Le Nazioni Unite sono al centro di uno scandalo in Etiopia. Da settimane l’Onu allerta sui massacri nella regione del Tigray, dove l’esercito federale di Addis Abeba e l’esercito eritreo si battono contro il Fronte popolare di liberazione del Tigray (FLPT). Ma, al tempo stesso, l’organizzazione sta assistendo in silenzio all’“epurazione”, all’interno dei suoi stessi contingenti, dei caschi blu etiopi, originari del Tigray, che vengono arrestati dai soldati di Addis Abeba e inviati nel loro paese, dove alcuni di loro sarebbero stati torturati e uccisi. “Tacendo, l’Onu sta violando il suo dovere di promuovere e tutelare i diritti umani”, osserva un dipendente delle Nazioni Unite. Diversi mesi fa, l’Onu ha creato una task force per far fronte a questa situazione, ma è evidente che non sta dando risultati. All’interno dell’organizzazione si avverte un profondo imbarazzo.
Il segretariato generale di New York, di solito reattivo, ha impiegato una settimana a rispondere alle nostre domande. Diversi scambi di mail e diverse riunioni si devono essere tenute in quei giorni per decidere quali elementi rendere pubblici e quali tenere nascosti. Alla fine l’Onu non ha confermato le nostre informazioni, ma non le ha neanche smentite, limitandosi a fornire dettagli noti e ricordando, con le solite formule di rito, i principi generali dell’istituzione. “Il caso del presunto maltrattamento di caschi blu originari del Tigray è grave e preoccupante”, è stato ammesso da un portavoce del dipartimento per le operazioni di pace. Per il resto i fatti sono stati negati o minimizzati. Tutto è iniziato con l’offensiva militare lanciata il 4 novembre 2020 dal governo centrale dell’Etiopia contro le forze del FLPT, che dirige il Tigray. Quasi immediatamente, alcuni caschi blu originari del Tigray sono stati brutalmente allontanati dai contingenti etiopi della UNMIS, la missione di pace delle Nazioni Unite in Sud Sudan, il cui comando militare è assicurato da un etiope e che conta tre battaglioni etiopi, circa 2.000 uomini. La stessa cosa è successa all’interno della UNISFA, la missione Onu per la regione dell’Abyei, rivendicata dal Sudan e dal Sud Sudan, e il cui contingente di caschi blu è costituito esclusivamente da etiopi (4.500 uomini). A fine novembre 2020, la rivista americana Foreign Policy aveva già pubblicato alcuni elementi di un documento riservato delle Nazioni Unite, indicando che quattro ufficiali originari del Tigray della UNMIS erano stati forzati a rientrare in Etiopia. Si precisava che “tutti gli ufficiali e soldati del Tigray” erano sistematicamente fermati e posti in detenzione al loro arrivo a Addis Abeba. Alcuni sarebbero stati vittime di torture e uccisi. “Stiamo verificando i fatti”, aveva detto all’epoca un portavoce delle Nazioni Unite. Oggi, a cinque mesi da quella pubblicazione, la UNMIS declina ogni responsabilità: “Il mandato della UNMIS si limita al Sud Sudan. L’Etiopia è sola responsabile della condotta delle sue truppe”, ci è stato risposto. Nel frattempo, il numero due della UNISFA, il generale Negassi Tikue Lewte, originario del Tigray e sotto contratto con le Nazioni Unite, ha lasciato all’improvviso il suo incarico nel novembre 2020 e non si è più visto. Un ufficiale etiope ha spiegato al segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che il generale Lewte era partito in vacanza e che aveva deciso di non tornare ad Abyei. Ha poi precisato che per Addis Abeba era un “disertore”.
I responsabili delle Nazioni Unite si sono resi conto che l’Etiopia nascondeva delle informazioni gravi. “Il generale Lewte ha chiesto un permesso nel novembre 2020, che gli è stato accordato. Da allora non si è più presentato al lavoro. Siamo molto preoccupati per la sua sicurezza”, sostiene oggi l’ONU. Il generale è ancora vivo? Altri caschi blu avrebbero subito la stessa sorte negli ultimi mesi. Alcuni sarebbero stati arrestati mentre partecipavano alla missione Onu e trasferiti su aerei delle Nazioni Unite a Juba, la capitale del Sud Sudan, prima di essere imbarcati su aerei etiopi. L’ONU non ha voluto rispondere su questo punto. “Stiamo lavorando attivamente sul caso, ma per motivi di riservatezza e sicurezza non possiamo fornire ulteriori dettagli”, ci hanno risposto dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, che ha sede a Ginevra. Da New York confermano che “tra il 13 e il 22 novembre 2020 quattro caschi blu etiopi sono stati trasferiti in Etiopia senza un’adeguata coordinazione con la UNMIS”. Il 22 febbraio, dei caschi blu del Tigray di un contingente in partenza per Addis Abeba hanno rifiutato di imbarcarsi all’aeroporto di Juba. È scoppiata una violenta rissa. Secondo le nostre informazioni, alcuni caschi blu sono stati obbligati a salire sull’aereo. Altri tredici sono riusciti a restare a Juba. Un quotidiano locale ha pubblicato le loro foto. Alcuni erano feriti. Al giornale hanno spiegato che temevano di essere vittime di persecuzioni in Etiopia e di aver chiesto l’asilo. La UNMIS ha confermato che le autorità del Sud Sudan si sono fatte carico dei tredici soldati, con l’appoggio dell’Alto Commissario per i rifugiati, ma quest’ultimo non ha fornito dettagli. Secondo una fonte informata, l’Etiopia avrebbe poi inviato una lettera ufficiale alla UNMIS, dicendo in sostanza che avrebbe ritrovato quei caschi blu, che li avrebbe rimpatriati e processati e che meritavano la pena di morte. L’ONU non ha né confermato né negato l’esistenza di questa lettera. Dopo questo episodio, un responsabile militare etiope ha accusato i soldati che si erano rifiutati di imbarcarsi di essere dei “traditori sostenuti dall’Alto commissariato per i rifugiati e dai cittadini del Tigray che lavorano alle Nazioni Unite” e di militare per il FLPT. “I caschi blu rimpatriati con la forza sono molti di più di quanto sia stato detto ufficialmente, prima e dopo il 22 febbraio 2021”, sostiene una delle nostre fonti, aggiungendo che due caschi blu del Tigray erano riusciti, la notte prima degli incidenti allo scalo di Juba, a fuggire dal campo dove erano detenuti. E non è tutto. Almeno un civile etiope sotto contratto con la UNMIS è dovuto fuggire dal Sud Sudan. È grazie a lui che si è potuto capire cosa stava succedendo ai caschi blu del Tigray: è stato lui infatti a tradurre dall’amarico dei messaggi che alcuni caschi blu avevano inviato ai civili della missione, con le foto dei colleghi torturati nei campi dell’Onu.
Quest’uomo, minacciato insieme alla sua famiglia dal governo etiope, è ormai costretto a nascondersi. L’ONU non gli ha offerto nessuna protezione, limitandosi a concedergli un congedo a tempo indeterminato. “Quest’uomo rischia di trovarsi in una situazione ancora più complicata se l’Onu dovesse decidere di rompere il suo contratto”, secondo uno dei colleghi. “L’ONU, che dovrebbe essere in prima linea nella difesa dei diritti umani, può continuare a limitarsi a esprimere preoccupazione e, in tutta coscienza, a lavorare con gli etiopi? Non si può fare nient’altro?”, si chiedono alcuni dipendenti dell’organizzazione. All’interno della task force, alcuni membri vorrebbero che l’Onu adottasse una posizione forte, anche se Addis Abeba dovesse ritirarsi dalle operazioni di pace. Altri preferiscono mantenere un basso profilo, dal momento che l’Etiopia fornisce all’Onu caschi blu in grande quantità, anche se altri Stati sono candidati a partecipare alle operazioni di pace, una fonte di reddito interessante per loro. L’alto commissariato per i diritti umani non conferma l’esistenza di conflitti interni: l’Onu e le sue agenzie stanno “lavorando di concerto” su questo fascicolo, viene riferito. Il caso non riguarda solo le Nazioni Unite. Diverse centinaia di caschi blu etiopi originari del Tigray in missione per l’Unione africana in Somalia sono stati trasferiti con la forza nel loro paese alla fine del 2020. Che fine hanno fatto? Il portavoce del presidente della Commissione dell’Unione africana, la cui sede è a Addis Abeba, e che nel novembre 2020 ha licenziato il suo capo della sicurezza, un etiope, su richiesta delle autorità etiopi, non ha risposto alle nostre domande.
(Traduzione di Luana De Micco)
ILFQ
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