Giuseppe Conte ha proposto, aperto, in parte concesso. Ma oltre un certo limite non andrà. Non ha voglia di farsi cuocere a fuoco lento, e il voto è una soluzione che non disdegna. È la lettura che va data alle frasi seminate come paletti dal presidente del Consiglio ieri, a Porta a Porta: “A me interessa trovare soluzioni nell’interesse del Paese, perciò dico che qualsiasi altra proposta o modifica che non sia nell’interesse del Paese non mi riguarda. Dopodiché la crisi non è nelle mie mani. Ma si va avanti se c’è una fiducia non astratta da parte di ciascuna forza che sin qui ha sostenuto la maggioranza. Cioè di tutte le forze”. Traduzione: i segnali pretesi da Matteo Renzi sono sul tavolo.
Ma se Iv continuerà a giocare ancora alla crisi, se ne dovrà assumere il peso. E avere il coraggio di far cadere Conte e la sua maggioranza, in Parlamento. Così confermano fonti di governo, nel giorno in cui Renzi torna a fare se stesso in tv a L’aria che tira, in una sfida a distanza con il premier. “Tutto è ancora sul tavolo” assicura, compreso il ritiro delle sue ministre dal governo. “Noi – continua – abbiamo posto un problema di metodo e merito. Sul metodo ci hanno dato ragione, un passo in avanti. Sul merito dipende se siamo d’accordo o no”. Ergo, l’ex premier vuole ancora tirare la corda.
Così torna a invocare il Mes, la mina per far saltare tutto, visto che i 5Stelle non potranno mai deglutirlo. Ma soprattutto insiste: “Sul tema dei servizi serve un esperto tecnico, che non è il premier. Tutti abbiamo sempre delegato, perché Conte accentra? Anche su questo servono novità”. Dopo i segnali di tregua di martedì, Renzi rialza volentieri la tensione, che per lui fa rima con visibilità. D’altronde non ha molto da perdere. “Io ora ho il 2 per cento, che mi importa?” gli hanno sentito dire. Per questo in un tweet dice no a quelle urne che pure a lui e Iv ad occhio costerebbero carissimo: “Non credo che si andrà a votare, perché in Parlamento una maggioranza c’è”.
E sempre in quest’ottica azzanna Dario Franceschini, capo delegazione dem che ha evocato proprio il voto: “Sta bluffando, il presidente della Repubblica non è Franceschini ma Sergio Mattarella”. Però poi c’è Conte, che nel salotto di Bruno Vespa rivendica di “aver parlato poco in questi giorni, lasciando parlare altri sulle tv”, ed è già una botta ai renziani.
Ma il punto è un altro: “Sulla delega sui Servizi non vorrei ci fossero equivoci: il presidente del Consiglio non si è appropriato di questi poteri, glieli attribuisce la legge e io non posso sottrarmi a questa responsabilità”. Niente passo indietro dunque, anche se l’hanno chiesto anche altri (il vicesegretario dem Andrea Orlando, per esempio). “Sono disposto a discutere di tutto ma per l’interesse generale e non di singole parti delle forze di maggioranza” ribadisce. Ovvero, non pensa ad abiure. Ed ecco perché recapita un’altra risposta a Iv, che martedì aveva celebrato la scomparsa della task force per il Recovery Fund: “La task force, come struttura centralizzata che avrebbe sopravanzato e prevaricato i ministeri, è stata superata perché non è mai esistita. Ma una struttura di monitoraggio ce la chiede l’Europa”. E il Mes? Vira ancora verso il no: “Attivarlo o meno è prerogativa del Parlamento ma i 36 miliardi del fondo ci farebbero accumulare deficit e lasceremmo alle generazioni future un fardello”. Piuttosto, avverte Conte, “non possiamo disperdere le risorse del Recovery Plan, e se non riusciremo in questo intento il governo dovrà andare a casa con ignominia”. Quindi bisogna andare di corsa: “L’obiettivo è chiudere entro l’anno il documento di aggiornamento sullo stato dell’arte (del Recovery, ndr). Dobbiamo mandarlo al Parlamento e avviare un passaggio importante con la società civile e le parti sociali”.
Per questo , “ho chiesto ai partiti di ritrovarci tra Santo Stefano e Capodanno per trovare la necessaria sintesi”. Fuori si riparla di rimpasto, ma a gennaio inoltrato. Dall’esecutivo raccontano che il Quirinale avrebbe fatto sapere che tre ministeri sono intoccabili: Interni, Esteri e Difesa. Mentre l’Economia tornerebbe in gioco se Roberto Gualtiere si convincesse a correre come sindaco di Roma. Più che un’idea, per il Pd.
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