La storia di Lili Elbe, raccontata in parte in The Danish Girl è una delle storie più complicate della storia dello studio della sessualità, la prima a essere affrontata medicamente non come deviazione ma come desiderio di appartenere all’idea che si ha di sé, e riuscire a scrivere una recensione non è nemmeno tanto semplice. Ci sarebbero intere pagine e pagine da scrivere in merito, e non è compito di chi ama il cinema e chi ha amato questo film. Questa è la legittima premessa.
Tom Hooper, Premio Oscar come Miglior Regia per Il Discorso Del Re, prende di nuovo una storia vera come ispirazione, e la rende poesia. Dirige Eddie Redmayne (Premio Oscar come Miglior Attore Protagonista per La Teoria Del Tutto) e Alicia Vikander (candidata quest’anno come Miglior Attrice Non Protagonista), e i due dominano lo schermo e incantano lo spettatore.
Einar Wegener è un celebre paesaggista, innamoratissimo di sua moglie Gerda, ritrattista. La quale, quando domanda aiuto al marito per posare per lei, sostituendo una modella, non si rende conto di far scattare in lui la sensazione. Quella sensazione, la dominante del film. L’inadeguatezza del corpo di maschio per chi maschio non si sente. Einar Wegener diventa poco a poco Lili Elbe, quell’identità fittizia che si costruisce attorno, sentendosi più lei che lui, e fatica ad accettare ciò che significa: non rispondere nello status nel comportamento e nei modi a quello che è il proprio sesso fisico di appartenenza è, per la Copenhagen degli anni ’20, un’aberrazione medica. Da cure psicologiche, da schizofrenia, da reclusione in manicomio. Da malattia da curare. Omosessualità. L’essere transgender non è contemplato nel mondo di cent’anni fa (sconcertante come ancora oggi sia difficile da comprendere, affrontare e includere socialmente), se non da qualcuno di illuminato: Lili, che lotta per se stessa, Gerda che lotta prima per riavere il proprio marito e poi per la felicità e serenità di Lili, e un chirurgo che, forse per scienza, forse per comprensione, sperimenta la prima conversione sessuale della storia. È un processo lungo, doloroso mentalmente e fisicamente, e Redmayne non manca all’appuntamento della trasformazione: Einar dimagrisce, addolcisce movimenti e movenze, le studia, si rende più femminile. Cambia. Accetta pian piano il fatto di essere una donna nel corpo di un uomo, e l’interprete è semplicemente splendido, nel mostrare i timori del personaggio e non i propri. Non teme la nudità propria, teme che quella di Lili non rispecchi ciò che lei sente di essere.
La storia portata sul grande schermo è leggermente diversa da quella reale. È più semplificata e resa breve, per le ovvie esigenze che il cinema ha: non si potrebbe raccontare sensatamente, in già due ore di film (che scorrono senza timori, anche in mancanza di intervallo), di cinque operazioni, di un tentativo di trapianto di utero e ovaie, di invalidamento del matrimonio, del primo cambio legale di sesso e documenti (Einar infatti, dopo le operazioni di rimozione di pene e testicoli, ottiene il passaporto come Lili, con il riconoscimento dello status di transessuale), persino di un matrimonio con un uomo e del desiderio di maternità naturale – che per complicanze dei trapianti degli organi necessari, tuttavia, fu causa della sua morte.
Ma in sala vediamo la mutazione, la disperazione, l’ignoranza, la follia, il dolore. Alicia Vikander ed Eddie Redmayne non temono rivali, nelle scene del film: sono loro parimenti protagonisti del cambiamento, in prima persona e in persona che vive il male altrui, che ne soffre per se stessa e per la persona che ama. Tutto si intreccia, con di fondo un enorme legame tra Einer e Gerda, che non manca di essere visualizzato al meglio.
La fotografia, di colori delicati, si accompagna con una colonna sonora che sfiora e s’insinua nelle scene, senza quasi rendersene conto perché così è che deve essere: piano ci si affeziona a tutto, come piano ci si affeziona a Lili.
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