E' il settimo intervento "rivoluzionario" di riordino della pubblica amministrazione nell'arco di 24 anni. E doveva essere un fiore all'occhiello del governo Renzi. Ma i furbetti del cartellino erano licenziabili anche prima, i sistemi di valutazione dei risultati rimangono discrezionali, il ruolo unico per la dirigenza è saltato e la sforbiciata alle aziende pubbliche è depotenziata. L'economista: "Sullo sfondo resta una logica di forte influenza della politica".
I furbetti del cartellino potranno essere licenziati, certo. Come prevede fin dal 2009 la riforma Brunetta nei casi di “falsa attestazione della presenza in servizio mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza”. Le partecipate dello Stato invece resteranno migliaia, perché la stretta annunciata da Matteo Renzi all’arrivo a Palazzo Chigi si è concretizzata in paletti larghissimi con numerose deroghe. E i 36mila dirigenti pubblici non saranno affatto costretti a cambiare poltrona ogni 4 anni in modo da “scardinare il meccanismo” per cui “troppe persone per troppo tempo gestiscono un potere“, come aveva promesso Marianna Madia: il decreto sul ruolo unico è saltato. A quasi due anni dal varo del disegno di legge sulla riforma della pubblica amministrazione, la ministra ha dichiarato chiuso il cantiere di quello che doveva essere uno dei fiori all’occhiello del governo del leader Pd, “la riforma da cui dipendono le altre”. Ma, al netto del fatto che in realtà manca ancora all’appello il decreto correttivo sui dirigenti sanitari, l’obiettivo di rivoltare come un calzino la macchina della burocrazia per “avere servizi di maggiore qualità e fare pagare meno tasse ai cittadini” dovrà attendere ancora.
La settima “rivoluzione” in 24 anni – Quello firmato dalla Madia, rimasta alla guida del ministero nonostante lo scandalo della tesi di dottorato plagiata, è il settimo intervento di riordino della pa annunciato come rivoluzionario nell’arco degli ultimi 24 anni. Questo se non si vogliono contare pure le (anch’esse rivoluzionarie) norme sulla mobilità degli statali volute nel 1988 dall’allora ministro della Funzione pubblica Paolo Cirino Pomicino. Ma secondo Veronica De Romanis, per 12 anni membro del Consiglio degli esperti del Tesoro, oggi docente di Politica economica europea nella sede fiorentina della Stanford University e alla Luiss, l’esito anche in questo caso lascia a desiderare. “Renzi ha puntato molto sugli slogan, a partire dalla battaglia contro i furbetti del cartellino”, sintetizza. “Ma, piuttosto che iniziare dalle sanzioni contro quelli che non lavorano, meglio sarebbe stato concentrarsi su chi è preposto a verificare il loro lavoro, per migliorare l’efficienza dei servizi per i cittadini. Inoltre nella riforma non sono stati fissati obiettivi quantitativi. La Madia ha addirittura rivendicato di non sapere quanti risparmi avrebbe portato la riforma e di essere contenta di non saperlo, perché secondo lei la spending review è “un risultato, non un punto di partenza”. Invece la programmazione è fondamentale”. Sullo sfondo, poi, “resta immutata la logica di grande influenza della politica sulla pubblica amministrazione”. Cosa che con l’efficienza tende a fare a pugni. Ma, in attesa di vedere come funzionerà in concreto, sono almeno cinque – dai licenziamenti al “disboscamento” delle partecipate – i punti rispetto ai quali la riforma già sulla carta non mantiene le promesse.
Sui licenziamenti nulla di nuovo rispetto alla riforma Brunetta.
Lotta ai furbetti e licenziamenti rapidi sono stati tra gli aspetti della riforma più decantati da Renzi. Ma secondo Luigi Oliveri, dirigente della provincia di Verona e collaboratore de lavoce.info su questi temi, l’attuazione è all’acqua di rose. “Per cambiare davvero qualcosa servirebbero regole operative: quali sono concretamente i parametri in base ai quali gli statali vanno valutati? Con quali tecnologie si può combattere in modo efficace l’assenteismo? Invece ci si limita a intervenire su aspetti formali. Così gli obiettivi restano fumosi, non ci sono standard oggettivi”. E i “licenziamenti in 48 ore” dei furbetti del cartellino? “Il termine di 48 ore vale solo per la sospensione di chi viene colto in flagranza. Per i licenziamenti cambia in realtà pochissimo rispetto alle norme scritte da Brunetta: non a caso il Comune di Sanremo l’anno scorso ha licenziato 32 assenteisti (tra cui il famigerato vigile che timbrava il cartellino in mutande, ndr) appellandosi alla vecchia legge. Sul fronte dei provvedimenti minori, come il rimprovero scritto o la multa pari a 4 ore di retribuzione, c’è invece un paradosso: nell’ultima versione del decreto Madia il tempo massimo per concludere l’azione disciplinare è fissato in 120 giorni, il doppio rispetto a quanto era previsto finora”. Per quanto riguarda i licenziamenti dopo tre “pagelle” negative di fila, celebrati come il trionfo della meritocrazia, il decreto Brunetta già sanciva che gli statali fossero lasciati a casa a fronte di “una valutazione di insufficiente rendimento dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione stessa” nell’arco di almeno un biennio.
Obiettivi fumosi e organismi di valutazione nominati dalla politica.
Il vero nodo, però, sta proprio nelle valutazioni: il decreto attuativo “non entra nel dettaglio, lascia all’autonomia delle singole amministrazioni il compito di definirsi il sistema valutativo”, sottolinea Marta Barbieri, docente di Public management and policy alla Scuola di direzione aziendale (Sda) della Bocconi. “Bene sottolineare la rilevanza della performance organizzativa, oltre che di quella individuale, però resta il dubbio su cosa si intenda con questo. Per valutare positivamente le politiche per il lavoro, per esempio, basterà verificare di aver svolto le attività previste o si dovrà guardare come è variato il tasso di occupazione?”. E tener conto dei giudizi di soggetti terzi rimane solo un consiglio. Per quanto riguarda la performance individuale, negli altri Paesi funziona diversamente: “Il numero di obiettivi, le scale di valutazione relative e l’individuazione di pesi variano, ma sono in generale disciplinati nel dettaglio“, si legge nel white paper sui Sistemi di selezione e valutazione dei dirigenti pubblici in Europa, pubblicato lo scorso anno in una collana della Sda Bocconi. In Irlanda, Lettonia, Polonia, Portogallo e Regno Unito, in particolare, ci sono schede di valutazione standard in cui indicare obiettivi, indicatori e risultati conseguiti e comportamenti. “Da noi invece”, spiega Barbieri, “a validare le relazioni sulle performance sono gli Organismi indipendenti di valutazione“. Che però sono nominati, previa selezione pubblica, dalla politica. E che ad oggi non validano ex ante i piani della performance. Inoltre le richieste all’ente che affiancano nel monitoraggio – per esempio sostituire un indicatore troppo generico con uno oggettivo – sono “non vincolanti“. La Madia in compenso ha affidato agli Oiv anche il compito di stabilire come il giudizio dei cittadini sui servizi pubblici, espresso attraverso “sistemi di rilevamento della soddisfazione”, contribuirà alla valutazione.
Ai premi di risultato vanno le briciole: "500-600 euro all'anno".
L’altra faccia del cambiamento all’insegna della meritocrazia avrebbero dovuto essere i premi alla produttività differenziati e non a pioggia. Ma la distribuzione dei premi dipende dalle valutazioni troppo discrezionali di cui sopra. In più, se il principio di base è giusto, le cifre in ballo sono davvero piccole. “Ci sono eccezioni, ma in media parliamo di 500-600 euro l’anno“, quantifica Barbieri. “Per i dipendenti degli enti locali la parte accessoria del salario può arrivare a 4mila euro annui su un totale di 29mila”, aggiunge Oliveri. “Ma attenzione, nella parte accessoria sono compresi anche straordinari e indennità per i turni e le reperibilità”. E l’ultimo decreto Madia si limita a stabilire che a premiare la performance vada la “quota prevalente” di questa fetta, esattamente come prevedeva il decreto Brunetta. La vera differenza rispetto alla norma del 2009 è che viene meno l’obbligo di dividere i dipendenti di ogni amministrazione statale in tre fasce di merito azzerando del tutto i premi per quelli che finiscono nella più bassa. Ma quel che più ha fatto storcere il naso ai giuristi è che la riforma del pubblico impiego, oltre a sancire che per gli statali continuano a valere le tutele dell’articolo 18, dice esplicitamente che la contrattazione nazionale potrà derogare alle disposizioni di legge, regolamento o statuto sul lavoro nella pa. E sempre alle complicate intese tra Stato (attraverso l’agenzia Aran) e sindacati, che nei prossimi mesi dovranno trovare la quadra sul rinnovo dei contratti congelati dal 2010, è demandato il capitolo delle progressioni economiche.
Non passa la riforma della dirigenza: addio ruolo unico.
Sui dirigenti statali, i veri inamovibili della Repubblica, è andata anche peggio. Una débâcle totale. “C’era nell’amministrazione pubblica una perversione che arrivava a costruire degli intoccabili che crescevano sempre di più. C’era chi diceva che erano intoccabili perché senza di loro crollava il ministero. Ma nessuno deve essere insostituibile”, ragionava la Madia nel settembre 2015, annunciando l’arrivo di un decreto attuativo che avrebbe scardinato il sistema attraverso il ruolo unico e il licenziamento per i grand commispubblici che, persa una poltrona, rimanessero per diversi anni senza incarico. Nell’agosto 2016, dopo un rinvio dovuto alle resistenze dei boiardi di Stato e a pochi giorni dalla scadenza della delega, il testo è arrivato. Ma a novembre la Consulta ha bocciato il provvedimento, insieme ad altri tre, perché varato con il solo “parere“della Conferenza Stato-Regioni invece della necessaria intesa. A quel punto la delega era scaduta e addio decreto (peraltro già demolito dal Consiglio di Stato che aveva rilevato l’assenza di nuovi sistemi di valutazione). Tripudio del sindacato dei dirigenti pubblici, che avevano gridato allo scandalo sostenendo che l’intenzione del governo era evidentemente quella di “distruggere i servitori dello Stato” nonché “annichilire, asservire, sottomettere la dirigenza pubblica”. “E’ stato un vero un peccato”, è invece il giudizio di Marta Barbieri. “Potenziare la classe dirigente pubblica è un obiettivo in cui hanno investito tutti i Paesi Ocse”. Oliveri fa però notare che il decreto era a rischio incostituzionalità, perché di fatto avrebbe trasformato dirigenti a tempo indeterminato in “lavoratori a chiamata”. Quanto alla licenziabilità, sulla carta c’è: la riforma del 2009 la prevede come extrema ratio nei casi di “mancato raggiungimento degli obiettivi” o “inosservanza delle direttive”.
La sforbiciata alle partecipate pubbliche? "Misure irrilevanti o dannose".
“Non un euro delle risorse pubbliche, delle tasse pagate dai cittadini, deve andare sprecato. Per questo aggrediamo gli enti inutili e resteranno solo le partecipate pubbliche che servono, mentre saranno eliminate quelle che sono state utilizzate come un ammortizzatore sociale e non per dare risposte ai cittadini”. Parola di Marianna Madia, il 3 agosto 2015. Quello sulle partecipate è stato l’ultimo decreto attuativo della riforma approvato in consiglio dei ministri, nella versione corretta dopo la bocciatura della Corte costituzionale. Una versione talmente piena di cavilli e scappatoie che Carlo Cottarelli, ex commissario alla spending review autore nel 2014 di un dettagliato piano di riforma delle aziende pubbliche, fino al prossimo autunno direttore esecutivo per l’Italia al Fondo monetario internazionale, opta per un “no comment”. A depotenziare la norma, peraltro, sono non tanto le deroghe – non solo il presidente del Consiglio ma pure tutti i governatori regionali potranno decidere a piacimento quali società “salvare” dalla stretta – quanto i parametri stessi con cui selezionare le partecipate da chiudere. Roberto Perotti, ex consigliere economico del governo Renzi per la revisione della spesa, ha scritto su Repubblica che “una riforma efficace dovrebbe intervenire con il machete basandosi su tre semplici principi: un limite alle attività gestibili in forma societaria”, per esempio non c’è bisogno di una società di servizi cimiteriali perché può occuparsene direttamente l’ente locale, “un limite inderogabile al numero e alle dimensioni delle partecipate a seconda degli enti locali (…) e cinque fasce di retribuzione di dirigenti e amministratori, basate su criteri dimensionali”.
Invece “la riforma approvata dal governo adotta solo il terzo principio; per il resto prende una strada completamente diversa, adottando misure irrilevanti o addirittura dannose, oltreché quasi tutte già presenti nell’ordinamento”. Sull’amministratore unico, che nella prima versione era un obbligo, deciderà l’assemblea dei soci, che “con delibera motivata” potrà optare per un consiglio formato da 3 o 5 membri. Anche se la società è piccolissima. Dovranno poi essere chiuse le aziende con più amministratori che dipendenti, ma la soglia minima di fatturato necessaria per scampare alla tagliola è stata dimezzata, da 1 milione a 500mila euro, fino al 2020. E ancora: vanno chiuse le partecipate che hanno chiuso in rosso quattro degli ultimi cinque bilanci, ma sono escluse le società che gestiscono case da gioco. I casinò di Saint Vincent, Campione d’Italia, Sanremo e Venezia sono salvi. E le cinque fasce in cui andranno graduati i compensi, principio chiave secondo Perotti? Non pervenute. Bisogna aspettare ottobre.
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