giovedì 19 luglio 2012

Il suicidio Borsellino. - Marco Travaglio


Ringraziamo vivamente, senz’alcuna ironia, il senatore Marcello Dell’Utri per aver commemorato come meglio non si poteva il ventennale di via D’Amelio: senza ipocrisie. Lui in fondo in questi vent’anni è stato uno dei pochissimi politici a dire sempre la verità. “La mafia non esiste”. “È uno stato d’animo”. “Le risponderò con una frase di Luciano Liggio: se esiste l’antimafia, esisterà pure la mafia”. “Mi processano perché sono mafioso”. “Silvio non capisce che se parlo io…”. “Vittorio Mangano era un eroe”. Ieri, bontà sua, ha aggiunto: “Vent’anni dopo ancora non si sa chi è stato (il mandante del delitto Borsellino, ndr)… Io sono stato, io e Berlusconi. Ma in che paese viviamo?”.
Dell’Utri, almeno, eviterà di inviare corone di fiori e messaggi ipocriti ai familiari di Borsellino e degli uomini di scorta: “Bisogna andare fino in fondo”, “senza guardare in faccia nessuno”, “cercare tutta la verità”, “mai abbassare la guardia”. Sono vent’anni che sentiamo ripetere, a ogni 23 maggio e 19 luglio, queste penose giaculatorie da parte di chi, fra il lusco e il brusco, lavora per insabbiare, occultare, deviare, depistare, inquinare, seppellire la verità. E fino a qualche tempo fa l’operazione era perfettamente riuscita. Ex ministri, soprattutto dell’Interno e della Giustizia, alti carabinieri, alti poliziotti, alti spioni, alti e bassi politici hanno fatto carriera tramandandosi la scatola nera dei segreti inconfessabili su stragi e trattative. Poi purtroppo i mafiosi come Brusca e Spatuzza e figli di mafiosi come Ciancimino jr. hanno violato il patto dell’omertà, che gli uomini del cosiddetto Stato avevano religiosamente rispettato. Politici muti come tombe hanno ritrovato improvvisamente la memoria e la favella, costretti ad ammettere almeno quei pezzi di verità che i mafiosi e i figli di mafiosi li obbligavano a sputare fuori, tra mille contorsioni e contraddizioni. I pm di Palermo e Caltanissetta, eredi e in molti casi allievi di Falcone e Borsellino, e tanti cittadini perbene hanno visto in quegl’improvvisi e inattesi squarci altrettanti varchi per lumeggiare il buio. E han lavorato sodo per due anni, pubblicamente incoraggiati dalle massime autorità dello Stato che invece, sottobanco, trescavano ancora una volta per insabbiare, depistare, deviare. E quando si erano illuse di averla fatta franca un’altra volta, un caso, il meraviglioso caso di un telefono intercettato ha illuminato l’osceno fuori-scena e messo a nudo le loro vergogne: il presidente della Repubblica, il suo consigliere giuridico (un magistrato che sa molte cose sulla trattativa, ma ne parla solo con Mancino, mentre davanti ai pm fa scena muta), procuratori generali della Cassazione e chissà quanti altri statisti si adoperano per avocare o almeno devitalizzare l’indagine di Palermo.
E poi, una volta beccati col sorcio in bocca, invocano inesistenti “prerogative” e ”doveri istituzionali”, amorevolmente assistiti da giuristi e commentatori di chiara fama, ma soprattutto fame. Alla fine il capo di quello Stato che trattò, e forse ancora tratta, con la mafia spedisce i pm che indagano sulla trattativa davanti alla Consulta con l’accusa, sanguinosa quanto infondata, di aver violato norme costituzionali e processuali inesistenti. Nella speranza di bloccare, o almeno screditare, l’indagine che li ha messo tutti a nudo.
E ancora una volta il coro unanime dei laudatores, salvo un paio di eccezioni, scioglie inni all’abuso di potere. Potrebbero ammettere, papale papale: sì, abbiamo trattato con la mafia, eravamo tutti d’accordo, tranne quell’ingenuo di Borsellino che non aveva capito come va il mondo, pace all’anima sua. Invece continuano la farsa dell’ipocrisia. Perciò la famiglia Borsellino invita i rappresentanti del cosiddetto Stato ad astenersi dall’invio di messaggi e corone di fiori in via D’Amelio. Perciò Dell’Utri va ringraziato per la franchezza. Non è affatto vero che Stato e mafia siano la stessa cosa: la mafia è molto più seria.
Il Fatto Quotidiano, 19 Luglio 2012

Dell’Utri: “Trattativa giusta se fatta per evitare guai peggiori”.

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Invitato a La Zanzara di Radio 24 nel ventesimo anniversario della strage di via D'Amelio, il senatore spara a zero contro la commemorazione: "Una stronzata". E il pm Ingroia è "come Khomeini, mi ha rovinato la vita".


“La trattativa? Se si è trattato per evitare guai peggiori è stata la cosa giusta“. Lo afferma, nel giorno del ventesimo anniversario della strage di via D’AmelioMarcello Dell’Utri, senatore del Pdl, intervenuto a La Zanzara su Radio 24. “Anche se con la mafia non bisognerebbe mai trattare” aggiunge Dell’Utri. “Napolitano ha fatto benissimo a scontrarsi per le intercettazioni, è inaudito quello che è successo. E’ il minimo che si sia ribellato”.




E alla richiesta del perché non fosse andato alle commemorazioni per l’assassinio, Dell’Utri ha risposto: “Andare alla commemorazione di Via D’Amelio mi sembra una stronzata, io sono contro la mafia, non sono mafioso, non c’è bisogno di andare lì. E’ ovvio che sono per Falcone e Borsellino e contro i loro nemici. Tutto questo teatrino che ruota intorno a queste cose è fatto da approfittatori inutili che si fanno grandi davanti a queste cose. E poi mi attaccherebbero appena mi faccio vedere”.
Il senatore, sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa, attacca violentemente il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, che lo ha messo nuovamente sotto inchiesta per una presunta estorsione a Silvio Berlusconi, sempre nell’ambito dell’indagine sulla trattativa.  ”Ingroia? Un fanatico, un ayatollah. Ma lo vedete come è fatto fisicamente? Con quella barba, si mette un caffettano ed è perfetto. Come Khomeini, un persecutore, sarebbe capace di fare le peggio cose. A me ha provato a fare di tutto, ha rovinato la mia vita e quella della mia famiglia. Il danno che fanno persone come lui è enorme, e passa quasi senza attenzione. E’ il Khomeini della magistratura”.
Secondo il braccio destro di Berlusconi, il pm siciliano “non può essere normale, non può esserlo – continua Dell’Utri – è come quelli che continuano a raffinare, raffinare e alla fine arrivano all’eroina, al massimo dell’effetto. Per questo ho detto che è pazzo”. Quanto all’accusa di estorsione, “non c’è logica, non c’è niente, solo persecuzione politica, è un processo politico che mira anche a Berlusconi perché vuole tornare in campo. I magistrati dicono: ‘non deve dire che torna in campo, come si permette?’”.
Ma Ingroia scenderà in politica? Alla domanda dei conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo, Dell’Utri risponde: “Non c’è dubbio che cosa vuole che faccia? Inaugura giornali della sinistra, libri della sinistra, senza vergogna. E’ scontatissimo che finisca così”.

A proposito di Sicilia fallita. - Daniele Martinelli

gaetano salvemini


«I governi italiani per avere i voti del Sud concessero i pieni poteri alla piccola borghesia, delinquente e putrefatta, spiantata, imbestialita, cacciatrice d’impieghi e di favori personali, ostile a qualunque iniziativa potesse condurre a una vita meno ignobile e più umana. Qualunque gruppo di uomini onesti di qualsiasi partito avesse voluto mettere un po’ di freno alla iniquità di una sola fra le clientele che facevano capo a un deputato meridionale, era sicuro di trovarsi contro tutta la marmaglia compatta». 


Gaetano Salvemini, Molfetta 1873 – Sorrento 1957, storico, politico antifascista.


http://www.tzetze.it/tzetze_news.php?url=http%3A%2F%2Fwww.danielemartinelli.it%2F2012%2F07%2F18%2Fa-proposito-di-sicilia-fallita%2F&key=df3a1c551d97fa22b1c6a3324f9e991c4b43d151

Palermo, cori contro Napolitano: “Ha messo un macigno sulla giustizia”. - Giuseppe Pipitone




Durante l'incontro organizzato dalla rivista Antimafia Duemila, il corteo delle Agende Rosse ha chiesto a gran voce le dimissioni del capo dello Stato. Duro il fratello del magistrato: "Grave quel che ha fatto il presidente della Repubblica".

”Nessun silenzio né baciamano al presidente della Repubblica Napolitano” è stato il coro che ha scandito il corteo del popolo delle Agende Rosse, a Palermo per commemorare il ventesimo anniversario della strage di via d’Amelio. Negli stessi giorni in cui il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha sollevato un conflitto d’attribuzione di fronte la Corte Costituzionale contro la procura di Palermo che indaga sulla trattativa tra pezzi dello Stato e le istituzioni, non poteva che essere l’operato del capo dello Stato l’argomento principale del dibattito organizzato nell’atrio della facoltà di Giurisprudenza per commemorare il giudice Paolo Borsellino e i ragazzi della scorta assassinati il 19 luglio del 1992.
“E’ estremamente grave che un presidente della Repubblica, a pochi giorni dall’anniversario dell’assassinio di Borsellino, ponga un macigno sulla strada della giustizia: un macigno sconvolgente in questi giorni in cui si cominciano finalmente a vedere degli spiragli di luce e di verità sulla morte di mio fratello e su quelle stragi”, ha detto Salvatore Borsellino mentre i ragazzi delle Agende Rosse chiedevano a gran voce le dimissioni del capo dello Stato. Al dibattito, organizzato dalla rivista Antimafia Duemila e seguito da alcune centinaia di persone (tra il pubblico anche il figlio del giudice, Manfredi Borsellino) hanno partecipato il procuratore aggiunto di Caltanissetta Nico Gozzo, il procuratore generale nisseno Roberto Scarpinato e i pm della procura di Palermo Nino Di Matteo e Antonio Ingroia.
Di Matteo ha analizzato gli ultimi difficili giorni della procura palermitana dopo le polemiche sulle intercettazioni di Nicola Mancino con Napolitano, che hanno portato il Quirinale a chiedere un provvedimento senza precedenti alla Consulta. “Andando avanti nelle indagini – ha raccontato il magistrato – abbiamo percepito sempre più crescere la diffidenza e il fastidio verso le stesse. Molti erano convinti che queste non avrebbero portato a nulla o al massimo ad una richiesta di archiviazione. Quando invece quelle inchieste hanno iniziato a produrre i loro effetti ecco che siamo stati vittima di un vero e proprio attacco continuo. Da una parte autorevoli esponenti politici che hanno definito i magistrati di Palermo come schegge eversive della magistratura con obiettivi intimidatori, dall’altra gli attacchi di certa stampa che ha chiesto provvedimenti disciplinari a nostro riguardo. Nessuno ha ritenuto di dover intervenire per difendere e proteggere l’autonomia e la dignità personale dei magistrati, né il ministro della Giustizia né il Csm, né l’Associazione Nazionale Magistrati nei suoi organismi centrali, che danno voce ad un assordante silenzio. Mi auguro che assieme all’isolamento non tornino i rischi che questo porta”.
Molto applaudito anche l’intervento del giornalista Saverio Lodato, che ha invece focalizzato l’attenzione del pubblico sulla condotta dell’ex ministro dell’interno Nicola Mancino, intercettato al telefono con il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio, mentre cercava di evitare una possibile inquisizione nell’indagine sulla trattativa. “Il cittadino Mancino Nicola – ha detto l’ex firma de L’Unità – privato cittadino come tutti noi è andato in giro per mesi cercando di dimostrare che il primo luglio del 1992, il giorno del suo insediamento al Viminale, non aveva incontrato Paolo Borsellino. Il privato cittadino Mancino Nicola è andato in giro con le agende vuote, agende bianche, per convincerci che lui Borsellino non l’ha mai incontrato. Poi due giorni fa ha ammesso in televisione di avergli stretto la mano nel suo studio: davvero fragorosa come situazione”. Salvatore Borsellino ha quindi concluso il dibattito ricordando le complesse vicissitudini giudiziarie dell’agenda rossa del fratello Paolo, mai più ritrovata dopo la strage di via d’Amelio. “Su chi prese la valigetta di mio fratello Paolo un magistrato come Giuseppe Ayala è riuscito a dare ben quattro versioni diverse contraddicendosi clamorosamente. Quell’agenda rossa rappresenta i mali di questa Repubblica, di queste istituzioni, che hanno paura a venire in via d’Amelio il 19 luglio, da quando noi della società civile la presidiamo”. Poi conclude: “Che tipo di rappresentanti delle istituzioni sono quelli che hanno paura delle contestazioni della società civile?”.

Palermo, il corteo delle Agende Rosse nel ricordo di Borsellino. - Giuseppe Pipitone e Silvia Bellotti



Una lunga carovana di agende rosse alzate al cielo. Un corteo che dal Castello Utvegio è arrivato alla facoltà di giurisprudenza. Così il popolo delle agende Rosse ha riempito le strade di Palermo per commemorare Paolo Borsellino e i ragazzi della scorta a vent’anni della strage di via d’Amelio. Tra i cori intonati dai manifestanti alcuni  che chiedevano le dimissioni di Giorgio Napolitano, altri contro il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e l’ormai classico “fuori la mafia dallo Stato”.  
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Di Matteo: “La solitudine si percepisce ma andremo avanti a cercare la verità”.


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Palermo. “Andando avanti nelle indagini abbiamo percepito sempre più crescere la diffidenza e il fastidio verso le stesse. Molti erano convinti che queste non avrebbero portato a nulla o al massimo ad una richiesta di archiviazione.” ha detto il pubblico ministero della Dda di Palermo Nino Di Matteo.
“Quando poi è stato chiaro che si sarebbe arrivati ad una contestazione di reato e forse anche ad un processo ecco che si è fatto evidente il cambiamento. E quel malcelato fastidio è diventato un manifesto attacco per delegittimare in partenza le inchieste ed i magistrati che le conducono”. “Un attacco continuo – ha aggiunto Di Matteo – quando autorevoli esponenti politici che hanno definito i magistrati di Palermo come schegge eversive della magistratura con obiettivi intimidatori, e che è poi continuato anche su certa stampa che ha chiesto provvedimenti disciplinari a nostro riguardo. Nessuno ha ritenuto di dover intervenire per difendere e proteggere l'autonomia e la dignità personale dei magistrati, né il ministro della Giustizia né il Csm, né l'Anm nei suoi organismi centrali, che danno voce ad un assordante silenzio. Mi auguro che assieme all'isolamento non tornino i rischi che questo porta. Certo forse rispetto al passato la forza militare di Cosa nostra è più debole ma non è sufficiente questa speranza per accettare il rischio della delegittimazione e dell'attacco continuo”. Quindi ha concluso: “Noi continueremo a fare il nostro dovere, a cercare le verità senza paure, anche quelle verità troppo scomode, senza cedere allo scoramento e alla tentazione della polemica e della rassegnazione. A chiedercelo è la sete di verità e giustizia della parte migliore di questo Paese, oltre a tutti i nostri morti, come Falcone e Borsellino, e l'amore per il nostro Paese”.

Paolo Borsellino.



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