lunedì 3 settembre 2012

Tagli. A rischio anche la lotta alla mafia. - Nicola Tranfaglia.


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Giovanni Falcone (come ricorda chi lo ha conosciuto prima che fosse barbaramente ucciso, con Francesca Morvillo e le persone che lo accompagnavano anche a Capaci) aveva un sogno: che la lotta alla mafia potesse proseguire fino alla distruzione di Cosa Nostra e dei suoi alleati, fuori e dentro le istituzioni dello Stato, con i mezzi finanziari e culturali necessari. 
Falcone, come tutti i magistrati che ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare negli ultimi vent’anni, riteneva che l’educazione delle vecchie e nuove generazioni di italiani fosse uno strumento essenziale per quella lotta ma era, nello stesso tempo, convinto che a quella difficile opera dovesse affiancarsi una lotta quotidiana condotta da corpi specializzati dello Stato e composti da persone esperte e persuase dell’urgenza di un lavoro massiccio contro le associazioni mafiose presenti in tutto il paese, anche se concentrati in alcune regioni del Mezzogiorno continentale  e della Sicilia.
Da questa idea di fondo è nata negli anni novanta, sulla base di considerazioni precise di Falcone, Caponnetto e Borsellino, cioè di quelli che hanno dedicato la vita alla lotta contro Cosa Nostra e i suoi alleati, la Direzione Investigativa Antimafia e sulla base dell’aggravarsi progressivo della crisi politica, morale ed ora economica del nostro paese, è stato fissato il cosiddetto TEA (o trattamento economico aggiuntivo) per fare in modo che i poliziotti che si dedicano in maniera esclusiva a quella lotta che consente loro di non coltivare nessun altro lavoro e percepire – per fare un esempio significativo – circa 250 euro aggiuntivi allo stipendio dopo trent’anni di servizio.
Una somma che non arricchisce nessuno ma che non è neppure trascurabile per chi vive di un medio stipendio pubblico, come la maggior parte dei dipendenti dei Ministeri che si occupano direttamente del difficile compito.
Ma il 12 novembre scorso la legge di stabilità ha drasticamente ridotto il trattamento economico aggiuntivo provocando le proteste non soltanto di parlamentari della destra ma anche degli stessi poliziotti della Dia riducendolo al 35 per cento rispetto alla misura ordinaria. Ora, proprio in questi giorni, arriva la mazzata finale giacché il ministero dell’Interno dovrà risparmiare 131 milioni di euro e nel bilancio del Ministero dell’Economia c’è il capitolo 2673 che riguarda il Dipartimento di Sicurezza del Viminale che riduce il passaggio della somma, prevista fino a qualche mese fa, di 3.655 milioni di euro, si passa a una cifra che toglie più di un terzo dello stanziamento iniziale.
Non solo. Il personale della Dia, che è sottodimensionato (mancano circa duecento elementi) viene ulteriormente ridotto e si creano gruppi interforze per il controllo degli appalti (quando già esiste nella Direzione un osservatorio centrale) e si decurtano i fondi del trattamento economico aggiuntivo.
Sul Viminale pesa un ricorso presentato da 500 tra ufficiali e sottoufficiali che dal novembre 2011 non ricevono più quel che è loro dovuto.
“I provvedimenti del Ministero – commenta Enzo Marco Letizia, segretario nazionale dell’Associazione Nazionale Funzionari di Polizia – puniscono quelle donne e quegli uomini che più di altri contribuiscono alla confisca dei beni della mafia.”
Ma lo Stato sembra proprio averli abbandonati.
Parole esagerate o è soltanto la fotografia di una situazione drammatica che rischia di portare invece una battaglia più che mai necessaria di fronte alla crescente espansione del fenomeno mafioso in Italia e alla sua crescente potenza economica e politica?
Lasciamo giudicare ai lettori ma siamo convinti che, di fronte a un governo che non ha certo intrapreso una battaglia culturale precisa in questo senso il rischio è grave e richiede un intervento rapido e efficace nel giro dei prossimi giorni.


Alessandro Giari scrive:
La morte di Dalla Chiesa involontariamente ha segnato un capitolo importante nella mia vita.
Dopo la Sua morte fu nominato Prefetto di Palermo il Dott. Sica che non si fidava di nessuno e, così, volle che per aluni tipi di indagini fossero utilizzarti solo Professionisti di una certa Università.
Io ne facevo parte e, così, nel 1984 feci il "mio debutto" nelle indagini su omicidi di mafia in Palermo. Doveva essere un intervento sporadico e per poco tempo. Furono 6 anni circa .. Un esperienza che non dimenticherò mai, non solo per la situazione "critica" in cui si lavorava, ma anche per le immense personalità che ho avuto modo di conoscere in quella terra che, per me, è la più bella e ricca di cultura e genialità dell'intero Mediterraneo. Non mi riferisco solo a personaggi noti a tutti, alcuni dei quali poi barbaramente uccisi, ma anche persone colà nate e vissute, semplici ma immensamente ricche dentro, e veramente per bene che, nelle loro possibilità, vivevano combattendo ogni giorno contro la Mafia .. A tutti loro devo dire grazie ora come allora.

30 anni fa l’omicidio del Generale Dalla Chiesa. Il figlio Nando: “un delitto politico”. - Stefano Corradino


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“Ci sono cose che non si fanno per coraggio. Si fanno per potere continuare a guardare serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli. C’è troppa gente onesta, tanta gente qualunque, che ha fiducia in me. Non posso deluderla”. Così parlava al figlio Nando il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso il 3 settembre di 30 anni fa. Domani in tanto lo ricorderanno. A Milano sarà presentato il documentario “Il Generale” di Dora, figlia di Nando, nata pochi mesi dopo la morte di suo nonno. Intervistato da Articolo21 Nando Dalla Chiesa ricorda gli insegnamenti di suo padre e il processo di rimozione di tanta parte della politica…
Intorno alle commemorazioni che ricordano tuo padre a 30 anni di distanza dalla morte avverti più retorica o partecipazione vera?Dipende da ciò a cui ti riferisci. Se parliamo della gente ogni anno, e non solo durante le commemorazioni, vedo una partecipazione cospicua e vera.
Se invece parliamo della politica?
Troppe volte in questi anni ho avuto e continuo ad avere la sensazione che gran parte della politica sembra non essere interessata alla ricerca della verità e della giustizia e soprattutto, cosa ancora più grave, sembra voler procedere ad un’opera di rimozione del passato.
“Un delitto politico” affermò Giorgio Bocca, a cui si deve l’ultima intervista, all’indomani dell’assassinioLo confermo anche dopo 30 anni. Quella politica che può uccidere e far finta che nulla sia successo. O che si dimena alla ricerca di carte segrete ed inedite quando sarebbe meglio che facesse i conti con quello che è accaduto platealmente.
C’è un fil rouge, anzi nero che collega l’assassinio di tuo padre e le stragi degli anni Novanta, comprese quelle di Capaci e via D’Amelio?Non si può andare da una cosa all’altra disinvoltamente e creare correlazioni specifiche. Semmai il filo che li tiene insieme è la frequentazione dei poteri illegali con una parte di quelli dello Stato. E comunque non è poco…
L’assassinio di tuo padre può essere considerato uno dei ‘buchi neri’ della storia d’Italia? Conosciamo gli esecutori materiali ma non i reali mandanti…I mandanti (e gli esecutori) di Cosa Nostra sono stai individuati, rimangono fuori i mandanti esterni. Ma non possiamo dimenticare cosa può voler dire quell’accusa prescritta ad Andreotti di aver intrattenuto rapporti organici con la mafia fino al 1980. Mio padre tutto sommato viene ucciso nell’82…
C’era un grumo di potere che penalmente può non essere stato identificato ma moralmente e politicamente sì.
Tutto il putiferio che si è scatenato in questi giorni sulla presunta trattativa stato-mafia sembra paradossalmente aver ottenuto un solo effetto: quello di distogliere l’attenzione sul tema vero: la verità sulle stragi del ’92 e del ’93 (e non solo…) La verità è sempre più lontana?Sì, e l’unico modo in cui può venire fuori con nettezza è che qualcuno parli. Ma non può essere un mafioso a parlarne perché non verrebbe creduto. Deve essere un uomo delle istituzioni a raccontare quello che sa; temo però che non lo farà nessuno.
“Tuo padre con i mascalzoni non prendeva neanche un caffé” scrivi oggi sul “Fatto”. Tuo padre non trattava.
Non si tratta e non si flirta con chi delinque: ne va del proprio ruolo e della propria dignità. E’ quello che ci ha insegnato.
Cos’altro? Qual è il valore più importante che vi ha trasmesso?
Il senso delle istituzioni, che conta molto di più degli interessi privati.

L’aggressione di Repubblica. - Antonio Padellaro



Così fai il gioco della destra” era l’anatema scagliato nelle vecchie sezioni del Pci contro chi osava mettere in discussione la linea ufficiale del partito, l’unica autorizzata a difendere le masse lavoratrici dai “provocatori” (sempre appostati nell’ombra) e dunque da una visione dei problemi “oggettivamente fascista”.
Pensavamo che la parodia di quei dirigenti, un po’ sedotti dal mito dell’Urss e un po’ furbacchioni, immortalata dal sindaco Peppone di Gino Cervi, fosse ormai un reperto da cineforum. Invece, venerdì su la Repubblica, il direttore Ezio Mauro ce ne ha fornita una nuova versione rap: “Il fatto è che l’onda anomala del berlusconismo ha spinto nella nostra metà del campo (che noi chiamiamo sinistra) forze, linguaggi, comportamenti e pulsioni che sono oggettivamente di destra”. Di questa prosa anni Cinquanta si è già occupato Marco Travaglio e, sull’ingenuo tentativo di mettere d’accordo capra e cavoli a proposito dello scontro su Napolitano tra Scalfari e Zagrebelsky, non aggiungeremo altro. Qualcosa invece ci preme dire a proposito dell’attacco ai limiti della diffamazione che il direttore di quel giornale ha voluto sferrare contro il Fatto e i suoi lettori.
Certo, non siamo mai nominati, ma è l’abitudine della casa: ammantarsi di spocchiosa superiorità per meglio insultare l’avversario e poi nascondere la mano. È il giornalismo “de sinistra” che per quindici anni si è giovato dell’alibi Berlusconi per alzare le barricate e scendere nelle piazze con roboanti proclami e che adesso, soddisfatto, torna finalmente a riposarsi all’ombra del potere costituito. Notare il linguaggio da proprietari terrieri: “La nostra metà del campo”. Nostra di chi? Chi ve l’ha regalata? Cos’è, un lascito di Napolitano?
E in nome di cosa pensate di rappresentare “ciò che noi chiamiamo sinistra?” (Danno perfino il nome alle cose come la Bibbia). 
Un fenomeno davvero bizzarro quello di un direttore e di un fondatore che si credono dei padre eterni. Verrebbe da chiedere in nome di quale autorità morale, di quale cattedra superiore decidono essi chi è di destra e chi di sinistra? E poi, visto che si parla di giornali esistono notizie di sinistra e notizie di destra? Di grazia, questa scelta per così dire salvifica avviene sulla base delle telefonate del Quirinale? Del gradimento dei vertici Pd (non a caso ieri Bersani scimmiottava Mauro contro Grillo e Di Pietro)? O degli interessi del padrone? E se per caso a Savona c’è una centrale con tassi di inquinamento tipo Ilva, a cui la proprietà del giornale tiene assai, non se ne parla perché trattasi di notizia “oggettivamente” di destra?
Noi rispettiamo i giornalisti e i lettori di Repubblica e non ci permetteremmo mai di scrivere che per loro “cultura è già una brutta parola”, come abbiamo letto nell’editoriale in puro stile Comintern. Comprendiamo anche l’irritazione che si respira in quelle stanze da quando Il Fatto esiste e prospera, e se alcune tra le migliori firme di quel gruppo hanno scelto di lavorare con noi se ne facciano una ragione. La polemica giornalistica anche quando è sopra le righe va accettata. Le aggressioni no.
Il Fatto Quotidiano, 26 Agosto 2012

Renzi, non votatelo! - Giorgio Bongiovanni


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L’altro giorno ad una domanda di un giornalista del Fatto Quotidiano che gli chiedeva un’opinione sulla costituzione del governo quale parte civile al processo sulla trattativa mafia-stato il sindaco di Firenze, Matteo Renzi ha risposto di rivolgersi all’ufficio stampa perché lui era impegnato. Era allo stadio a guardare la Fiorentina.
Cioè, il primo cittadino di una delle città teatro di una delle peggiori stragi che la nostra già tragica storia ricordi, per altro al centro delle difficilissime indagini sulla trattativa, si permette di non rispondere ai giornalisti perché sta guardando una partita di calcio!!!!
Ecco Signori, questo sarebbe uno che ambisce a candidarsi alle primarie del primo o secondo partito di maggioranza del nostro Paese, uno che vorrebbe diventare Presidente del Consiglio, deputato alla Camera per mettere le mani sulla nostra Costituzione!!!
Meno male che non è il sindaco della mia città, Palermo, ma solo un ambizioso arrivista di quel Pd lontano anni luce dai valori e dagli ideali di coloro che lo fondarono.
Gente, non votate questo ibrido personaggio, uno spocchioso mocciosetto che cari amici fiorentini, avete proprio sbagliato a votare. Uno che invece di permettersi di sbattersene dei suoi concittadini che hanno perso la vita sull’altare dell’accordo politico-mafioso che ha generato le stragi, dovrebbe essere posto in stato d'accusa per gravi offese ai martiri di Firenze, Palermo e Milano e cacciato da quella splendida città che fu di Dante e di Savonarola.
Mi quereli pure, signor Renzi, andiamo in tribunale, sarò contento di farla vergognare davanti ai suoi concittadini per la sua ignoranza e bassezza morale.

Presto la verità sull'omicidio del Generale dalla Chiesa. - Giorgio Bongiovanni


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Trent'anni fa, il 3 settembre del 1982, a Palermo in via Isidoro Carini un commando di Cosa Nostra uccise a colpi di kalashnikov il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. 
Un omicidio di Stato, o meglio, dello Stato-mafia che chiese un favore a Cosa Nostra per conto dei potenti criminali che, allora come oggi, dominavano e dominano il nostro Paese. L'ho detto più volte in questi anni e ancora una volta lo ripeto, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, Falcone, Borsellino e altri martiri del nostro Paese, sono i veri padri della nostra Patria. Di seguito mi permetto di riproporre due articoli scritti in passato con il cuore e con l'anima, in suo onore, da parte mia e di tutta la giovane redazione di ANTIMAFIADuemila, formatasi anche con i suoi insegnamenti. 

Il Generale, padre della patria 
di Giorgio Bongiovanni
Il 3 settembre 1982 il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, la sua giovane moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo venivano trucidati da un commando di Cosa Nostra.
Sono passati 29 anni e mi chiedo: Cosa avrebbe potuto fare il Generale se non fosse stato trucidato? Se gli avessero dato quei poteri che gli avevano promesso e mai assegnato?
  
Penso che avrebbe stanato, uno ad uno, porta per porta, capi e gregari della mafia.
Li avrebbe trovati tutti, i latitanti, e avrebbe costretto i capi mafiosi a commettere passi falsi, per poterli catturare e arrestare. Avrebbe trovato tutte le prove da consegnare ai magistrati, a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli altri componenti del pool, per minare fin dalle fondamenta i rapporti tra la mafia e la politica.
L’era Andreotti sarebbe finita 10 anni prima e i vari Lima, Ciancimino e tutta la feccia della Dc sarebbe scomparsa dalla nostra isola.
Forse sarebbe riuscito pure ad evitare, indebolendo Cosa Nostra, le stragi Chinnici, Falcone, Borsellino e le altre… Avrebbe scovato quelle sette massoniche che ancora oggi imperversano in Sicilia e sicuramente avrebbe ripulito il marcio che si annida all’interno delle forze dell’ordine in Sicilia e i servizi segreti deviati legati ai boss.
Questo ed altro avrebbe fatto, il Generale, padre della patria e padre di tutti noi giovani diventati uomini anche grazie a lui.
Qualcuno delle entità di grosso potere economico religioso e politico ha chiesto il favore a Cosa Nostra come hanno confermato le voci interne all’organizzazione criminale.
Guttadauro: “Salvatore…ma tu partici dall’ottantadue, invece… ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare a Dalla Chiesa… andiamo parliamo chiaro…”.
Aragona: “E che perché glielo dovevamo fare qua questo favore… Ma perché noi dobbiamo sempre pagare le cose...”.
Guttadauro: “E perché glielo dovevamo fare questo favore...”
(Intercettazione nel salotto di casa del capo mandamento di Brancaccio Giuseppe Guttadauro mentre parla con un suo gregario Salvatore Aragona, 2001)
Chi lo ha chiesto questo favore?
Sicuramente qualcuno che oggi comanda l’Italia, che comanda nel mondo della finanza, della politica e anche delle forze dell’ordine.
Per il Generale dalla Chiesa, per la sua giovane bellissima moglie, per l’agente Domenico Russo, per loro daremo il nostro contributo per fare giustizia cercando la verità.
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Il mio ricordo del generale dalla Chiesa
di Giorgio Bongiovanni
Oggi, anniversario della morte del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Quando fu ucciso, il 3 settembre del 1982, avevo 19 anni e vivevo nella mia terra, in Sicilia. Più precisamente vicino a Siracusa.
Il giorno successivo vidi sui giornali la foto del corpo del Generale e di quello di sua moglie, Emanuela Setti Carraro, trucidati dalla mafia e mi misi a piangere senza capirne il motivo.
Poiché in quel momento, in giovane età, di mafia non mi occupavo, immerso in tutt’altri interessi.
Quel nodo alla gola, quella tristezza tornarono uguali quando nel secondo anniversario della sua barbara uccisione, venne presentato il film del nostro amico regista Giuseppe Ferrara “Cento giorni a Palermo”, interpretato da Lino Ventura e Giuliana De Sio. Ricordo che di fronte allo sguardo sbigottito di mia moglie lanciai d’istinto gli occhiali contro la televisione mandandoli in mille pezzi.
Per i successivi vent’anni o quasi di mafia non mi sarei ancora occupato, impegnato nella mia vita spirituale e in opere sociali seguendo il messaggio del Cristo.
Il generale dalla Chiesa rimase però sempre dentro di me. E ricomparve con forza nel 2000, quando nel mio subconscio, nella mia coscienza, nel mio spirito lo percepii come il simbolo della giustizia, dell’integrità, della solidarietà, della profonda essenza dell’essere padre, dell’altissimo senso di dovere nei confronti della società, dei cittadini del proprio Paese.
Il generale dalla Chiesa è l’ispiratore della rivista ANTIMAFIADuemila.
Il suo sacrificio, la sua ingiusta morte e il suo insegnamento – insieme a quelli di Falcone e Borsellino e di tutte le vittime della mafia - hanno spinto il mio spirito a fondare questa rivista.
Nel mio ufficio è appeso un quadro di Falcone e Borsellino e alla sinistra della mia scrivania c’è la foto del generale dalla Chiesa. Un giorno i miei figli e i miei nipoti mi chiesero chi fosse quella persona, se la conoscevo, se era un mio amico. Risposi loro raccontando la storia che voi, cari lettori, avete letto sopra.
Il generale dalla Chiesa è stato ucciso da Cosa Nostra, la mafia siciliana, la più potente e la più conosciuta del mondo. Per la sua morte, quella di sua moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo sono stati condannati gli esecutori materiali, tutti appartenenti alla cosca corleonese di Riina e Provenzano.
Il generale è stato ucciso perché a Cosa Nostra è stato chiesto un favore da personaggi potenti che fanno parte della politica, dell’alta finanza, della massoneria deviata, dei servizi segreti, dei poteri forti.
Il senatore a vita Giulio Andreotti è a conoscenza di questi fatti, complice o omertoso.
Il generale è stato ucciso da personaggi sporchi che ancora oggi comandano e che spesso sono gli stessi che portano ghirlande di fiori in via Isidoro Carini, a Palermo, nel luogo in cui Carlo Alberto dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo hanno lasciato la vita.
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