Nel giro di pochi giorni, ha scritto Marco Revelli sul Manifesto coniando il termine “kakistocrazia”, in opposizione all’acclamata aristocrazia dei Draghi boys, siamo passati dal governo dei migliori al governo dei peggiori.
Professore, la kakistocrazia dipende dalle nomine dei sottosegretari?
La scelta dei sottosegretari è un po’ la “prova dei 39”, un momento di verità sulla qualità complessiva della squadra di governo. Che è il prodotto di una media tra un piccolo gruppetto di eletti – gli uomini del caveau, i fedelissimi dell’ex governatore di tutte le banche, custodi del tesoretto – e una pletora che, nel suo insieme, è inguardabile. Un mix tra cui ci sono anche persone di valore, profondamente guastato da personaggi di infimo livello. È molto difficile immaginare come un’arlecchinata del genere possa diventare una squadra se non considerando una sindrome bipolare. Cioè pensando che i fondamentali siano custoditi dagli uomini del caveau e il resto sia riservato al pollaio, che purtroppo è l’espressione della nostra classe politica. Tutto questo lo possiamo giudicare da un punto di vista estetico.
Estetico?
L’estetica non è una cattiva chiave di lettura della politica. E dal punto di vista estetico il governo è appunto inguardabile, una specie di armata Brancaleone che non promette nulla di buono. Se d’altra parte lo analizziamo da un punto di vista politico, è il prodotto quasi terminale di un sistema dei partiti incapace di trovare una soluzione e di selezionare un personale politico degno. C’è poi un terzo punto di vista: quello del modello. Questo ci rivela una verità ancora più profonda, rispetto al paradigma neoliberista vincente, in cui l’economia umilia la politica, ridotta a ruolo ancillare. È una spettrografia esemplare del rapporto tra denaro e politica: il denaro chiuso a chiave e vigilato dai fedelissimi, e la politica ai piani bassi abbandonata al peggio di sé.
Perché al peggio di sé?
Perché possiamo immaginare l’uso delle cariche come megafono, occasione per far vedere che si esiste. È la petulante presenza sulla scena di una perenne campagna elettorale a cui Salvini ci ha abituati: le funzioni di governo sono subalterne alla produzione di immagine e consenso. La novità è che il governo è sostenuto praticamente da tutti, quindi anche da forze tra loro incompatibili tenute insieme dalle circostanze. Circostanze che sono state create ad arte da un pirata della politica, quale è Matteo Renzi. Questa accozzaglia improbabile è il degno prodotto del soggetto che ha dato origine alla reazione a catena.
Lei dice: non ci si può aspettare altro da un Paese che ha accettato con entusiasmo cieco la soluzione del governo dei migliori. Sudditi, più che cittadini?
Siamo un Paese senza speranza, allo sbando. Abbiamo perso la capacità di osservare con lucidità il reale, per rincorrere allucinazioni collettive: il coro urlato di leader politici e opinion maker, più che il saluto alla soluzione della crisi, è la testimonianza della sua gravità. Che è radicata nella dissoluzione di quelli che, in una democrazia sana, dovrebbero essere gli anticorpi. Cioè i media, che dovrebbero agire come difese immunitarie, una barriera contro gli eccessi di entusiasmo e di disperazione capace di costruire un’opinione pubblica matura. Restando nella metafora, siamo in una sindrome autoimmune: quelli che dovevano essere gli anticorpi hanno distrutto le difese immunitarie. Si è creata un’aspettativa mostruosa: sarà un miracolo se si riuscirà a mettere in atto una campagna vaccinale in tempi decenti. Figuriamoci se si riusciranno a portare a termine la riforma del fisco, della Pubblica amministrazione, della giustizia, il risanamento del debito pubblico… Tutte le piaghe d’Egitto sanate da un re taumaturgo: siamo piombati nell’ancien régime. Una superstizione che fa male anche al presidente del Consiglio.
Ecco, a proposito. Ma Mario Draghi è un keynesiano figlio di Federico Caffè o anche qualcos’altro?
Non siamo in un periodo in cui si possa proporre austerity: di fronte a una sfida radicale pari a quella di una guerra, non si possono proporre politiche di austerità, nemmeno nella loro forma espansiva. Mario Draghi però è interno al paradigma che ritiene le privatizzazioni la via maestra, che non considera le politiche assistenziali un tema strategico nella gestione della coesione sociale, che fa del conto perdite-profitti il baricentro dell’azione politica. E questo è il male del secolo, perché la politica così è diventata la suburra, quando invece dovrebbe rappresentare la costruzione del consenso attraverso la leva della redistribuzione e della riduzione delle diseguaglianze. Questa sarebbe la logica del politico, contrapposta a quella dell’economista. Ma se la banca diventa sistema di governo entriamo in un ordine di idee che dimentica gli ultimi.
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