C'è un'emergenza: i partiti non trovano un'accordo sulla legge elettorale. Che, però, è indispensabile. E allora non resta che la decretazione. Che può essere usata per motivi di urgenza. Riportando in vigore le norme precedenti.
Questa è una proposta disperata, ma serve per reagire a una situazione disperante. Quale? Lo stallo sulla riforma della legge elettorale, la più odiata dal popolo italiano. Negli ultimi tempi venuta in odio anche ai partiti, almeno a parole. Ma i mesi passano, le elezioni s’avvicinano e loro non cavano mai un ragno dal buco. Al più cambiano gli sherpa (dal duo Violante-Quagliariello al trio Migliavacca-Verdini-Adornato). Si spellano le mani a ogni monito di Napolitano (in un anno ne abbiamo contati otto, con discorsi, lettere ai presidenti delle Camere, note ufficiali). Rinnovano promesse e giuramenti (l’8 giugno Alfano e Bersani s’impegnarono a vararla in tre settimane; il 9 luglio Schifani annunziò un testo entro dieci giorni). Mettono in circolo progetti di bandiera (sono 34 quelli pendenti dinanzi alla commissione Affari costituzionali del Senato). O magari allungano un tramezzino sottobanco all’onorevole Giachetti, dal 4 luglio in sciopero della fame per la causa.
Se sull’accordo prevale regolarmente il disaccordo, non dipende certo da una divergenza sui massimi sistemi. Dipende dal tornaconto di partito, e qui giocoforza l’utile dell’uno rappresenta per l’altro il danno da evitare. Così, il Pd vorrebbe un robusto premio di maggioranza per la coalizione vittoriosa (la sua, naturalmente). Il Pdl preferirebbe un minipremio, da devolvere al primo partito (per scoraggiare le alleanze fra la sinistra e il centro, e per impedirne un chiaro successo elettorale). Per l’Udc niente premi, in modo da diventare l’ago della bilancia in Parlamento. Stesso bisticcio sulle preferenze, sui collegi, sulla soglia di sbarramento.
Sicché rischiamo di votare per la terza volta col Porcellum, legge coriacea come una testuggine: è già uscita indenne da due referendum (quello Guzzetta nel 2009, che toccò il picco negativo dei votanti; quello Morrone nel 2011, bocciato poi dalla Consulta).
Diciamolo: sarebbe una tragedia democratica. Per scongiurarla servono allora soluzioni d’emergenza, anche a costo d’evocare un’eresia costituzionale. Se i partiti non raggiungono l’intesa, che sia il governo Monti a varare il nuovo sistema elettorale. Con un decreto legge, perché no? Dopotutto la Costituzione (art. 77) ne contempla l’uso per i casi d’emergenza, e questa è la prima emergenza nazionale. Altrimenti il distacco fra popolo e Palazzo diventerà un divorzio, una frattura irreparabile. Certo, non mancano obiezioni. Perché le regole del gioco vanno scritte in Parlamento, possibilmente con l’accordo di tutti i giocatori. E perché i decreti non dovrebbero aggredire la materia elettorale (art. 15 della legge n. 400 del 1988). Lo hanno fatto però infinite volte, modificando per esempio la disciplina delle campagne elettorali o le modalità di selezione delle candidature.
E d’altronde il governo in carica non lesina di certo gli interventi straordinari, con la media d’un decreto legge a settimana e con 32 voti di fiducia in otto mesi. In realtà, come ha osservato Giuseppe Marazzita (“L’emergenza costituzionale”, 2003), il giudizio su quali materie rivestano natura emergenziale è un giudizio tutto politico, che non si lascia ingabbiare dal diritto.
Dunque il problema non è tanto il «come» quanto il «cosa». Non l’uso del decreto, bensì i suoi contenuti. Può un governo – per giunta tecnico e apolitico – addossarsi la massima scelta politica, quella che incide sul destino dei partiti? Può decidere fra maggioritario e proporzionale, nonché fra tutte le loro innumerevoli varianti? Evidentemente no; può solo riportare in auge un modello già confezionato. Quindi il Mattarellum, che ha scandito varie elezioni nel passato, che ha raccolto un milione e 200 mila firme per un referendum mai votato, che tutt’oggi non dispiace a qualche esponente di partito (Parisi, Vendola, Di Pietro). Poi, durante la conversione del decreto, le Camere potranno pur sempre plasmare lo stampo originario, o magari rovesciarlo. Ma è meglio costringerle al lavoro con una pistola carica puntata sulla tempia.
A mali estremi, estremi rimedi.
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