martedì 14 gennaio 2020

Il presidente di Confindustria sull’orlo del fallimento.


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I padroni, si sa, sono sempre lì a dar lezione su come – secondo loro – dovrebbe essere governato il Paese, ridotta la spesa pubblica (aumentando però la parte che deve andare a “sostenere le imprese”), reso efficiente questo e quello,
L’ideologia, o il senso comune, degli ultimi decenni recita infatti “privato è meglio, il pubblico è solo sprechi e inefficienza”. Poi uno guarda le Autostrade privatizzate, che cadono fisicamente a pezzi (dal Ponte Morandi in poi, almeno, se ne dà notizia in attesa della prossima strage), e qualche dubbio comincia a venire anche ai più tonti.
Tra i padroni, i più severi di tutti sono da sempre i dirigenti di Confindustria (il “sindacato” degli imprenditori). I quali, per una sorta di proprietà transitiva, essendo i rappresentanti di più alto livello delle imprese, diventano automaticamente i veri “maghi dell’economia”, quelli che sanno come si fa e quindi hanno solo da insegnare a tutti. Ricordate le prime campagne elettorali di Berlusconi? Tutto il suo argomentare si reggeva sul fatto che “ho creato aziende, dunque…”.
Va da sé che il Presidente di Confindustria, sebbene carica elettiva temporanea, debba essere considerato il Migliore della categoria, o almeno uno dei più bravi (anche Gianni Agnelli fu tra loro…).
Errore.
Nelle pagine interne dei giornali, magari in “taglio basso” (a fondo pagina), fa capolino timidamente una notizia: il Presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, titolare della omonima Arti Grafiche Boccia, ha depositato in tribunale una domanda ex articolo 182 della legge fallimentare, «affinché possa essere concesso dal tribunale competente il divieto per i creditori di iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive e di acquisire titoli di prelazione non concordati». 
Negli Stati Uniti si chiama Chapter 11, e significa “protezione dai creditori”. In pratica, non potendo pagare i fornitori e rimborsare i creditori, chiede tutela legale perché questi non possano rivalersi sugli assset aziendali, decretandone così la fine.
Nel 2017 l’azienda aveva accusato perdite per 3 milioni di euro, e girava voce che i suoi dipendenti vedessero lo stipendio sempre più di rado.
La richiesta al Tribunale è accompagnata da un nuovo piano industriale: «un piano di rilancio che prevede nuovi investimenti pari a 10 milioni di euro nei prossimi 18 mesi, che si aggiungono ai 40 milioni già investiti negli ultimi 15 anni, oltre a un aumento di capitale già realizzato pari a 1,3 milioni con annessa ristrutturazione del debito».
La parolina magica è proprio alla fine (“ristrutturazione del debito”), che quando viene evocata per i conti pubblici equivale a dichiarazione di bancarotta (il debito “ristrutturato” è quello che, in parte o in toto, non viene restituito ai creditori).
Le difficoltà aziendali sono comprensibili (la crisi globale non è mai stata superata da 12 anni a questa parte, e il mondo della stampa-grafica-editoria l’ha subita più seriamente di altri settori), e nessuno pretende di insegnare come si fa l’imprenditore.
Però, per simmetria, ci si aspetterebbe che il quasi fallimento come imprenditore inducesse “l’amministratore delegato” in crisi a un profilo più basso, modesto, defilato, sul fronte pubblico.
E invece no. Boccia, come presidente di Confindustria, continua a pontificare come se non ne avesse mai sbagliata una, da imprenditore.
Viene nostalgia dei tempi in cui far parte della borghesia era una cosa seria, esisteva la “legge sui falliti” per cui uno che faceva bancarotta non poteva più fare l’imprenditore, ma solo il lavoratore dipendente (se trovava qualcuno disposto ad assumerlo…). Una forma di “selezione dentro la classe dirigente” mirante a “migliorare la qualità”, a “premiare il merito” e bastonare il demerito.
Ma manco la borghesia è più quella di una volta…

Porto di Bari nelle mani della mafia, 24 condanne: 20 anni al nipote del boss Capriati.

porto di Bari

BARI - Il gup del Tribunale di Bari Antonella Cafagna ha condannato a pene comprese tra i 20 anni e i 4 mesi di reclusione 24 persone, affiliate al clan Capriati di Bari, accusate a vario titolo di associazione mafiosa, traffico e spaccio di droga, aggravati dal metodo mafioso e dall’uso delle armi, porto e detenzione di armi da guerra, estorsioni aggravate dal metodo mafioso e continuate. Atri due imputati sono stati assolti. Stando alle indagini della Dda di Bari, il clan aveva assunto di fatto il controllo del servizio di assistenza e viabilità all’interno del porto di Bari.
Le condanne più elevate, a 20 anni di reclusione, sono state inflitte a Filippo Capriati, nipote dello storico capo clan Antonio, e al pregiudicato Gaetano Lorusso. Condanna a 16 anni per i pregiudicati Michele Arciuli (40 anni) e Pasquale Panza, a 14 anni per Pietro Capriati, fratello di Filippo, a 12 anni per Salvatore D’Alterio. Il giudice ha rigettato la richiesta di risarcimento danni per la Cooperativa Ariete (che gestiva i servizi nel porto e di cui alcuni imputati erano dipendenti), mentre ha riconosciuto il risarcimento nei confronti delle altre parti civili costituite (Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Meridionale-Adsp Mam, Ministero dell’Interno, Agenzia delle Entrate e Associazione Antiracket Puglia).
Le indagini della Polizia, coordinate dal pm Fabio Buquicchio, hanno accertato anche che il gruppo criminale avrebbe obbligato i commercianti del mercato di Santa Scolastica e gli ambulanti della festa patronale di San Nicola del 2015 ad acquistare merce da fornitori amici, utilizzando la forza di intimidazione del 'brand Capriatì, oltre ad occuparsi delle attività tipiche della criminalità organizzata: traffico di armi e droga, furti e rapine.
La sentenza è stata emessa al termine di un processo con il rito abbreviato. Contestualmente alla sentenza, il giudice ha rinviato a giudizio altri 9 imputati, tra i quali Sabino Capriati, figlio di Filippo, e ne ha prosciolti due al termine dell’udienza preliminare. Il processo nei loro confronti inizierà l’1 aprile 2020.

Costruito il primo robot vivente. VIDEO - Adele Lapertosa


Xenobot, Il primo robot vivente, è un organismo 3D fatto assemblando cellule vivente in un modo inedito in natura (fonte: Douglas Blackiston).

Non sono robot tradizionali né una nuova specie animale, ma un nuovo tipo di organismo programmabile: sono gli 'xenobot', i primi robot viventi, che devono il loro nome alla rana africana Xenopus laevis, le cui cellule embrionali sono state utilizzate per costruirli. Riassemblate con un supercomputer per compiere funzioni diverse da quelle che svolgerebbero naturalmente, le cellule di rana hanno permesso di ottenere organismi che in futuro potrebbero viaggiare nel corpo umano per somministrare farmaci o ripulire le arterie, o ancora potrebbero essere rilasciati negli oceani come speciali spazzini per catturare le particelle di plastica.


Il risultato, pubblicato sulla rivista dell'Accademia americana delle scienze, Pnas, è il frutto della collaborazione tra gli  informatici dell'Università del Vermont guidati da Sam Kriegman e Joshua Bongard e il gruppo di biologi dell'università Tufts e dall'Istituto Wyss dell'Università di Harvard, coordinati da Michael Levin e Douglas Blackiston. 


E' la prima volta che vengono progettate delle macchine completamente biologiche. "Possiamo definirle robot viventi oppure organismi multicellulari artificiali, perché svolgono funzioni diverse da quelle naturali", ha osservato Antonio De Simone, dell'istituto di Biorobotica della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa.
Come sono stati costruiti.
Il primo passo è stato utilizzare un algoritmo che ha permesso di progettare al computer migliaia di possibili robot viventi, i più promettenti dei quali sono stati selezionati. 
Il secondo passo è stato prelevare le cellule staminali dagli embrioni di rana e lasciarle in incubazione perché si moltiplicassero, specializzandosi e dando così origine a tessuti di tipo diverso, come quelli di pelle e muscolo cardiaco.
I tessuti così ottenuti sono stati quindi manipolati utilizzando minuscole pinze ed elettrodi in modo da ottenere strutture completamente nuove rispetto a quelle programmate dalla natura e che, assemblate fra loro, hanno dimostrato di funzionare, di svolgere compiti determinati e di essere capaci di autoripararsi.


Il progetto al computer del robot vivente (a sinistra) e il robot vivente costruito utilizzando le cellule embrionali di rana fatte differenziare in pelle (verde) e muscolo cardiaco (rosso) (fonte: Sam Kriegman, UVM).

Forme e funzioni che non esistono in natura.
In questo modo, ha rilevato ancora De Simone, "i ricercatori hanno riprogrammato delle cellule viventi, 'grattate' via da embrioni di rana, assemblandole in una forma di vita completamente nuova". Sostanzialmente, ha aggiunto, si tratta di "aggregati di cellule che interagiscono tra loro, comportandosi collettivamente in un modo complesso e diverso da quello che avrebbero naturalmente. Si tratta di comportamenti elementari, come muoversi insieme in una direzione o in cerchio".

Il robot vivente così ottenuto ha lo stesso Dna della rana, ma non è affatto una rana: è una forma vivente riconfigurata per fare qualcosa di nuovo. La vera novità di questo lavoro, secondo De Simone, "è stata soprattutto utilizzare un algoritmo per generare il comportamento e l'evoluzione delle cellule".


http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/tecnologie/2020/01/14/costruito-il-primo-robot-vivente-video_2c0a834a-c4aa-4700-9895-003aa4558b15.html

La straordinaria crescita dell’eolico nello scorso anno. - Sara Sorice

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Gli italiani consumano meno energia elettrica e la richiesta da fonti alternative, in particolare l’eolico, è in costante aumento, anche più delle aspettative. Due buone notizie arrivano dal rapporto mensile sviluppato da Terna. 

Il mese di novembre 2019 ha segnato una diminuzione del fabbisogno di energia elettrica dell’1,1% in confronto allo stesso periodo dello scorso anno con le fonti rinnovabili che rappresentano il 37,2% della richiesta mensile di novembre e il 4% dell’intera produzione nazionale, questo segna una straordinaria crescita dell’eolico nello scorso anno.

L’energia eolica incrementa la produzione del 58%
In questo quadro la crescita maggiore si registra un balzo in avanti dell’energia prodotta dall’eolico, che sale del 58,6%, mentre si riduce del 10,7% la quota di produzione da centrali termoelettriche. Nel complesso a novembre scorso sono stati prodotti 9,6 terawattora da fonti rinnovabili con una punta di potenza registra il 19 novembre tra le 18 e le 19, pari a 49,8 gigawattora. 

Analizzando la produzione di tutto il 2019, dal rapporto di Terna emerge che la produzione di energia da fonti pulite resta sostanzialmente invariata rispetto allo stesso periodo, gennaio – novembre 2018, con 104,7 terawattora, che corrisponde a una lieve flessione di 0,4%. 

Anche la richiesta di energia da rinnovabili è pressoché la stessa, il 35,6% con un incremento di 0,1% rispetto al periodo gennaio – novembre 2018. Una fase di stallo, dopo la crescita che si è avuta negli ultimi anni, a partire dal 2014, quando la richiesta di energia elettrica da rinnovabili era superiore di 6,6 terawattora nello stesso periodo. Nella produzione da fonti rinnovabili è sicuramente l’energia idroelettrica a rappresentare la fetta maggiore, con 42,5 terawattora, ma nel 2019 segna una flessione di quasi il 9% rispetto all’anno precedente, restituendo 3,8 teravattora in meno sul 2018.

 A coprire questa minor produzione ci pensa il fotovoltaico che segna un incremento del 9,5%. Ma è l’energia eolica a conquistare la performance migliore su tutte le fonti rinnovabili. Dal rapporto Terna emergono dati importanti sulla produzione di energia dal vento in tutto il 2019. L’incremento è di circa il 12,6% sullo stesso periodo dell’anno precedente. Anche l’energia termoelettrica cresce, ma in quote decisamente più modeste, con 4,4 terawattora in più, che rappresentano un aumento del 2,6% sul 2018. 

Grazie al surplus di eolico cala l’import di energia
L’incremento di quota energetica prodotta da fonti energetiche pulite influisce direttamente sull’importazione dall’estero. Quest’anno infatti l’Italia ha ridotto la domanda del 7,4%, con 3,3 terawattora in meno da fonti estere. 

I dati raccolti dal centro di elaborazione di Terna dimostrano come la produzione di energia da fonti rinnovabili come eolico e fotovoltaico insieme siano riuscite a soddisfare una maggior richiesta per circa 4 terawattora, quasi l’11% in più rispetto al 2018. Si è riuscito così a sopperire alle minor produzione di idroelettrico.

Confrontando i dati degli ultimi 5 anni, ovvero dal 2105 a oggi, sempre nel periodo compreso tra gennaio e novembre, si può notare come eolico e fotovoltaico abbiano subito un incremento dell’11%, andando ad aumentare di 6,3 teravatt ora la quota di energia da fonti rinnovabili. La produzione è passata infatti dai 34,7 terawatt ora del 2014 ai 41 di oggi. Insieme costituiscono oggi il 18% del totale di energia proveniente da fonti alternative pulite, superando quindi l’idroelettrico che è al 16,3%, che pure copre il 14,5% di consumi elettrici. 

La richiesta di energia da eolico e solare si attesta invece al 14%, ma la tendenza segna una crescita rispetto al passato. Basti pensare che nell’ultimo anno la produzione di energia dal vento è cresciuta di circa 2 terawattora e da sola, con 17,5 terawattora risponde al 6% di fabbisogno nazionale, con un incremento di 0,7% rispetto allo scorso anno. 

https://www.offertenergia.it/straordinaria-crescita-eolico-2019/?fbclid=IwAR0FshLNc0nYHqj1QknA05M1nQEwEBRLkJDvZRFs_IRaMnZnp5ogkEokKp0

Il Cnr punta sulle università siciliane: due nuove sedi a Palermo e Catania. - Giusi Spica

Il Cnr punta sulle università siciliane: due nuove sedi a Palermo e Catania

All'Ateneo catanese apre l'Istituto per la Bioeconomia del centro nazionale delle ricerche. ALla Lumsa apre invece l'Istituto di studi sul Mediterraneo.

Il Centro nazionale delle ricerche sbarca nelle università siciliane: domani a Catania, nella sede del dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente, verrà inaugurato l'Istituto per la BioEconomia del Cnr, mentre mercoledì a Palermo sarà presentata la nuova sede del centro all'interno dell'università privata Lumsa. L'apertura delle nuove sedi prelude a una collaborazione più stretta fra studenti e ricercatori e alla condivisione di spazi e attrezzature.

È quanto prevede la convenzione operativa che è stata approvata nei giorni scorsi dagli organi di governo dell'Ateneo di Catania, in attuazione dell’accordo quadro quinquennale vigente tra Ateneo e Consiglio Nazionale delle Ricerche, che impegna i due enti a realizzare forme di collaborazione per lo svolgimento di programmi di ricerca, di formazione anche mediante la realizzazione di dottorati e di attività collegate. L’iniziativa sarà presentata domani alle 10,30, nella ex sala Consiglio del Rettorato, dal presidente del Cnr Massimo Inguscio, dal rettore Francesco Priolo e dal direttore del Di3A Agatino Russo. L’Istituto per la BioEconomia, che ha sede principale a Firenze e sedi secondarie a Bologna, Catania, Roma, Sassari, San Michele all’Adige, Firenze, Follonica, Grosseto e Livorno, è nato il 1 giugno 2019 dalla fusione dell’Istituto di Biometeorologia (Ibimet) e dell’Istituto per la Valorizzazione del Legno e delle Specie Arboree (Ivalsa), che nel corso degli anni hanno sviluppato competenze complementari nel settore strategico della bioeconomia. Cnr-Ibe si occupa della definizione di strategie di mitigazione ed adattamento ai cambiamenti globali, e dello sviluppo di sistemi sostenibili di utilizzo delle biorisorse a scopo alimentare, manifatturiero, edile ed energetico. Studia la produttività primaria degli agro-ecosistemi, la salvaguardia della biodiversità vegetale, l’utilizzo sostenibile del legno e del patrimonio culturale ligneo, lo sviluppo di nuove tecnologie e metodologie per la gestione e la raccolta delle biomasse, per l’agricoltura di precisione, lo sviluppo di modellistica meteorologica, oceanografica e climatologica e di servizi climatici, l’analisi della sostenibilità ambientale dei processi produttivi e dei prodotti e la valorizzazione dei servizi ecosistemici, inclusi quelli del sistema rurale, periurbano e urbano.

E' invece più orientato su tematiche che riguardano storia, ambiente, crescita economica, sviluppo sostenibile e migrazioni l'attività del Cnr-Ismed, che verrà presentato dopodomani alle 10,30 nell'Aula magna dell'università Lumsa a Palermo, in via Filippo Parlatore. "La partnership - scrive in una nota l'università - genererà sinergie e opportunità di ricerca, contribuendo a rafforzare la competitività in campo scientifico e accademico della Lumsa a Palermo, accrescendo la conoscenza come strumento essenziale per lo sviluppo dell'area siciliana e mediterranea". L’evento inizierà con i saluti del rettore Francesco Bonini e del direttore del Dipartimento di Giurisprudenza Gabriele Carapezza Figlia, del presidente del Cnr Massimo Inguscio e delle altre autorità presenti, fra cui il'arcivescovo Corrado Lorefice, il governatire Nello Musumeci e il sindaco Leoluca Orlando. Seguirà il convegno “Mediterraneo: un Mare di sfide e di opportunità”, uno degli eventi inseriti nell’ottantesimo anniversario dalla fondazione dell’università Lumsa. "Il Mediterraneo è uno spazio di opportunità per crescita e sviluppo di tutti i paesi che su di esso si affacciano”, spiegano gli organizzatori dell’evento,  “e il futuro dell’Italia, che ne attraversa le acque, dipende da esso in modo strategico. Se i grandi differenziali rispetto ad aggregati socio-economici e demografici tra le diverse sponde di questo mare possono generare conflittualità, gli stessi costituiscono energie vitali capaci di alimentare cambiamenti strutturali e processi virtuosi di crescita. È quindi necessario - e doveroso - canalizzare tali energie mettendole a sistema attraverso politiche economiche e sociali efficaci e di impatto duraturo, per le quali l’attività di ricerca e analisi interdisciplinare è fondamentale. Il CNR, impegnato in questa direzione, da anni investe risorse nella ricerca socio-economica a supporto dei policy maker per lo sviluppo dell’area mediterranea. L’apertura della sede di Palermo dell’Istituto di Studi sul Mediterraneo in cooperazione con l’Università ne rappresenta un ulteriore passo”.

https://palermo.repubblica.it/cronaca/2020/01/13/news/il_cnr_punta_sulle_universita_siciliane_due_nuove_sedi_a_palermo_e_catania-245672385/

Il getto dal buco nero che sembra più veloce della luce.

lunedì 13 gennaio 2020

Fine della dipendenza petrolifera e conseguenze geopolitiche. - Alessio Frugiuele

Fine della dipendenza petrolifera e conseguenze geopolitiche

L’International Energy Agency individua il 2025 come orizzonte a partire dal quale la domanda di petrolio subirà decrementi. Quali conseguenze sul piano geopolitico? Il passaggio alle energie rinnovabili eliminerà le destabilizzazioni che hanno caratterizzato l’era del petrolio?

Dal carbone al petrolio, la questione dell’approvvigionamento energetico è stato, in ogni tempo, al centro della geopolitica mondiale, favorendo l’ascesa o la caduta dei grandi imperi e provocando spesso tensioni e conflitti.

Dal carbone al petrolio.
Il ruolo predominante svolto dal petrolio in campo energetico e geopolitico affonda le radici negli anni precedenti alla prima guerra mondiale. L’avanzamento del programma navale voluto dal Kaiser Guglielmo II, nell’ambito della politica del neuer kurs, e le difficoltà nel trovare un compromesso con la Germania portarono Winston Churchill, all’epoca Primo Lord dell’Ammiragliato, a cercare soluzioni per mantenere il primato navale britannico. La scelta fu quella di sostituire il carburante della Royal Navy e passare dal carbone, il cui sfruttamento aveva costituito il pilastro dello sviluppo dell’impero britannico, al petrolio, che avrebbe reso la flotta britannica più veloce di quella tedesca.
La decisione di Churchill finì dunque per segnare una nuova era, rendendo il petrolio una risorsa fondamentale per la sicurezza militare ed economica di tutte le grandi potenze.
Nel nuovo ordine scaturito dal secondo conflitto mondiale, infatti, i tentativi di controllare le risorse petrolifere hanno causato destabilizzazioni e numerose guerre, spesso asimmetriche, soprattutto nell’area del Medio Oriente. Si pensi alle pressioni sovietiche verso l’Iran settentrionale e alla conseguente crisi iraniana del 1946, alla guerra Iraq – Iran tra il 1980 e il 1988, alla guerra del Golfo del 1990 a seguito dell’invasione irachena del Kuwait e, di recente, alle tensioni tra Usa ed Iran in cui la questione petrolifera si pone come una delle motivazioni più importanti.

Dal petrolio a fonti alternative: sviluppo tecnologico e climate change.
Se durante il secolo scorso la geopolitica, in campo energetico, è ruotata intorno al problema dell’approvvigionamento petrolifero, negli ultimi anni il processo di transizione energetica sta spostando l’attenzione dei paesi e dei mercati verso fonti alternative. In questa fase di cambiamento, i driver principali sono rappresentati dal progresso tecnologico e dalle preoccupazioni suscitate dal climate change.

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Infatti, se da un lato il progresso tecnologico ha migliorato l’efficienza delle tecniche estrattive del petrolio con conseguente riduzione dei costi, dall’altro ha permesso significativi sviluppi nel settore delle rinnovabili, sia rendendo competitive l’energia solare, eolica e marina, sia abilitando l’utilizzo di fonti alternative al petrolio nel settore dei trasporti; si pensi alle macchine elettriche o agli aerei alimentati da batterie. A tali sviluppi si è aggiunta la forte preoccupazione per i livelli di riscaldamento del pianeta causati dall’utilizzo di combustibili fossili. In tal senso, l’accordo di Parigi siglato nell’autunno 2015 ha segnato un importante passo in avanti. Infatti, per la prima volta tanto i paesi più sviluppati quanto quelli in via di sviluppo si sono impegnati in modo trasversale ad agire per mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2 ° C rispetto ai livelli preindustriali e proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 ° C al di sopra dei livelli preindustriali. 
Questo impegno rafforza dunque le misure di decarbonizzazione adottate già da diversi paesi e, in particolare, a livello europeo con la strategia impatto zero sul clima entro il 2050. Appare sicuramente difficile dire con certezza quando avverrà la transizione ma i dati forniti dalla IEA indicano il 2025 come un anno cruciale. In questa data, la domanda petrolifera inizierà a subire una contrazione progressiva e nel 2035, se ci sarà coerenza tra obiettivi e politiche, l’offerta mondiale di energia sarà caratterizzata da un contributo dell’energia solare maggiore di quello del carbone; in particolare, l’IEA stima in 2200 miliardi di dollari il volume di investimenti necessario fino al 2025 per realizzare tali obiettivi.



Conseguenze.
L’operare dei due elementi indicati ha già iniziato a riconfigurare il mercato energetico globale con conseguenze di lungo periodo rilevanti sul piano geopolitico sia per i paesi importatori sia per quelli esportatori.
I paesi importatori di energia, come ad esempio l’Italia, potranno certamente beneficiare dalla transizione per due ordini di ragioni: primo, la riduzione delle importazioni di petrolio consentirà a questi paesi di recuperare indipendenza e slegarsi dai condizionamenti geopolitici propri di questo tipo di importazioni; secondo, la transizione rappresenta una opportunità che comporta scelte strategiche. I paesi che saranno in grado di investire nel settore delle rinnovabili, dal solare all’auto elettrica, potranno godere di esternalità positive in termini di crescita economica e, quindi, anche in termini occupazionali.
Per i paesi esportatori di petrolio, invece, la situazione appare più complessa. Se da un lato la transizione energetica si pone come un’opportunità anche per i paesi produttori di petrolio, in particolare per quanto riguarda l’energia solare, dall’altro lato si tratta di state led economies fortemente dipendenti dai proventi dell’export di petrolio. Se si esclude il Qatar e la sua uscita dall’OPEC, la maggior parte dei paesi medio orientali e nord africani potrebbero non essere in grado di avere la forza per diversificare in tempo l’economia e mettere in campo strategie di crescita diverse dal mero sfruttamento delle risorse naturali. La transizione potrebbe dunque coglierli impreparati con conseguenze gravi sia dal punto di vista socio-economico che geopolitico.

Transizione energetica: criticità.
La riduzione dei proventi petroliferi potrebbe infatti esporre tali paesi a problemi rilevanti in termini di sostenibilità della spesa pubblica e del welfare e generare, sul piano interno, crisi e destabilizzazioni con un prevedibile aumento dei flussi migratori verso l’occidente. In questo senso, la recente esperienza del Venezuela offre prospettive allarmanti.
La transizione energetica pone inoltre due ulteriori problemi. In primo luogo, la creazione di energia tramite fonti alternative ne stimolerà il commercio. Il successo delle fonti di energia come il solare e l’eolico, essendo legate in larga parte a variabili che sfuggono al controllo dell’uomo, dipenderà quindi dalla qualità e stabilità delle reti elettriche. In questo panorama, le reti svolgeranno dunque un ruolo essenziale con il rischio che si creino posizioni dominanti da parte dei paesi gestori delle reti e che quindi la compravendita di energia si trasformi in uno strumento di pressione sui confinanti non dissimile da quanto avvenuto durante l’era del petrolio.
A questo rischio si aggiunge poi la questione della sicurezza delle reti. Infatti, la gestione digitale dell’energia, sia in fase di creazione che di somministrazione, si pensi ai contesti di smart city, esporrà il sistema a due importanti criticità: la prima, rappresentata dai rischi di cybersecurity, ove attori statali e non statali potrebbero attaccare e mettere fuori uso la rete energetica nazionale, come avvenuto nel 2016 con l’attacco hacker russo alla rete elettrica ucraina.
In questa prospettiva, gli attacchi cyber ai sistemi digitali di gestione dell’energia si sostituirebbero ai bombardamenti dei pozzi petroliferi avvenuti più volte durante il secolo scorso in situazioni di tensione internazionale.
Considerazioni simili si applicano anche alla seconda criticità rappresentata dalla tutela della privacy nella gestione dei flussi di dati dei consumatori. Risulta quindi del tutto evidente il peso geopolitico che gli investimenti in sicurezza assumeranno nei prossimi anni, ponendo la questione della gestione delle reti in un’ottica di sicurezza nazionale.

Fine delle destabilizzazioni?
A quanto descritto si aggiunge un ulteriore problema. La transizione energetica e la fine della dipendenza da petrolio non elimineranno tuttavia la necessità di approvvigionamento delle materie prime necessarie alla produzione di alcune fonti energetiche alternative. In questo senso, l’interesse attuale di molti paesi, in particolare della Cina, verso alcune zone dell’Africa deriva dalla presenza di minerali come litio e cobalto, fondamentali per la costruzione delle batterie necessarie ad alimentare le auto elettriche. 
È chiaro dunque che la fine della dipendenza dal petrolio favorirà la sicurezza energetica di quei paesi importatori che sapranno cogliere le opportunità offerte dalla transizione energetica e darà una risposta concreta alle preoccupazioni sollevate dal cambiamento climatico. Tuttavia, la nuova era energetica e le risorse produttive alla base della transizione lasciano intravedere all’orizzonte nuove sfide e rischi geopolitici simili a quelli vissuti con carbone, petrolio e gas.

https://www.key4biz.it/fine-della-dipendenza-petrolifera-e-conseguenze-geopolitiche/285056/?fbclid=IwAR1aI9awc8_nQJu9TFwNqz_1U6k0NQeBeXvv7i23Zr-uPlDLlZ2TcyujNn0