venerdì 2 luglio 2010

I guai di Cappellacci, tradito dai suoi e sotto inchiesta.


di Gianluca Serra tutti gli articoli dell'autore

Bocciatura del Piano Casa Cappellacci e nuovo blitz della Polizia giudiziaria negli uffici della Regione. È il 30 giugno del Governatore della Sardegna, un’altra giornata nera. Che si aggiunge alla serie innescata con l’inchiesta della procura di Roma sui presunti illeciti nel business dell’eolico, per i quali sono indagati, oltre lo stesso Cappellacci, Flavio Carboni, Denis Verdini e politici e dirigenti a loro legati. In gergo pugilistico quello di ieri è un “uno-due” che stenderebbe un toro. Il primo colpo lo sferra a Cappellacci la sua maggioranza, che boccia clamorosamente, a voto segreto, la versione sarda del Piano Casa, aggiornato e corretto dal Presidente dopo quello approvato nell’autunno scorso. Il secondo colpo arriva da un accesso agli atti della Procura di Cagliari che prefigurerebbe un nuovo filone di indagine sulle attività della giunta Cappellacci, stavolta riguardante i concorsi per l’assunzione dei dirigenti. Agenti della polizia giudiziaria avrebbero bussato all’assessorato degli Affari Generali per acquisire documenti sul reclutamento di personale e sui concorsi. A contare i secondi a Cappellacci, dopo una serie così micidiale, assieme all’opposizione c’è anche una consistente parte della maggioranza, che ha votato contro il Piano Casa (su 65 presenti, 27 i sì e 37 i no) e che il giorno precedente aveva messo in mora il Presidente.

I tanti mal di pancia si condensano nella richiesta di un rimpasto della giunta e di un energico cambio di rotta rispetto a un’agenda politica eterodiretta da Roma. Come ha dimostrato la vicenda eolico, con il corollario di nomine e atti sollecitati fuori dalla Sardegna e oggi al vaglio degli inquirenti. In più, e di qui la ricaduta sul voto al Piano Casa, a Cappellacci è mossa l’accusa, anche dentro la coalizione che lo sostiene, di prestare eccessiva attenzione a interessi non troppo diffusi. Proprio su questo punto le avvisaglie di un dies nefastus per Cappellacci si potevano leggere il giorno precedente, in concomitanza con il vertice di maggioranza, nel blog del consigliere regionale del Partito Sardo d’Azione Paolo Maninchedda. In un articolo dal titolo “Le norme del cosiddetto piano casa che non posso votare”, segnalava la contrarietà del suo partito a norme che avrebbero consentito deroghe in materia di lottizzazioni e concesso «un premio ai comuni non virtuosi che continuano ad amministrare coi vecchi piani di fabbricazione, un premio ai comuni che hanno consumato il consumabile. Uno schiaffo ai Comuni che pur dotati di Puc si videro bloccate dal Piano Paesaggistico le lottizzazioni. Un premio anche a un altro signore, potentissimo». Il signore sarebbe Sergio Zuncheddu, editore dell’Unione Sarda, quotidiano schieratissimo contro la passata esperienza di governo regionale del centrosinistra. Le norme bocciate avrebbero consentito di rimuovere il vincolo paesaggistico e riavviare opere di costruzione sulla costa, anche nel caso della lottizzazione di Cala Giunco, dell’editore cagliaritano, che era stata definitivamente cassata dal Consiglio di Stato.

NUOVA BOCCIATURA
Già un’altra volta Cappellacci fu bocciato dal Consiglio regionale sardo, quando, di fatto, furono sospesi gli effetti di una delibera con cui la giunta sotto le feste di Natale avviava le trattative per l’acquisto di immobili di Zuncheddu da destinare a sede degli uffici della Regione. Il dibattito molto acceso in Consiglio regionale ha messo sul piatto il rischio che le norme sul piano casa potessero appunto riguardare pochi e favorire pochissimi.
È il tenore degli interventi dell’opposizione e dell’ex Presidente Soru, che due anni fa si dimise quando parte della sua maggioranza bocciò un emendamento che delegava la giunta a proseguire il lavoro di stesura del Piano Paesaggistico. Non si ha alcuna notizia di reazioni del Presidente Cappellacci alla clamorosa nuova bocciatura.

02 luglio 2010

giovedì 1 luglio 2010

Stragi '92: Indagati per depistaggio 3 poliziotti


di Monica Centofante - 1° luglio 2010
C'è una nuova svolta nelle indagini sulle stragi di Capaci e Via D'Amelio. E sui depistaggi che seguirono l'uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino negli anni scanditi dalle bombe e dalla trattativa tra Cosa Nostra e lo stato.


Lunedì scorso, in gran segreto, il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e i sostituti Domenico Gozzo e Nicolò Marino avrebbero interrogato per un'intera giornata 3 poliziotti a quanto pare indagati per “calunnia aggravata”. Non poliziotti qualunque, ma ex-investigatori del “Gruppo Falcone-Borsellino” incaricato di svolgere accertamenti dopo quelle stragi. E sotto la direzione di quell'Arnaldo La Barbera - ex capo della Squadra Mobile poi questore di Palermo, morto per un male incurabile nel 2002 - che pochi giorni fa si è scoperto era al soldo dei servizi segreti.

Nel giorno in cui il presidente della Commissione antimafia Giuseppe Pisanu conferma a sorpresa la possibile iscrizione nel registro degli indagati, a Caltanissetta, dello 007 Lorenzo Narracci, già uomo di Bruno Contrada in quel caldo 1992, i 3 nuovi nomi irrompono sulla scena.

Secondo indicrezioni giornalistiche Salvo La Barbera, Mario Bo e Vincenzo Ricciardi – questi i nomi dei poliziotti - sono indiziati di aver estorto le confessioni al falso pentito Vincenzo Scarantino “mediante minacce e pressioni psicologiche”. “In concorso con il dottor Arnaldo La Barbera, nonché con altri allo stato da individuare, con una pluralità di azioni e in esecuzione di un medesimo disegno criminoso”.

Scarantino, lo ricordiamo, è il killer che si autoaccusò della strage del 19 luglio portando le investigazioni su una falsa pista che identificava i mandanti dell'eccidio di Via D'Amelio nella borgata della Guadagna. Spostando l'attenzione degli inquirenti dal mandamento di Brancaccio, indicato oggi dal vero pentito Gaspare Spatuzza e regno dei fratelli Graviano. I boss sospettati per anni di essere stati in contatto con Marcello Dell'Utri, già indagato insieme a Silvio Berlusconi come mandante esterno delle stragi dei primi anni Novanta (le indagini sono state archiviate).

Ora i pm si chiedono: chi organizzò il depistaggio? Chi manovrò Vincenzo Scarantino e i pentiti che lo avevano confermato, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, anche loro minacciati? E soprattutto perché?
Domande che, a quanto si apprende, non avrebbero ottenuto una risposta dai 3 nuovi indagati che si sarebbero difesi con una serie di “non so” e “non ricordo”.

Per il momento l'unica certezza è che le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, seguite da quelle di Massimo Ciancimino, hanno riaperto più di uno squarcio sugli anni bui delle stragi. E gettato ombre inquietanti sul ruolo assunto in quel periodo dai servizi segreti.
Dal canto loro gli stessi Candura, Andriotta e Scarantino, incastrati dalle rivelazioni di Spatuzza, hanno ammesso di aver in passato dichiarato il falso. Aggiungendo di non essersi inventati le accuse, ma di aver ripetuto ai magistrati quanto suggerito dai poliziotti che li interrogavano. Quei poliziotti capitanati da Arnaldo La Barbera che si sarebbero limitati ad eseguire un ordine.

A fronte di quanto sinora emerso per molti boss condannati per la strage di Via D'Amelio ci sarà a breve la revisione del processo, mentre continuano le indagini sul ruolo dei servizi che anche questa volta hanno ricevuto più di un input dalle parole di Spatuzza. Anche lui avrebbe fatto il nome di Lorenzo Narracci, secondo le sue dichiarazioni presente, il 18 luglio del 1992, nel garage in cui si stava “caricando di esplosivo” la macchina utilizzata il giorno dopo per l'attentato.

L'uomo chiave, quindi, rimane lui. Il pentito a cui il Viminale non ha concesso il programma di protezione e che prima e dopo la sentenza di condanna al senatore Marcello Dell'Utri in molti si sono affrettati a screditare.


http://www.antimafiaduemila.com/content/view/29375/78/




mercoledì 30 giugno 2010

Berlusconi teme l'affondo finale "Ora proveranno a colpire pure me"


Il Cavaliere è convinto che altre procure stiano preparando nuove inchieste: "Sentenza politica, i giudici giacobini assolvono Tartaglia e non Marcello". E il Pdl ora vuole cambiare il reato di concorso esterno


dal nostro inviato FRANCESCO BEI

SAN PAOLO - "Assolvono Tartaglia, uno che ha provato ad ammazzarmi, e condannano Marcello solo per aver conosciuto 30 anni fa delle persone che poi si sarebbero scoperte vicine alla mafia. Questa è la magistratura giacobina che ci ritroviamo". Il premier si trova nella suite dell'hotel Tivoli di San Paolo quando dall'Italia gli giunge la notizia della condanna di Dell'Utri. I contatti con Roma sono limitati, filtrati dal portavoce Bonaiuti, ma qualcuno che assicura di averci parlato descrive un Berlusconi "molto preoccupato" per quella che ritiene essere "l'ennesima sentenza politica" di una magistratura ostile al governo. Non a caso, la sera prima, si era premurato di rispolverare - a beneficio del gotha degli imprenditori italiani in Brasile - quella definizione di "metastasi" per i pm "politicizzati". Un'uscita preventiva in vista della sentenza di ieri, da cui tuttavia il Cavaliere si tiene ben lontano: non vuole parlare di Dell'Utri, non intende farsi trascinare nella mischia. Così, al suo rientro in albergo dopo il pranzo con il presidente Lula, si tiene alla larga dai taccuini e si rifugia di corsa nella sua stanza protetto dalla scorta e dallo staff. "Avete già fatto troppi danni ieri", sibila ai giornalisti.

E tuttavia Berlusconi, a differenza di molti nel Pdl, non ritiene affatto sventata quella "manovra politica" che attribuisce alla magistratura per scardinare il governo. È convinto che il processo a Dell'Utri sia soltanto un pezzo del domino,


ma sa che altre procure - Firenze , Palermo e Caltanissetta - hanno ancora in cottura inchieste potenzialmente devastanti per la sua immagine e per il futuro della maggioranza. La guardia resta alta, nella convinzione che "ci riproveranno". E torna quindi ad affacciarsi, nei ragionamenti di queste ore tra gli uomini che si occupano di giustizia per il premier, la vecchia idea di rimettere mano al reato di concorso esterno in associazione mafiosa. "Un reato che nel codice penale nemmeno esiste", spiegano, "inventato" dai magistrati e usato per "colpire" gli avversari politici. Lo strumento potrebbe essere una leggina ad hoc, per limitarne al massimo l'applicabilità e così sventare anche i nuovi possibili colpi delle procure.

Per ora, nel Pdl si gioisce per lo scampato pericolo, visto che la condanna per Dell'Utri avrebbe anche potuto riscrivere la storia della genesi di Forza Italia. "Diciamolo chiaramente - afferma Daniele Capezzone - dalla sentenza esce distrutta tutta la tesi di Ingroia che indicava in Marcello Dell'Utri il costruttore di un nuovo soggetto politico in accordo con la mafia". "Non a caso - aggiunge Fabrizio Cicchitto - il più deluso è il procuratore Gatto, visto che la Corte ha smontato l'idea di una sostanziale identità di interessi tra "l'entità" Forza Italia e i boss". Sono considerazioni positive, di chi si sforza di vedere il bicchiere mezzo pieno, ma rischiano di apparire consolatorie visto che una condanna c'è stata e pure molto pesante. Un amico personale di Dell'Utri - Amedeo Laboccetta -, dopo aver sentito tre volte al telefono "Marcello", confessa infatti il suo sconforto per "una sentenza cerchiobottista". "I magistrati - si sfoga - potevano chiudere la vicenda se solo avessero voluto e invece si sono comportati come Don Abbondio. D'altronde la pressione politica e quella mediatica era fortissima, tutti volevano una condanna. Almeno ora è chiaro che Berlusconi con la mafia non c'entra nulla: la manovra per far saltare il governo è fallita".

Non è questa però l'impressione del Cavaliere. Con i suoi uomini più in vista sotto inchiesta - da Verdini a Dell'Utri, da Brancher a Bertolaso - il premier resta convinto che i magistrati abbiamo messo nel mirino chi gli sta intorno per arrivare a lui. "La magistratura politicizzata - ha spiegato due sera fa agli italiani di San Paolo - è una spina nel fianco della nostra civiltà attuale. Ma io ho giurato che non mi farò da parte finché non l'avrò riformata". Quasi una "missione", a cui darà nuovo impulso al suo rientro a Roma dopo la lunga trasferta all'estero (prima il G8 in Canada, poi il Brasile e oggi Panama), pronto a rovesciare il tavolo se i finiani dovessero mettersi di traverso.






Indagavano su abusi edilizi Poliziotti trasferiti da Ischia


I dirigenti del locale commissariato di Polizia sono stati destinati ad altra sede e altro incarico dopo le polemiche e le pressioni per una lunga indagine sull’operato dell’ex sindaco di Lacco Ameno, uno dei sei comuni dell’isola

Trasferiti per aver scoperto il fatto. Succede a Ischia, isola di mare e di abusi edilizi, dove dirigenti del locale commissariato di Polizia sono stati destinati ad altra sede e altro incarico dopo le polemiche e le pressioni per una lunga indagine sull’operato dell’ex sindaco di uno dei sei comuni dell’isola, Lacco Ameno. La denuncia arriva dal senatore Roberto De Seta, capogruppo Pd in Commissione ambiente: «A Ischia chi indaga sugli abusi edilizi e tocca gli interessi di persone note e politici rischia grosso, addirittura viene trasferito». Le indagini risalgono a tre anni fa, il trasferimento all’anno scorso. In mezzo, le grandi manovre di Amedeo Laboccetta, parlamentare del Pdl che si è speso molto per far allontanare dall’isola gli “indesiderati” investigatori, il dirigente del locale commissariato, Antonio Vinciguerra, e l’ispettore Giuseppe Gandolfo.

La storia. Due anni fa,
Domenico De Siano, ex sindaco e vice-sindaco sull’Isola Verde, viene indagato insieme ad altre 33 persone per una serie di reati che vanno dall’associazione a delinquere al falso in atti amministrativi, dal peculato fino alla truffa ai danni di un ente pubblico. Al centro dell’inchiesta, la vicenda del porto turistico di “Marina del Capitello” nel Comune di Lacco Ameno. Le indagini dimostrano che per realizzare l’opera viene distrutta una prateria di mezzo chilometro di alghe rarissime e danneggiata la condotta sottomarina nella quale confluisce l’intero sistema fognario comunale con il rischio che i liquami finiscano tutti a mare. D’altronde, la salute delle migliaia di turisti che ogni anno affollano l’Isola Verde non era proprio la priorità dell’ex sindaco che, come emerso da un altro capitolo dell’inchiesta, riesce a tenere a bada i funzionari della locale Azienda Sanitaria e della competente agenzia regionale per l’ambiente, dopo un grave caso di legionella riscontrato nell’albergo di famiglia, il “Villa Svizzera”. I pm parlano di “costante condizionamento della pubblica amministrazione (Comune, Capitaneria di Porto, Polizia Municipale, Asl e Arpac)” e di “asservimento della funzione pubblica agli interessi del gruppo”. Le attività sono ancora in corso, almeno per quanto riguarda l’azione della Procura che non ha ancora notificato l’avviso di chiusura delle indagini. A febbraio di un anno fa, invece, Antonio Vinciguerra veniva “promosso”: da dirigente del commissariato di Ischia all’ufficio di Gabinetto del Questore di Napoli.

L’amico degli indagati. De Siano, intanto, è stato eletto al consiglio regionale della Campania, grazie anche all’impegno del suo sponsor politico, Amedeo Laboccetta. Il parlamentare manager –
come lui stesso ama definirsi sul sito istituzionale della Camera per via dell’incarico in Atlantis World, la multinazionale off-shore partner dei Monopoli di Stato nel business delle slot-machine – si era speso a lungo per difendere il suo compagno di partito. Interviste, accuse, persino un’interrogazione urgente al Ministro degli Interni: «Quanto detto, da solo basterebbe a chiedere e a giustificare la rimozione di quei funzionari di polizia responsabili di tale pesante intromissione nell’attività e nella vita dell’ente locale e del danno anche erariale provocato» aveva dichiarato, illustrando il provvedimento a Montecitorio. La risposta in aula dell’Esecutivo, però, non lo aveva soddisfatto: «Spero che il Governo sappia porre in essere le iniziative necessarie per giungere allo stato di cose che noi auspichiamo con forza. Spero, inoltre, che esso lo faccia con la massima celerità, prima che si sviluppino iniziative clamorose, rispetto alle quali sarà poi difficile poter porre un freno». Più che una richiesta sembra un velato avvertimento. Era il 24 luglio 2008: sette mesi dopo il trasferimento era già cosa fatta.

Vito Laudadio



Provincia di Salerno, quei 25.000 euro per pagare il premio a Noemi Letizia

La giovane amica abituata a chiamare papi il premier nel 2009 ha ricevbuto il premio "Per il talento che verrà"

La soddisfazione di creare dal nulla un premio per illuminare le nascenti doti artistiche di Noemi Letizia, la ragazza appena maggiorenne che chiama “Papi” Silvio Berlusconi e occupa un posto in primissima fila nel battaglione delle sue pupille, non ha prezzo. Anzi sì, un prezzo ce l’ha. Ed è documentato nelle pieghe del bilancio dell’amministrazione provinciale di Salerno. Per fondare il Valva Film Festival, contenitore dell’indimenticabile premio di fine estate 2009 “Per il talento che verrà” alla 18enne Noemi, la giunta del pidiellino Edmondo Cirielli nel maggio scorso dispose uno stanziamento di 25mila euro per il piccolo comune di Valva, nella Valle del Sele.

I finanziamenti sono serviti a coprire le spese del Premio Villa D’Ayala, un cartellone culturale di pregevole fattura (l’anno scorso, tra gli altri, fu premiato il giornalista
Tito Stagno) all’interno del quale il sindaco Michele Cuozzo volle introdurre il Valva International Short Film Festival. E nel tentativo di ottenere qualche prima pagina, si decise di “inventare” un premio per una ragazza il cui curriculum vantava appena una parte breve e muta in un cortometraggio del regista Carlo Fumo, Scaccomatto, e qualche piccola comparsata in tv locali. Ma Noemi era stata appena travolta da improvvisa fama per la partecipazione del Cavaliere alla festa dei suoi 18 anni in quel di Casoria. Il premio in onore della giovanissima amica di Berlusconi ottenne così la luce dei riflettori e qualche prima pagina. Contabilmente, dei 25.000 euro predisposti per il Premio Villa d’Ayala circa 7.000 furono impiegati solo per il festival cinematografico. Che era alla prima edizione e quest’anno non si sa ancora se verrà bissato.

I dati sui costi del Valva Film Festival sono emersi grazie a un dossier del Pd di Salerno sui presunti sprechi dell’amministrazione provinciale azzurra. “In verità la rassegna cinematografica fu un mezzo fiasco – sostiene il segretario provinciale del Pd
Michele Figliulo, che di Valva fu sindaco in un passato non lontano – perché non si tenne nella bellissima settecentesca Villa D’Ayala per l’opposizione della Soprintendenza. Gli annunciati patrocini della Presidenza della Repubblica, del Senato e del Ministero dei Beni Culturali, vennero meno. Restò solo quello della Provincia di Salerno, il cui presidente Cirielli pochi giorni fa ha scritto che la sua azione amministrativa era tutta a servizio del territorio e a scapito dell’effimero. Ma quella premiazione fu, al contrario, un clamoroso esempio del trionfo del trash e dell’effimero”.

La rassegna stampa, in effetti, non fu trionfale.
Maurizio Barucci, sceneggiatore di Gomorra, dichiarò di essere “rassegnato al trionfo della stupidità”. Emanuele Macaluso si scatenò in un corsivo su Il Mattino ricordando un corso sulla Stupidità appena inaugurato da un College di Los Angeles, e consigliando ai professori statunitensi di mandare i propri studenti a frequentare uno stage a Valva. Diego Da Silva, sempre su Il Mattino, tracciò un interessante confronto tra l’arrivo sobrio e discreto della star hollywoodiana Naomi Watts al Giffoni Film Festival e l’arrivo da diva capricciosa di Noemi a Valva, che rimase asserragliata a lungo in un auto blu prima di concedersi, e solo per pochissimi minuti, ai giornalisti. Scrisse Michele Serra sulla sua rubrica di Repubblica l’Amaca, il 26 agosto 2009: “Se riuscissimo a capire che cosa c’è nella testa di una giuria di paese che decide di premiare Noemi Letizia per il talento che verrà, avremmo finalmente capito che malattia abbiamo, e se c’ è una terapia oppure se è meglio rassegnarsi”. Serra ci offrì anche una risposta: “L’ ipotesi più verosimile è che i premiatori, esattamente come la premiata, siano disposti a qualunque idea o ideuzza pur di attirare un paio di telecamere fin sulla piazza del paese”. Peccato che quell’idea fu realizzata grazie a soldi pubblici. Cioè nostri.



Regionali, zie ed ex fidanzate inchiodano la lista di Giovine


I verbali che dimostrerebbero i falsi.

L'antica fiamma: «Mi ha candidata
senza dirmi nulla». L'avvocato della
Bresso: «Porteremo tutto al Tar»


DI ALBERTO GAINO

Oltre delle polemiche politiche, ieri, è stato il giorno delle fotocopie degli atti che accusano Michele Giovine e il padre Carlo di aver falsificato le firme di 18 dei 19 candidati della lista «Pensionati per Cota». Oltre ai collaboratori dei difensori Cesare Zaccone e Roberto Bronzini, è stato concesso di riprodurre verbali e consulenza grafica all’avvocato Enrico Piovano, che ha promosso il ricorso amministrativo di fronte al Tar Piemonte per conto di Mercedes Bresso e Luigina Staunovo: «Li depositerò al tribunale amministrativo all’inizio della prossima settimana come motivi aggiuntivi del ricorso».

Il gip Anna Ricci ha disposto il giudizio immediato - che per la cronica carenza d’organici del tribunale inizierà solo il 15 dicembre - sulla base dell’«evidenza» delle prove raccolte. In primis, gli accertamenti sulle celle telefoniche agganciate dai cellulari dei due Giovine e di molti candidati della lista nei giorni - il 24 e il 25 febbraio scorsi - in cui a Miasino e Gurro, alto Piemonte, gli uni avrebbero sottoscritto le candidature alle Regionali e gli altri ne avrebbero autenticato le firme. La tecnologia li smentisce tutti. Stavano da tutt’altra parte. Michele Giovine, ad esempio, il 25 non si è mosso dal centro di Torino.

Gli stessi verbali di interrogatorio dei candidati sono diventati prove d’accusa. Lo zoccolo duro di zii e cugini dei Giovine non ha tentennato nemmeno di fronte alle contestazioni del pm Patizia Caputo. Carlo Giovanni Tirello, cugino di Carlo, sembra persino non rendersi conto: racconta che il parente va a prendere in auto a Nizza Monferrato lui e la moglie alle 15 per portarli a Miasino, sul lago d’Orta, e alle 17.30 di averli riportati a casa. Si contraddice, è evidente, e si corregge così: «Abbiamo impiegato il tempo che ci voleva». «Ho firmato al bar». Il pm: «Ai carabinieri aveva parlato di un ufficio». Lui: «Al bar o in ufficio fa lo stesso. Che la mia firma è falsa lo dice il perito». Il magistrato insiste: «Quando ha visto per l’ultima volta suo cugino?». L’altro: «Adesso. Ci ha accompagnato qui. Gli ho telefonato e gli ho detto: “Se non viene una macchina a prenderci noi non andiamo là”. Che male c’è se gliel’abbiamo detto: non siamo mica delinquenti e nostro cugino non è un estraneo». La moglie si allinea, anche se ricorda poco di quel giorno: «Avevo un forte mal di testa».

Dai verbali si apprende che Michele Giovine ha contattato i candidati e testimoni il giorno prima della convocazione in procura per chiedere loro di confermarne la versione. Ma i Trupo, padre e figli, non accettano: «Se ce l’avesse chiesto, siamo amici, avremmo firmato. Non l’ha fatto. Tanto meno siamo stati a Gurro». Valentina Pantano, un’ex fiamma di Michele, è ancora più netta: «Dal 2002 non mi occupo più di politica, non sapevo nemmeno di essere stata candidata, vivo a Milano».

I parenti restano lo zoccolo duro. Dina Martufi, cugina del consigliere regionale, premette di non essersi mai occupata di politica: «Non avevo nessuna intenzione di candidarmi in Piemonte. L’ho fatto senza rendermi conto del peso della cosa. Ho accettato per aiutare mio cugino e mio zio. La mia firma sul modulo della candidatura e quella sulla carta d’identità sono così difformi perché la prima l’ho fatta quando portavo un tutore». C’è chi ha provato a giustificare la firma diversa sostenendo «mi viene in un modo o in altro secondo l’umore» o «il forte stato emotivo di quel momento». C’è pure una zia di Sara, la fidanzata di Michele Giovine, che assicura di aver fatto, il 25 febbraio, il doppio tour: firma a Miasino e poi a Gurro, in cima al Verbano, «non so perché», e di fronte al consigliere regionale firma in piazza, «a sera tardi». Quel giorno lei, la sorella e la nipote (che era a Torino, secondo il suo telefonino) portano in Val Cannobina anche la madre classe 1923, «da 9 anni colpita dal morbo di Parkinson», e che pure, con l’aiuto di un deambulatore, a febbraio si sposta da Verona per «aiutare mia nipote». Solo la candidata più anziana, 91 anni, ammette di aver firmato a Torino: «Mio nipote mi ha portato un modulo della lista per cui lavora». Così come Rosina Trigila, zia di Giovine: «Ho firmato qui, non ho altro da aggiungere».

http://www3.lastampa.it/torino/sezioni/politica/articolo/lstp/254992/


Pisanu: «Dietro le stragi intreccio tra politica e apparati deviati» -




L'ANALISI SVILUPPATA DAL PRESIDENTE DELL'ANTIMAFIA.


«Trattativa? Ci fu qualcosa del genere. Nel '92-'93 la democrazia è stata in pericolo». Grasso: servono prove.

MILANO - «È ragionevole ipotizzare che nella stagione dei grandi delitti e delle stragi si sia verificata una convergenza di interessi tra Cosa Nostra, altre organizzazioni criminali, logge massoniche segrete, pezzi deviati delle istituzioni, mondo degli affari e della politica. Questa attitudine a entrare in combinazioni diverse è nella storia della mafia e, soprattutto è nella natura stessa della borghesia mafiosa». È questa l'analisi sviluppata dal presidente della commissione parlamentare Antimafia Beppe Pisanu nella sua relazione su «I grandi delitti e le stragi di mafia '92-'93», illustrata mercoledì all'organismo di inchiesta.

DUE TRATTATIVE - Pisanu ha ricostruito dettagliatamente i vari passaggi degli "omicidi eccellenti" e delle stragi a partire da quella mancata dell'Addaura, dicendo che ormai vi sono notizie «abbastanza chiare» su due trattative: «quella tra Mori e Ciancimino, che forse fu la deviazione di un'audace attività investigativa, e quella tra Bellini-Gioè-Brusca-Riina, da cui nacque l'idea di aggredire il patrimonio artistico dello Stato». Negli anni delle stragi, tra governo italiano e mafia «qualcosa del genere (una trattativa) ci fu e Cosa Nostra l'accompagnò con inaudite ostentazioni di forza» scrive il presidente della commissione.

INTERVENTI ESTERNI - «Anche la semplice narrazione dei fatti induce a ritenere che vi furono interventi esterni alla mafia nella programmazione ed esecuzione delle stragi - si legge ancora nella relazione -. Fin dall'agosto del '93 un rapporto della Dia aveva intravisto e descritto un'aggregazione di tipo orizzontale, in cui rientravano, oltre alla mafia, talune logge massoniche di Palermo e Trapani, gruppi eversivi di destra, funzionari infedeli dello Stato e amministratori corrotti. Sulla stessa linea, pur restringendo il campo, il procuratore di Caltanissetta Lari ha sostenuto recentemente che Cosa Nostra non è stata eterodiretta da entità altre, ma che al tavolo delle decisioni si siano trovati, accanto ai mafiosi, soggetti deviati dell'apparato istituzionale che hanno tradito lo Stato con lo scopo di destabilizzare il Paese mettendo a disposizione un know-how strategico e militare». A luglio lo stesso procuratore - spiega Pisanu - aveva anticipato che, dopo le dichiarazioni di Spatuzza, «le investigazioni hanno lasciato la pista puramente mafiosa e puntano a scoprire un patto fra i boss di Cosa Nostra e servizi segreti». «Probabilmente - conclude l'ex ministro - Provenzano fu insieme a Ciancimino tra i protagonisti di trattative del genere, mentre Riina ne fu, almeno in parte, la posta. Trattative complesse e a tutt'oggi oscure, nelle quali entrarono a vario titolo, per convergenza di interessi, soggetti diversi, ma tutti dotati di un concreto potere contrattuale da mettere sul piatto. Altrimenti Cosa Nostra li avrebbe rifiutati».

L'ARTICOLO 41 BIS - Pisanu ha osservato che l'elemento probabilmente sottostante al confronto mafia-Stato era l'abolizione del 41bis e il «ridimensionamento di tutte le attività di prevenzione e repressione». A riscontro cita una «singolare corrispondenza di date che si verifica, a partire dal maggio del '93, tra le stragi sul territorio continentale e la scadenza di tre blocchi di 41bis emessi nell'anno precedente».

MAFIA E POLITICA - «Cosa Nostra ha forse rinunciato all'idea di confrontarsi da pari a pari con lo Stato, ma non ha certo rinunciato alla politica - afferma Pisanu nella sua relazione -. Bloccato il braccio militare, ha certamente curato le sue relazioni, i suoi affari, il suo potere. Ma dagli anni '90 a oggi ha perduto quasi tutti i suoi maggiori esponenti, mentre in Sicilia è cresciuta grandemente un'opposizione sociale alla mafia che ha i suoi eroi e i suoi obiettivi civili e procede decisamente accanto alla magistratura e alle forze dell'ordine».

«NARRACCI FORSE INDAGATO» - In particolare nel capitolo dedicato alla strage di via D'Amelio, Pisanu scrive che «le prime indagini avrebbero subito rilevanti forzature anche ad opera di funzionari della polizia di Stato legati ai servizi segreti. Ora è legittimo chiedersi se tali forzature nacquero dal'ansia degli investigatori di dare una risposta appagante all'opinione pubblica sconvolta o se invece nacquero da un deliberato proposito di depistaggio. Non ci sono, almeno per ora, risposte documentate. Sulla scena, comunque, riappaiono le ombre dei servizi segreti. Prima fra tutte, quella del dottor Lorenzo Narracci a quanto pare indagato a Caltanissetta». Sempre riferendosi al funzionario dell'Aisi, Pisanu scrive ancora: «Gaspare Spatuzza lo ha vagamente riconosciuto in fotografia come persona esterna a Cosa Nostra; mentre Massimo Ciancimino, testimone piuttosto discusso, lo ha indicato come accompagnatore del misterioso signor Franco o Carlo» che secondo il figlio dell'ex sindaco di Palermo avrebbe seguito Vito Ciancimino nel corso della «cosiddetta trattativa tra Stato e Cosa Nostra».

GRASSO: SERVONO PROVE - «Le teorie sono belle ma nei processi abbiamo bisogno delle prove giudiziarie. Le prove costruite su tante fonti non hanno mai consentito di costruire la prova penale individualizzante in grado di accertare responsabilità». Così il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, ha risposto ai cronisti che gli chiedevano un commento sulla relazione di Pisanu sui delitti e le stragi di mafia del 1992-93 con riferimento ai passaggi sulla trattativa tra Stato e Cosa Nostra. Grasso ha parlato al termine dell'audizione sul ddl intercettazioni innanzi alla commissione Giustizia della Camera.

Redazione online
30 giugno 2010

http://www.corriere.it/politica/10_giugno_30/pisanu-strage-convergenza_98fe3bbe-8445-11df-a860-00144f02aabe.shtml