Stazione di Brescia, treno fermo da un’ora. L’altoparlante interno irradia scuse per il ritardo «dovuto all’investimento di una persona». Qualche passeggero si scruta le tasche del cuore alla ricerca di scampoli di pietà, ma è interrotto dal prorompere stentoreo di una signora: «Non poteva buttarsi sotto un altro treno?» Lo ripete tre, quattro, cinque volte. Chiudo gli occhi per resistere alla tentazione di buttare di sotto lei e mi appare un’immagine di dieci anni prima, quando durante la discesa nella piramide di Cheope fui colto da un malore.
Mi appoggiai a una parete dell’orrido budello, reprimendo il desiderio di vomitare. Venni scavalcato da una comitiva di tedeschi, che non mi degnò di uno sguardo, e da una di francesi, che mi rivolse smorfie schifate, come se fosse inciampata nei detriti di un debosciato. Poi sentii una voce: «Ehi mister? Mister… ahò!» Alzai gli occhi e nell’oscurità del budello inquadrai la sagoma di un ragazzino con le braccia tatuate e la maglia numero 10 di Totti. Non poteva sapere di che nazionalità fossi: indossavo un capellino da baseball e un giubbotto pieno di scritte in inglese. Ero semplicemente un essere umano. «You are ok?» si informò. Rantolai qualcosa e allora lui cercò la risposta nelle saccocce dei suoi jeans. Estrasse una bustina di zucchero da bar, sudaticcia e spiegazzata, e me la porse.
In qualche modo riemersi alla luce, ma quella bustina giace tuttora in un cassetto della mia scrivania. Ogni volta che penso a quanto siamo diventati cupi e rabbiosi, apro il cassetto e mi dico che ho torto. Che anche sotto l’egoismo amaro dei disperati giace uno strato di zucchero. Basta scavare.
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