domenica 20 giugno 2010

La zona d'ombra di Schifani - Marco Lillo



20 giugno 2010
Il presidente del Senato aveva chiesto 1.750.000 euro a Travaglio, che invece dovrà risarcirne solo 16mila per la battuta sulla "muffa". La sentenza: dovere del cronista chiedere dei legami mafiosi

Non è facile trovare una
sentenza piena di soddisfazioni per il soccombente come quella emessa contro Marco Travaglio. Non tanto perchéRenato Schifani, chiedeva 1 milione e 750 mila euro e ne ha avuti “solo” 16 mila ma perché Travaglio si è visto riconoscere di avere svolto correttamente la sua funzione in una delle vertenze più dure tra Palazzo e stampa. La vicenda è nota: nel 2008 Travaglio aveva ricordato in due articoli su l’Unità e poi in televisione a Che tempo che fa e a Crozza Italia i rapporti societari di 30 anni prima tra Schifani e soggetti che – molti anni dopo le loro cointeressenze – saranno condannati per mafia. Travaglio aveva rotto il clima di pacificazione che regnava all’inizio del governo Berlusconi quando nessuno chiamava Papi il Cavaliere e da sinistra si scrivevano libri per incensare “Lo Statista” di Arcore. Subito dopo aver ricordato che la verità non risente del clima politico e non va in prescrizione era stato sommerso da una valanga di critiche e veleni. La sentenza del Tribunale di Torino suona come una promozione per lui e una condanna per buona parte della nostra categoria. Il giudice Lorenzo Audisio il primo giugno scorso ha condannato Travaglio solo per avere ironizzato sulla parabola a precipizio della presidenza del Senato. Per le battute sulla muffa e il lombrico (terminali possibili della parabola discendente) Travaglio è stato condannato a pagare 16 mila euro di danni.

Mentre su tutto il resto, è stato promosso a pieni voti. Sui rapporti passati con soggetti poi condannati per mafia, per il giudice “non si può dubitare dell’interesse pubblico alla conoscenza di ogni avvenimento professionale inerente Renato Schifani che, notoriamente, ricopre attualmente la seconda carica istituzionale dello Stato”. Dopo avere lodato “la correttezza dell’esposizione narrativa” il giudice passa a interessarsi del nocciolo della questione. È vero quello che Travaglio dice sui rapporti societari di Schifani? E soprattutto è lecito scriverne e parlarne in tv?

La risposta è un doppio sì. “Quanto alla verità dei fatti narrati”, scrive il giudice, “deve osservarsi che Schifani non contesta di aver partecipato alla società Sicula Brokers… e non contesta neppure che ne facessero parte all’epoca della propria partecipazione
Nino Mandalà, Benedetto D’Agostino e Giuseppe Lombardo” (i primi due arrestati per mafia una ventina di anni dopo la creazione della società nel 1978 con Schifani, il terzo amministratore delle società dei cugini Salvo). Schifani contestava a Travaglio di avere “volutamente dimenticato di ricordare gli altri soci , mai toccati da inchieste giudiziarie”. Su questo punto il giudice dà una lezione alla seconda carica dello Stato: “Le associazioni di tipo mafioso riescono a realizzare il controllo del territorio attraverso l’inserimento di propri associati, o di fiduciari, nelle attività economiche legali, così realizzando una sistematica attività di infiltrazione nel sistema imprenditoriale. Tale circostanza, – insiste il giudice –, non è solo ampiamente nota ma non è neppure ignorabile da soggetti nati e operanti da sempre in quel medesimo contesto territoriale. Conseguentemente – infierisce il giudice – a maggior ragione deve chiedersi a chi ricopre incarichi pubblici l’assenza di zone d’ombra nella propria storia professionale o, per lo meno, una rivisitazione critica di eventuali inconsapevoli contatti avvenuti in passato con soggetti oggetto di indagini giudiziarie anche successive, che ne hanno dimostrato l’inserimento (o quanto meno la contiguità) in organizzazioni criminali operanti in un territorio identificabile quale proprio bacino elettorale”. Quindi non è solo corretto ma è un obbligo per un giornalista ricordare ai lettori e ai telespettatori i vecchi rapporti societari del presidente del Senato, eletto in Sicilia. Anzi, per il giudice, sarebbe doverosa da parte del presidente una rivisitazione critica di questi rapporti, che a parte Travaglio e il Fatto, in pochi hanno chiesto. Pertanto, quando Travaglio afferma che “se uno evitasse di mettersi in affari con gente di mafia, la lotta alla mafia riuscirebbe meglio” sta compiendo “puro esercizio del diritto di critica”. Travaglio, secondo il giudice, non ha fatto nulla di male neanche a sostenere “l’indegnità di Schifani a ricoprire la seconda carica dello Stato per via delle sue passate e appurate frequentazioni (che sono un fatto)”.

Pertanto il Tribunale rigetta la domanda di Schifani sul punto e lo stesso fa per le doglianze su Crozza Italia dove Travaglio aveva espresso “un’opinione su fatti corrispondenti a verità”. Resta Che tempo che fa. Nella trasmissione di Fazio, Travaglio aveva ironizzato: “Una volta avevamo De Gasperi, Einaudi, De Nicola, Merzagora, Parri, Pertini, Nenni... cioè uno vede tutta la trafila e poi arriva e vede Schifani... mi domando chi sarà quello dopo in questa parabola a precipizio, cioè dopo c’è solo la muffa, probabilmente, il lombrico come forma di vita, dalla muffa si ricava la penicillina tra l’altro e quindi era un esempio sbagliato”. L’intervento poi proseguiva chiedendo ai politici di sinistra di “chiedere alla seconda carica dello Stato di spiegare quei rapporti con signori che sono stati poi condannati per mafia”. Il giudice non contesta “la parabola a precipizio della politica” ma ritiene “attacchi personali nei confronti dell’attore in quanto rivolte alla sua persona e non a fatti oggetto di interesse pubblico che sconfinano nella contumelia” le parole che seguono sulla muffa e il lombrico. Per il giudice “è evidente che i riferimenti alla muffa e al lombrico attengono esclusivamente all’uomo Schifani”. Pertanto Travaglio va condannato ma solo “in relazione a tale parte dell’intervento”. I difensori di Schifani sono soddisfatti perché “i giudici hanno riscontrato la diffamazione” e confermano che “l’importo del risarcimento sarà devoluto interamente in beneficenza”. Caterina Malavenda, difensore di Travaglio replica: “Pur prendendo atto della condanna per ‘abuso di satira’ esprimo soddisfazione per l’integrale accoglimento nel resto delle ragioni di Travaglio al quale è stato riconosciuto il corretto esercizio del diritto di cronaca e di critica”.

da Il
Fatto Quotidiano del 20 giugno 2010

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