essere trattate prima della nascita o subito dopo» ha spiegato Stephen Quake, autore della ricerca. «Senza queste diagnosi, neonati con malattie metaboliche curabili o disturbi del sistema immunitario soffriranno finché i sintomi diventano evidenti» dice lo studioso. Convinto che, poiché il costo di questa tecnologia continuerà a scendere, diventerà sempre più comune diagnosticare malattie genetiche entro il primo trimestre di gravidanza.

I ricercatori hanno mappato il genoma fetale usando materiale genetico circolante nel sangue materno, dunque azzerando il ricorso a tecniche invasive, che espongono a rischi per la salute di mamma e bebè.

Nel nuovo studio, i ricercatori sono stati in grado di utilizzare le sequenze di interi genomi e hanno potuto scoprire che un feto aveva ereditato la sindrome di DiGeorge, una malattia rara caratterizzata da una serie di diverse malformazioni, mappando l'intero genoma prenatale o l'esoma, la porzione del genoma che contiene le istruzioni per fabbricare le proteine. Cosa che può permettere di eseguire degli screening per individuare le varianti genetiche associate ad alcune patologie.