giovedì 23 agosto 2012

Finmeccanica, l’ex numero uno: “Sindacati e partiti, tutti vogliono una poltrona in Cda”. - Giorgio Meletti


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Intervista all'ex presidente della compagnia Pierfrancesco Guarguaglini, indagato per false fatturazioni nell'inchiesta sugli appalti Enav, che svela: "Non c'era solo Milanese, la quota di minoranza del consiglio era lottizzata per prassi". Sulle tangenti: "A volte i mediatori chiedono percentuali alte, non so poi cosa ne facciano, ero preoccupato che i soldi non tornassero nelle tasche dei manager".


Pierfrancesco Guarguaglini, 75 anni di cui cinquanta nell’industria di Stato, poi un’uscita di scena tra i fischi. In questa calda estate da pensionato nella sua Castagneto Carducci, come si sente? “Come uno che è sempre stato onesto e qualche volta bischero”. Bischero come rafforzativo di onesto? “No, bischero come rafforzativo di bischero”.
Partiamo dalla fine. Lei viene messo alla porta il primo dicembre scorso dopo un anno e mezzo di bufera sulla Fin-meccanica. Perché non ha mollato prima?
Non avevo fatto niente.
La Finmeccanica stava tutti i giorni sui giornali, con sua moglie Marina Grossi, manager della controllata Selex Sistemi Integrati, indagata. L’azienda non ne soffriva? L’azienda funzionava. Nel 2010 abbiamo preso ordini per 21 miliardi di euro.
Ma alla fine se n’è andato. Mi hanno tolto la delega sulle strategie. Giuseppe Orsi, il mio successore alla presidenza, lavorava da mesi per questo obiettivo. Quando si è insediato il governo tecnico, sono andato a parlare con il sottosegretario Catricalà. Ho detto: “Mettetemi per iscritto che me ne devo andare e me ne vado”. Lui ha detto che sentiva il premier, poi mi richiama e mi dice: “Fai quello che vuoi”.
E lei ha trattato la buonuscita da 5 milioni di euro. Erano 4 milioni, ma non ho trattato niente, quei soldi mi erano dovuti per contratto. Poi c’era un milione e mezzo per il patto di non concorrenza di un anno, e quelli era meglio se non li prendevo, guadagnavo di più con le consulenze che ho dovuto rifiutare.
Ha ancora mercato? Come ingegnere sono bravino.
Laureato a Pisa. Al collegio Pacinotti, stava in piazza dei Cavalieri, di fronte alla Scuola Normale.
Piazza ben frequentata. Mi ricordo Giuliano Amato, i fratelli Cassese, Tiziano Terzani, il matematico Giorgio Letta, padre di Enrico, Remo Bodei. Si studiava. Per vedere un po’ di ragazze andavamo a sorbirci le lezioni d’italiano di Luigi Russo. Dopo la laurea presi il Phd all’University of Pennsylvania. Poi sono andato alla Selenia.
Mai aziende private. Ma ho sempre difeso la mia autonomia di pensiero continuando a studiare, a tenermi aggiornato. Quando alla Selenia è arrivato Michele Principe non ho accettato che si dicesse “quelli non si fanno lavorare perché sono comunisti”.
Lei è, o era, di sinistra? No, ma ho fatto tutti gli scioperi dell’autunno caldo.
Perché lasciò la Selenia? Le ho detto, non mi piacevano le interferenze politiche. Ricordo bene, 15 novembre 1983, mi dimisi da direttore generale. C’era Marisa Bellisario che doveva sbaraccare uno stabilimento Italtel dell’Aquila, e decisero con Gianni De Michelis di portare lì per compensazione una produzione di nostri missili Aspide. Era un’assurdità. Tutti gli altri dirigenti Selenia abbassavano la testa. Io no.
Disoccupato per tre mesi. Poi direttore generale alla Galileo, mille persone contro 8 mila di Selenia.
All’Efim, carrozzone peggio dell’Iri. E non c’erano interferenze politiche? Certo, ma si fermavano al capo, Sergio Ricci. Ci faceva da scudo. Anche quando ero alla Oto Melara, dentro Finmeccanica, il capo, Fabiano Fabiani, ci diceva “con i politici parlo io”. Ho sbagliato a non farlo finora, ma adesso lo ringrazio per avermi creduto nei momenti difficili.
Mentre Fabiani parlava con i politici lei parlava con Chicchi Pacini Battaglia. Mi propose affari con il Kuwait. Ma per vendere armi in un Paese devi conoscerlo profondamente, non basta essere amico dell’ambasciatore.
Già, lei nel frattempo era diventato venditore di armi. Difficile, con clienti che temono che a metà dell’opera scatti l’embargo. Durante la guerra del Golfo bloccammo una fornitura a Dubai, schierato contro Saddam, perché la legge italiana vieta di armare un Paese belligerante. Anche se è tuo alleato. A Dubai non ci credevano.
Per vendere armi si pagano tangenti? Può accadere, come per qualsiasi prodotto. Io non l’ho mai fatto, mi piace essere corretto.
Un mondo di onesti? No. Ci sono le mediazioni pagate in modo ufficiale: a volte i mediatori chiedono percentuali alte, non so poi che cosa ne facciano.
Ci sono anche i manager che chiedono indietro al mediatore, estero su estero, una parte della provvigione. Hai voglia. La mia più grande preoccupazione è proprio che i mediatori offrano soldi indietro a chi glieli dà.
E con Pacini Battaglia che cosa avete combinato? Nulla, né in Kuwait né altrove. In compenso finii per dieci giorni ai domiciliari per traffico d’armi. Nulla a che fare con tangenti o simile. Mi hanno intercettato che parlavo di “blindati per la Bosnia” e “navi irachene”. Gli ho spiegato che parlavo dei blindati per l’esercito italiano che operava in Bosnia, e delle famose navi vendute all’Iraq, ma già bloccate.
E Pacini Battaglia? Mi chiamava per dirmi “si va dalla Susanna”, nel senso di Agnelli, che era ministro degli Esteri. Diceva di volermi mettere al posto di Fabiani alla Finmeccanica. Chiacchiere.
E com’è arrivato al vertice Finmeccanica? Diversi anni dopo, mi telefonò il direttore generale del Tesoro, Domenico Siniscalco. Per essere chiaro, allora non conoscevo Gianni Letta, e neppure il livornese Altero Matteoli.
Ma lei era in quota socialista. Battezzato socialista negli anni 80, perché ero uscito dalla Selenia, in mano ai democristiani.
In Finmeccanica c’è un gran casino o sono invenzioni dei giornali? La verità è che la holding sta troppo in alto per vedere tutto. Con centinaia di società in giro per il mondo, per tenere tutto sotto controllo devi fidarti della squadra di manager.
E lei s’è fidato troppo? Qualcuno mi ha detto, dopo, che si pente di non avermi raccontato certe cose. Ma con Cola sono stato bischero.
Lorenzo Cola, il faccendiere al centro delle inchieste. Faceva il puro, mi metteva in guardia. Due volte è venuto ad accusare miei manager, con aria scandalizzata. Nulla di vero. Però lui passava per l’onestissimo. E io bischero a cascarci.
Marco Milanese, braccio destro di Tremonti, è accusato di essersi venduto le poltrone nei vostri consigli d’amministrazione. Funzionava così: se, per esempio, i membri erano sette, quattro li nominavamo noi tra gli uomini Finmeccanica, ed esisteva un iter interno che garantiva la gestione secondo le linee concordate con la holding. Gli altri tre posti li decideva la politica.
Codice civile alla mano, dovevate nominarli tutti voi. Ma la prassi era questa. La quota di minoranza dei consigli era lottizzata, e io nemmeno me ne occupavo, era il lavoro di Lorenzo Borgogni che si sobbarcava una laboriosa mediazione. Non c’era mica solo Milanese, c’era l’opposizione, i sindacati… Ma i manager chiave li ho sempre scelti io, senza interferenze.
E le sono rimasti grati? Tutta la squadra aveva la maglietta “Guarguaglini”. Qualcuno ci ha messo sopra il nome del mio successore, ed è comprensibile. Qualcuno si è sfilato la mia maglietta, l’ha gettata a terra e l’ha calpestata. Debolezze.
Lei è indagato per utilizzo di false fatturazioni. I magistrati non mi hanno mai chiamato, so solo il nome del reato. Nessuno mi ha mai contestato un fatto, non so di quali fatture si parli. Tutto quello che so l’ho letto sui giornali. Il mio avvocato ha chiesto l’archiviazione. Ho fiducia nella magistratura e aspetto.
da Il Fatto Quotidiano del 23 agosto 2012

Intervento del MAGISTRATO INGROIA - Palermo: 19 luglio 2012 "Via D'Amelio strage di Stato"

Toro Seduto.



"Si dice spesso che il crimine non paga.
Se non paga chi lo fa... figuriamoci chi lo subisce."
(Ermanno Bartoli - Barlow)


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Berlusconi, ”mister unpercento”

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Le concessioni radiotelevisive costano al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi l’uno per cento del fatturato che ne ottiene. Avete letto bene. Lo Stato italiano regala da anni alla Mediaset, attraverso RTI, il 99% degli introiti che ne ottiene. Solo l’uno per cento rimane allo Stato.
Le frequenze su cui Mediaset trasmette sono dello Stato italiano che le può dare in concessione a qualunque società ritenga. Mediaset o altre. La logica vorrebbe che la concessione porti principalmente soldi alle casse dello Stato, non ai privati. La ricchezza del signor Berlusconi, dell’imprenditore Berlusconi, deriva da una “graziosa” concessione ottenuta prima da Craxi con un una tantum annua ridicola e poi dal Governo D’Alema nel 1999, con la legge un per cento (pagina 32: legge 488, art.27 comma 9, del 23 dicembre 1999). Legge mai messa in discussione dagli altri Governi che lo hanno seguito, tra cui ovviamente i suoi.
Il signor unpercento è ricco e continua a incrementare le sue ricchezze in virtù di una legge che gli regala letteralmente le frequenze radiotelevisive. Paga l’un per cento dei ricavi. Ma quale cittadino può avere in concessione un bene dello Stato pagando solo l’un per cento dei ricavi? Nessuno, se non Berlusconi. La legge che regolamenta le concessioni radiotelevisive va cambiata immediatamente. E’ una legge parassitaria che toglie agli italiani, a tutti gli italiani, un reddito enorme, di loro competenza, per donarlo al presidente del Consiglio. Una vera rapina a norma di legge.
Il Gruppo Mediaset vive alle spalle degli italiani. Nel 2007 ha fatturato oltre 4 miliardi di euro, di cui 2.5 miliardi derivanti da pubblicità delle Reti Mediaset. Invertiamo le percentuali: allo Stato il 99%, a Mediaset l’un per cento. L’Italia dei Valori presenterà un’interrogazione parlamentare su questo vero esproprio di reddito degli italiani da parte di Silvio Berlusconi.
P.s. Risultato Operativo 2007 del Gruppo Mediaset (EBIT): 1,49 miliardi di euro.


http://www.antoniodipietro.it/2009/01/berlusconi-mister-unpercento

Sud Africa - La POLIZIA SPARA sui MINATORI IN SCIOPERO - STRAGE 36 gli UCCISI 16-08-2012



Allucinante, una scena raccapricciante. Quanto poco vale la vita dell'uomo per i potenti. Dovremmo fargli fare la stessa fine.

40 uomini e due auto blindate. Quanto ci costa la scorta del deputato Berlusconi. - Thomas Mackinson


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Grazie ad una serie di provvedimenti varati dai suoi stessi governi, l'ex presidente del Consiglio conserva la protezione piena che gli era garantita quando era in carica. Due milioni e mezzo circa il costo annuo, pagato dai cittadini solo per la scorta. Senza contare il dispiegamento di Carabinieri a presidio delle sue abitazioni.

Una quarantina di uomini divisi in due squadre di 20 ciascuna e due auto blindate per una spesa superiore ai 200mila euro al mese. Vale a dire due milioni e mezzo l’anno. Tanto costano gli uomini dei servizi di sicurezza che ancora oggi stanno appresso all’ex premier Silvio Berlusconi. Senza contare i carabinieri dispiegati dal Ministero degli Interni per servizi ordinari presso le ville di famiglia. Un’eredità che lo stesso Berlusconi si è costruito da solo, a più riprese, con provvedimenti ad hoc e che è riuscito a mantenere anche oggi che è un deputato come altri, solo molto molto costoso. Tanto che gli 80mila euro per la scorta balneare di Fini, da settimane oggetto di furiose polemiche, diventano briciole.
Gli uomini al seguito del Cavaliere, spiegano fonti molto qualificate, hanno trattamenti economici doppi rispetto ai colleghi che svolgono servizi di sicurezza ordinari. Hanno stipendi e prerogative equiparati a quelli dei colleghi dello spionaggio e controspionaggio senza esserlo. Siamo, per essere chiari, intorno ai cinquemila euro al mese. E sono appunto quaranta. I conti sono presto fatti.
Nei suoi mandati, a più riprese, il Cavaliere è riuscito a cambiare le regole sulla sicurezza e imporre uomini di fiducia provenienti dalla sua azienda. Lo si scoprirà anni più tardi, quando i magistrati baresi cercheranno risposte all’andirivieni incontrollato di persone dalle ville del Cavaliere: possibile che nessuno della sicurezza controllasse chi entra e chi esce? Si, perché il premier, proprio per tutelare la sua “privacy”, già dal primo mandato era riuscito a sostituire gli uomini dello Stato con quelli della security di Fininvest e Standa (da quel giorno in poi a libro paga degli italiani). Un’impresa non semplice. Prima di allora, infatti, nessuno poteva entrare in polizia, carabinieri o finanza senza un regolare concorso pubblico. Per garantirsi la “sua” scorta – che obbedisca a personalissimi criteri di fedeltà privata e discrezione pubblica – Berlusconi ricorre allora a un escamotage senza precedenti: grazie alle sue prerogative di Presidente del Consiglio, s’inventa una nuova competenza ad hoc presso i Servizi, gli unici cui la legge consente di assumere personale a chiamata diretta. Nasce così un nucleo per la scorta del presidente che fa capo al Cesis (oggi Aisi, Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna) anziché al Viminale, anche se con l’attività di intelligence vera e propria nulla ha a che fare.
Gli uomini d’azienda vestiranno la divisa sotto la guida dell’uomo che, alla fine degli anni Ottanta, faceva la security alla Standa. E che di punto in bianco si trova capo-scorta del presidente del Consiglio con la qualifica di capo-divisione dei servizi. E si porta dietro almeno altre cinque ex body-guard Fininvest. Col tempo la struttura è cresciuta a ventiquattro unità, poi 31 e infine 40 che stavolta vengono in parte attinte dalle Forze dell’Ordine, ma sempre su indicazione di quel primo nucleo. Che tornerà regolarmente ad ogni successivo mandato. Anzi, non smetterà più di prestare servizio.
Quegli stessi uomini, infatti, sono lì ancora oggi che il Cavaliere è tornato ad essere un deputato. Perché? Perché ha deciso così. E’ il 27 aprile del 2006. Berlusconi ha perso le elezioni e si appresta a fare le valigie e cedere la poltrona e la “campanella” del Consiglio dei Ministri a Romano Prodi. Ma non ha alcuna intenzione di cedere anche quella struttura che i magistrati baresi tre anni dopo definiranno quantomeno “anomala” e che in fin dei conti è una sua creatura. Così, giusto 17 giorni dopo il voto, poco prima di lasciare il Palazzo, Berlusconi vara un altro provvedimento ad hoc che oggi giorno potrebbe chiamarsi a buon diritto “salva-scorta”, nella migliore tradizione delle leggi ad personam. Se ne accorgono, in ottobre, Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo sul Corriere, che raccontano come, non fidandosi del professore, la scorta per il futuro Berlusconi abbia provveduto a farsela da solo stabilendo che i capi di governo “cessati dalle funzioni” abbiano diritto a conservare la scorta su tutto il territorio nazionale nel massimo dispiegamento. Così facendo riesce a portarsela via come fosse un’eredità personale, anche se era (e continua a essere) un servizio di sicurezza privato pagato con soldi pubblici. Al costo, ancora oggi, di due milioni e mezzo l’anno.

mercoledì 22 agosto 2012

Ilva, coprire i parchi minerali si può: lo ha fatto la Hyundai Steel in Corea del Sud. - Eleonora Bianchini e Pierluigi Giordano Cardone


parchi minerali ilva corea interna

Il Gruppo Riva e il ministro Clini spingono per il barrieramento, l'Arpa Puglia per la copertura. Beppe Grillo mostra su Facebook il caso virtuoso di un impianto siderurgico asiatico. Ilfattoquotidiano.it ha sottoposto il caso a esperti del settore, trovando conferme. Carlo Mapelli (Politecnico di Milano): "Soluzione tecnicamente interessante, ma non realizzabile a Taranto nel breve periodo".

“Perché in Corea del Sud sì e a Taranto no?”. Mentre politica e tecnici battibeccano a distanza sulle tecniche di bonifica dell’Ilva, (con il governo che propende per la costruzione di una barriera e l’Arpa che spinge per la copertura delle zone a rischio), dal web arriva l’esempio virtuoso: in Corea del Sud c’è un impianto siderurgico che ha deciso di coprire con alcune cupole i propri parchi minerali. Costi? Elevati. Effetti? Al di là delle più rosee aspettative. Da qui l’interrogativo: perché non esportare la soluzione asiatica anche in Italia? Per gli esperti si può. Per l’azienda meno. Ecco perché.
Il dibattito sul caso IlvaMettersi a norma “al prezzo di onerosissimi esborsi finanziari” sulla base “delle migliori tecnologie disponibili”. Le motivazioni del tribunale del Riesame parlano chiaro: per porre fine all’inquinamento provocato dall’Ilva di Taranto bisogna puntare al massimo. Con una soluzione definitiva. A ogni prezzo. La nuova partita sul futuro ‘ambientale’ dello stabilimento siderurgico del Gruppo Riva, quindi, è già iniziata. E per quanto riguarda la bonifica del Parco minerali (da cui si alzano le polveri che infestano il quartiere Tamburi) si gioca su due fronti: l‘Arpa Puglia vuole la copertura dell’area, la proprietà dell’acciaieria propende per il barrieramento (ipotesi sostenuta anche dal ministro Corrado Clini nella conferenza stampa del 17 agosto scorso), che avrebbe tempi di realizzazione e costi nettamente inferiori rispetto a quanto prospettato dall’Agenzia regionale per l’ambiente. Che in questa situazione conflittuale ha scoperto di avere un alleato inaspettato. Un paio di giorni fa, infatti,Beppe Grillo (‘riprendendo’ il Comitato cittadini liberi e pensanti di Taranto, ndr) ha postato sulla sua pagina Facebook la soluzione adottata dalla Hyundai Steel Corporation in Corea del Sud, che ha deciso di coprire i suoi parchi minerali con delle cupole ad hoc. “Questo perché durante le fasi di carico e scarico dei minerali avviene la dispersione di polveri e minerali nocivi nell’aria. Perché in Corea del Sud sì e a Taranto no?” si è chiesto il leader del Movimento 5 Stelle.
L’esempio della Hyundai SteelL’esempio asiatico ha suscitato entusiasmo in Rete ed è stato rilanciato da migliaia di utenti che lo ritengono il massimo del virtuosismo. I dati, del resto, sembrerebbero confermare la bontà della scelta di Hyundai. L’azienda sudcoreana, infatti, è stata la prima al mondo a realizzare un sistema di stoccaggio al coperto per ridurre l’impatto ambientale in tutte le fasi del processo di produzione. Secondo un servizio della Cnn realizzato a ottobre 2011, “l’aria è più pulita e le condizioni di vita sono migliorate”. L’impianto è costato complessivamente 5,5 miliardi di dollari (ammortizzabili a bilancio in un quinquennio) ed è in grado di produrre 8 milioni di tonnellate di acciaio all’anno (l’Ilva ne produce poco più di 9 milioni), con 35 chilometri di nastro trasportatore. Inoltre la copertura del materiale dall’inizio alla fine del processo di trasformazione consente all’azienda di risparmiare circa 20 milioni di dollari all’anno. Al contrario, lasciare tutto all’aria aperta, secondo la Hyundai, “provoca ai produttori di acciaio una perdita dello 0.5% del materiale a causa di pioggia, vento e freddo”. Insomma, gli ingredienti della soluzione coreana sono due: risparmio sulle materie prime e tutela ambientale.
Il parere di Arpa Puglia: “Copertura unica soluzione”“Corea e Giappone sono avanti anni luce rispetto a noi – ha spiegato al fattoquotidiano.it Giorgio Assennato, presidente di Arpa Puglia – La copertura dei parchi minerali è l’unica soluzione tecnicamente possibile contro l’inquinamento, soprattutto nel caso di Ilva”. Il perché sta nella pochezza delle alternative. “A nostro avviso – ha continuato Assennato – l’altro rimedio utile sarebbe la completa delocalizzazione dei parchi, ma questa avrebbe dei costi e dei tempi di realizzazione davvero esorbitanti”. E il barrieramento, magari con una bagnatura costante delle colline di polveri ferrose? “A Taranto la bagnatura dovrebbe esser già fatta e i risultati sono evidenti: non basta. Anche per questo motivo le barriere non sono la soluzione migliore – ha sottolineato il numero uno dell’agenzia ambientale pugliese – e credo che il tribunale del Riesame la pensi così, considerato che nelle motivazioni della sua sentenza ha fatto ampio riferimento alle nostre analisi”. 
L’esperto: “Soluzione tecnica degna di interesse”Sull’esempio delle acciaierie Hyundai Steel Corporation e sulla possibilità di ‘esportare’ la soluzione sudcoreana a Taranto, è interressante il parere al professor Carlo Mapelli, docente di siderurgia al Politecnico di Milano. “All’Ilva il trasporto su nastri protetti dalle navi ai parchi c’è già, a differenza delle cupole che in Corea coprono il parco minerario. Sono una soluzione tecnicamente interessante, per ora presente solo in questo impianto coreano – ha detto il professor Mapelli – Considerato il sistema di svuotamento, non sono una soluzione che si può pensare di installare in tempi rapidi a Taranto, in quanto servirebbero un bel po’ di mesi perché ci sarebbero da predisporre anche delle macchine specifiche sotto le cupole per consentire lo svuotamento del deposito. Comunque – è il parere del professore – si può trattare di una soluzione tecnica certo degna di interesse e di essere considerata per realizzare futuri miglioramenti, almeno di una parte del parco minerario”. Il dubbio di Mapelli, tuttavia, non è tanto nella tecnologia da utilizzare quanto sulla velocità di attuazione. “Rimango dell’opinione che per portare sollievo in tempi brevi alle persone che abitano nei pressi dell’impianto – ha specificato Mapelli – un buon sistema di irrorazione e di barriere verticali sia la soluzione più agibile, poi per il futuro compartimentare il parco e coprire singoli settori potrebbe essere interessante. La differenza è che quello coreano è un impianto nuovo di zecca (progettato apposta in quel modo) mentre qui bisogna modificare situazioni pregresse ed è molto meno semplice sopratutto su una superficie di 65 ettari. Col tempo e con un buon piano si potrà modificare qualcosa anche a Taranto”. Anche perché il tribunale del Riesame parla chiaro: soluzione definitiva a ogni costo e con le migliori tecnologie possibili. Dalla Corea del Sud un’idea è arrivata. E secondo gli esperti è fattibile, con buona pace di ministri e gruppo Riva.