mercoledì 28 marzo 2012

Fondi destinati ai ricercatori, il Pd (e il ministro Profumo) cancellano il merito



Finora il dieci per cento dei soldi destinati alla ricerca veniva gestito con un metodo virtuoso: la "peer review" con cui i progetti dei giovani scienziati venivano valutati separatamente “tra pari”, non dalle commissioni ministeriali ma da un comitato misto di italiani e stranieri sempre sotto i 40 anni. Ora però nel decreto Semplificazioni c’è una norma che prevede l’abolizione del sistema. E il partito democratico, tranne Ignazio Marino e Marilena Adamo, ha bocciato la proposta di revisione.


Il dieci per cento dei fondi nazionali destinati alla ricerca fino a ieri finivano nelle tasche dei giovani ricercatori con un metodo diffusissimo nei paesi anglosassoni: la peer review. La regola, introdotta nel 2007 dal governo Prodi, grazie all’impegno congiunto del premio nobel Rita Levi Montalcini e il senatore Ignazio Marino, stabiliva che i progetti dei giovani scienziati sotto i 40 anni venissero valutati separatamente “tra pari”, non dalle commissioni ministeriali ma da un comitato formato per metà da ricercatori italiani e metà stranieri sempre sotto i 40 anni. Una novità assoluta per il panorama italiano, che ha permesso di assegnare oltre cento finanziamenti da mezzo milione di euro. Ma in futuro non ci sarà più.

Perché nel decreto Semplificazioni c’è una norma che prevede l’abolizione del sistema. Secondo il ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, il meccanismo andava ripensato per le difficoltà di formare le commissioni, soprattutto con membri stranieri. “Nessuna difficoltà – spiega Anna Ipata, ricercatrice alla Columbia University di New York e revisore lo scorso anno per i fondi del ministero della Salute – secondo me, e tutte le persone arrivate dall’estero come me con cui ho avuto occasione di parlare, era davvero l’occasione per migliorare l’assegnazione dei fondi, basandosi finalmente sui criteri come quelli usati anche qui negli Stati Uniti. Abbiamo lavorato giorno e notte. Tra l’altro, per risparmiare soldi, era stato deciso che da quest’anno la revisione sarebbe avvenuta direttamente in video conferenza dai paesi dove lavoriamo. Davvero non capisco come sia possibile che si faccia di nuovo un passo indietro”. Non lo sapeva nemmeno il ministro per la Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, come la norma per la cancellazione fosse finita lì, ma si era impegnato ad approfondire l’argomento.

Eppure ieri è stato lo stesso Pd a bocciare la proposta di revisione, condivisa anche dal Pdl, in Commissione Affari costituzionali al Senato. Marino e Montalcini avevano presentato infatti un emendamento che abrogava l’articolo del decreto, facendo così rivivere la loro norma. Ma in Commissione è intervenuto il ministro dell’Istruzione e dell’Università, Francesco Profumo, che ha espresso la contrarietà del governo. L’emendamento è così stato bocciato per 9 voti a 7. Paradossalmente contro l’emendamento di Marino ha votato il Pd (tranne Marilena Adamo e lo stesso Marino), a favore la Lega, il Pdl e Idv.

Profumo, trincerandosi dietro la difficoltà di reclutare i reviewers all’estero – lasciando quindi intuire da dove venisse una proposta di abolizione – ha preannunciato un disegno di legge del governo, “di pochi articoli”, che riproporrà una norma simile ma più applicabile. In realtà i revisori venivano reclutati grazie ad associazioni di scienziati italiani all’estero come l’Issnaf, le valutazioni fatte prima online, poi scelti 15 reviewers per ogni disciplina che in una “study session” stilavano una classifica dei circa 1500 progetti rimasti in corsa. Ora, ha spiegato Marino, “i fondi torneranno ad essere gestiti dai ‘ baroni’ e dai burocrati del ministero”.

Per i parlamentari del Pdl Giuseppe Ferruccio Saro, Nitto Palma, Carlo Sarro e il senatore Maurizio Saia di Coesione nazionale “sono state tradite le aspettative dei giovani ricercatori. La condivisione dell’emendamento Marino sul ripristino di una quota di finanziamenti riservata ai progetti di giovani ricercatori era una decisione coerente anche con la salvaguardia dei principi della riforma universitaria voluta dal ministro Moratti, improntata ai principi di trasparenza e di effettiva valorizzazione del merito. Ci auguriamo – hanno concluso i senatori – che in questa fu-tura occasione il Pd assuma una linea davvero coerente con la tanto proclamata volontà di sostenere i giovani nel mondo della ricerca scientifica ed universitaria”. Pd e Profumo permettendo.

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martedì 27 marzo 2012

Vertice maggioranza: sì a riforme e intesa sulla legge elettorale.






Roma - (Adnkronos) - Intesa Pdl-Pd-Terzo Polo per la ''restituzione ai cittadini del potere di scelta dei parlamentari, un sistema non più fondato sull'obbligo di coalizione, l'indicazione del candidato premier''. Bersani: nuovo vertice prossima settimanaMonti a Seul 'buca' la citazione di ObamaLavoro, Camusso: Parlamento sovrano. Ocse: Italia ritorni a strada crescita. Alcoa, vertice al ministero tra le proteste dei lavoratori.


Roma, 27 mar. (Adnkronos) - Percorso parallelo per le riforme costituzionali e per quella della legge elettorale, che dovrà prevedere il potere di scelta degli eletti da parte dei cittadini, l'indicazione del candidato premier ma senza l'obbligo di coalizione. E' quanto emerge dal vertice tra il segretario del Pdl Angelino Alfano, quello del Pd Pier Luigi Bersani e il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini.
"Al termine dell'incontro tra Pdl, Pd e Terzo Polo - si legge in un comunicato congiunto - si è convenuto sulla necessità di incardinare parallelamente la riforma della Costituzione e la legge elettorale. L'accordo sulla revisione della Costituzione prevede: la riduzione del numero dei parlamentari, la revisione dell'età per l'elettorato attivo e passivo, il rafforzamento dell'esecutivo e dei poteri del premier in Parlamento, l'avvio del superamento del bicameralismo perfetto". "Per ciò che attiene la revisione della legge elettorale, l'intesa prevede: la restituzione ai cittadini del potere di scelta dei parlamentari, un sistema non più fondato sull'obbligo di coalizione, l'indicazione del candidato premier, una soglia di sbarramento e il diritto di tribuna''.
"E' stato un incontro utile. Abbiamo fissato paletti su percorso e alcuni contenuti", ha commentato Bersani. "Sono stati fatti passi avanti. Un passo buono, mi sembra. E ci rivedremo presto. Credo - ha detto il segretario del Pd - la prossima settimana". Bersani ribadisce che per il Pd la riforma della legge elettorale è una priorità: "Noi insistiamo molto per un serio intervento sulla legge elettorale. E' una priorità assoluta. Noi siamo pronti anche ad affrontare i temi costituzionali come la riduzione del numero dei parlamentari".
"Col tempo che avevamo, siamo riusciti a parlare soltanto di riforme", ha poi aggiunto Bersani. E ai cronisti che gli facevano notare come anche quella del lavoro sia una riforma, Bersani ha replicato: "Sì certo è una riforma ma è una riforma da cambiare...". Ma non ''abbiamo previsto'', ha spiegato, un vertice con Alfano e Casini anche sulla riforma del lavoro. Prima del vertice Bersani aveva anche risposto ai cronisti che gli chiedevano delle voci di un possibile voto a ottobre "Io non capisco da dove escano queste stupidaggini. Certamente non da noi", aveva detto il leader Pd.
"Questa coalizione è strana ed eterogenea - ha osservato Pier Ferdinando Casini -: è chiaro che sul lavoro ci sono posizioni differenti. Ma si è chiesto alla politica di battere un colpo e noi l'abbiamo fatto, l'abbiamo battuto. Si parla sempre di antipolitica, ma se si riuscirà a passare dalle parole ai fatti la politica avrà dato una buona prova di sé".
Il vertice tra Angelino Alfano, Pierluigi Bersani e Pier Ferdinando Casini alla Camera è durato circa un'ora e mezzo e si è svolto nell'ufficio di Silvio Berlusconi a Montecitorio.
Sulla riforma del lavoro è tornato il ministro per i Rapporti con il Parlamento Piero Giarda annunciando cheil ddl approderà in uno dei due rami del Parlamento "certamente dopo il ritorno del presidente Monti" dalla missione in Asia. Giarda non ha precisato se il testo sarà presentato al Senato o alla Camera.


http://www.adnkronos.com/IGN/News/Politica/Vertice-maggioranza-si-a-riforme-e-intesa-sulla-legge-elettorale_313137351326.html

Processo Ruby, contraddizioni e “non ricordo” sui rapporti tra la minorenne e Berlusconi.



Al Tribunale di Milano la testimonianza di Caterina Pasquino, che ha innescato il caso con la sua denuncia per furto contro la giovane marocchina. "Mi chiamò per avvertirmi che stava per fare sesso con il presidente, poi disse che scherzava". L'interrogatorio corretto via sms e i riferimenti a "minacce".


L'articolo per intero è a questo link:


http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/26/processo-ruby-contraddizioni-ricordo-rapporti-minorenne-berlusconi/200172/

Postilla doverosa.


Chi vende il proprio corpo per danaro vende anche la verità.
Naturalmente "bunga-bunga-belli-capelli" sa come addomesticare verità e giustizia per proteggere se stesso, lo ha imparato da maestri tristemente famosi come Dell'Utri, dall'eroe Mangano, dai suoi finanziatori Provenzano, Riina e Calì...tutta gente di "un certo livello"....




Fede, la Svizzera respinge 2,5 milioni di euro. - di Fiorenza Sarzanini




No al deposito. La Finanza indaga un accompagnatore Accertamenti anche sulla persona che, nel dicembre scorso, ha accompagnato il giornalista a Lugano.

ROMA - Voleva depositare su un conto svizzero due milioni e mezzo in contanti. Ma i funzionari di banca avrebbero rifiutato di accettare l'operazione, non avendo garanzie sulla provenienza dei soldi. Una vicenda che appare senza precedenti e sulla quale hanno avviato verifiche l'Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza. Protagonista è il direttore del Tg4 Emilio Fede, già indagato per favoreggiamento della prostituzione per le feste organizzate nelle residenze dell'ex capo del governo Silvio Berlusconi e per concorso in bancarotta fraudolenta dalla magistratura milanese con l'agente dello spettacolo Lele Mora, tuttora detenuto proprio per l'inchiesta sul fallimento della sua società «Lm management» che per anni ha gestito l'immagine di numerosi personaggi dello spettacolo. E, si è scoperto poi, serviva a reclutare le ragazze da portare ad Arcore e a Villa Certosa.
La segnalazione è arrivata in Italia alla fine dello scorso gennaio. A chiedere l'intervento delle autorità di controllo è stato un dipendente della banca che evidenzia un episodio risalente alla fine di dicembre, circa tre mesi fa. Nella denuncia racconta che Emilio Fede, accompagnato in macchina da un'altra persona, si è presentato presso la filiale dell'istituto di credito di Lugano con la valigetta piena di contanti, ma che è dovuto rientrare in Italia perché i responsabili della banca non hanno ritenuto opportuno accettare la somma. Una decisione presa, presumibilmente, tenendo conto dei problemi avuti in precedenza con i magistrati italiani e della necessità di fornire spiegazioni.
Nonostante le autorità svizzere abbiano sempre assicurato la massima collaborazione in ambito giudiziario, gli istituti di credito preferiscono mantenere alto il livello di riservatezza per proteggere i propri clienti. Dunque è possibile che dopo il clamore mediatico suscitato dalle vicende che hanno coinvolto Fede nei mesi scorsi abbiano deciso di respingere le sue richieste. Pur di fronte a un investimento molto alto.
La scorsa estate, dopo una richiesta di rogatoria sollecitata dai pubblici ministeri lombardi Eugenio Fusco e Massimiliano Carducci era stato infatti interrogato il funzionario della Bsi di Lugano Patrick Albisetti, l'uomo che si era occupato di gestire i depositi di Mora e le richieste di contanti dello stesso Fede.
In quell'indagine il giornalista è stato accusato di aver trattenuto per sé un milione e duecentomila euro dei 2 milioni e ottocentomila che Berlusconi avrebbe fatto avere a Mora attraverso il suo tesoriere Giuseppe Spinelli. Una «cresta» che il direttore del telegiornale di Rete4 ha sempre cercato di negare, sia pur con scarso successo di essere creduto.
Albisetti aveva rivelato che nell'aprile 2010 Fede si presentò in banca e chiese di prelevare 500 mila euro, ma gliene furono consegnati soltanto 300 mila e fu costretto ad aprire un conto dove depositare gli altri 200 mila che lui avrebbe poi provveduto a ritirare dopo qualche settimana.
Quel deposito era stato denominato «Succo d'agave» e quando i pubblici ministeri gli chiesero spiegazioni su quel deposito Fede fornì una versione poco comprensibile: «Io non avrei voluto aprirlo perché per me avere un conto all'estero era un rischio e un fastidio». Qualcuno lo aveva obbligato? Ora ci sono questi altri soldi comparsi in Svizzera. Dopo aver ricevuto la segnalazione sono stati avviati i controlli sugli spostamenti del giornalista per verificare che fosse proprio lui ad aver chiesto di effettuare l'operazione, ma soprattutto per scoprire l'origine del denaro. Da chi li ha avuti? E ne ha denunciato il possesso al fisco? Chi c'era con lui in quell'auto nel viaggio da Milano a Lugano? A questi interrogativi dovranno rispondere gli investigatori delle Fiamme Gialle che poi, in caso di mancata dichiarazione, dovranno inoltrare gli atti alla magistratura per i reati di evasione fiscale e tentata esportazione di capitali all'estero visto che la somma supera la soglia consentita per la semplice segnalazione amministrativa.
In passato Emilio Fede aveva sostenuto che ad occuparsi del suo conto era una sua amante cubana che era stata incaricata di prelevare la somma e portarla in Italia. Una versione ritenuta «non credibile» dai magistrati.

V per vendetta



« I popoli non dovrebbero temere i propri governi: sono i governi che dovrebbero temere i propri popoli. »


 

lunedì 26 marzo 2012

APRE L'IKEA, BOOM DI RACCOMANDAZIONI. L'AZIENDA: "BASTA PRESSIONI DAI POLITICI"



PESCARA - Una lettera per chiedere di smetterla di mandare pressioni all'ufficio personale, indicando chi assumere. Così Ikea, che a breve aprirà una sede a San Giovanni Teatino, tra Chieti e Pescara, ha scritto una lettera ai politici locali chiedendo di interrompere il teatrino tutto italiano delle "segnalazioni", specialmente sotto le elezioni. A maggior ragione visto che, come riporta Abruzzo24, a spedire il curriculum sono stati in trentamila da tutto il Centro Sud, (i posti a disposizione sono 220).
A svelare il tranello dei politici locali è stato il segretario regionale dei Giovani Idv Giampiero Riccardo sul proprio profilo Facebook. Del resto sin dal primo insediamento in Abruzzo Ikea ha dovuto combattere con la mentalità clientelare locale, tanto che Alessandro Paglia, direttore di Ikea Italia, assicurò che i colloqui sarebbero avvenuti fuori dall'Abruzzo "per evitare possibili pressioni, raccomandazioni locali". 




http://www.leggo.it/news/cronaca/apre_ikea_boom_di_raccomandazioni_azienda_basta_pressioni_dai_politici/notizie/172791.shtml 

Il grande assente nel dibattito sulla riforma: il lavoro. - di Emilio Carnevali



Nell'Italia di oggi la priorità dovrebbe essere quella di creare posti di lavoro, non di facilitare i licenziamenti. Nel libro “Il lavoro prima di tutto” di Stefano Fassina una riflessione originale e appassionata sulla crisi e il futuro della sinistra. Una proposta utile anche per il dibattito in corso. Mai come in questi giorni in Italia si è parlato di lavoro. E presumibilmente si continuerà a farlo per un po', dal momento che è ancora lungo il percorso che attende la riforma del ministro Fornero. Potrebbe suonare come una buona notizia, vista la centralità che il tema dovrebbe assumere nella drammatica situazione sociale dell'Italia – e dell'intera Europa – con l'arrivo della seconda, gravissima recessione nel giro di quattro anni. 

Ma la notizia non è affatto buona, e non solo per la natura della riforma – nel complesso una cattiva riforma, a modesto parere di chi scrive – elaborata dal governo. Indipendentemente dalle possibili correzioni in sede parlamentare, sempre che tali correzioni riescano ad andare in porto, c'è un grande problema fin qui del tutto eluso che dovrebbe costituire la questione fondamentale in qualsiasi dibattito sul lavoro. È il problema che ha messo a fuoco, non senza una certa efficacia retorica, un grande vecchio del sindacalismo italiano come Pierre Carniti in una recente puntata de L'infedele di Gad Lerner: «Il problema del lavoro in Italia è la mancanza di lavoro. Il problema è della domanda e noi stiamo qui a discutere dell'offerta!». Parole cui hanno fatto eco quelle di un altro ex sindacalista come Sergio Cofferati pochi giorni dopo: «Il tema principiale è la crescita: siamo in piena recessione, aumenta la disoccupazione e la povertà e il governo Monti impegna le sue energie a discutere la riorganizzazione di una cosa che non c'è. Questa cosa che manca è il lavoro».

Carniti e Cofferati hanno ragioni da vendere. Di questo si dovrebbe innanzitutto discutete. O, quanto meno, anche di questo si dovrebbe discutere. 
In attesa che il dibattito pubblico possa riposizionarsi su un ordine di argomenti più ragionevole – prima che sia la sempre più stringente morsa della crisi dell'economia reale a condurcelo con le “cattive maniere” – non possiamo fare altro che raccogliere alcuni materiali utili. Fra questi c'è il libro di Stefano Fassina, responsabile economia del Partito democratico, intitolato “Il lavoro prima di tutto” (recentemente pubblicato dalla casa editrice Donzelli, pp.191, euro16,50). 

Il punto di partenza del libro è l'analisi della Grande Recessione scoppiata nel 2008 negli Stati Uniti e propagandatasi ben presto nell'intero Occidente. Due sono i “racconti ufficiali”, profondamente interconnessi fra loro, di questa crisi: da una parte ci sarebbe la finanza malata del mondo anglosassone, responsabile – attraverso la creazione di strumenti di credito sempre più sofisticati e l'esplosione di una componente puramente speculativa praticamente fuori controllo – dell'avvelenamento dell'economia reale e dell'amaro risveglio della classe media americana dal sogno della Ownership Society promessa da George W. Bush. Dall'altra parte, sul fronte europeo, si assisterebbe all'inevitabile collasso di un modello sociale – fondato su alta spesa pubblica, welfare universalistico, politiche fiscali fortemente redistributive e tutela dei diritti sui luoghi di lavoro – ormai incompatibile con i vincoli di competitività imposti dal mercato globale.

Si tratta di due racconti che Fassina contesta radicalmente, accusandoli di confondere le cause con le conseguenze: «Tra il 2007 e il 2008 si è rotto l'equilibrio, insostenibile sul piano macroeconomico, sociale e ambientale, promosso nel trentennio alle nostre spalle dal paradigma neoliberista. La causa di fondo della rottura non è la finanza. È la regressione del lavoro, dei padri e dei figli, e la conseguente impennata della disuguaglianza di reddito, di ricchezza, mobilità sociale e, inevitabilmente, potere economico, mediatico e politico. Il lavoro, innanzitutto il lavoro subordinato, in tutte le sue forme esplicite o mascherate, è l'epicentro del terremoto». In altre parole il castello della finanza e dell'indebitamento privato sarebbe stato proprio il dispositivo grazie al quale compensare la stagnazione dei salari reali del ceto medio americano negli ultimi trent'anni, sostenere così i loro consumi e, con essi, la domanda globale. Una stagnazione dei salari reali della working class coincisa con una colossale redistribuzione della ricchezza non solo dai salari ai profitti, ma anche all'interno della quota dei salari: fra il 1947 e il 1979 lo 0,1% dei lavoratori meglio pagati percepiva un reddito da lavoro pari a 20 volte il reddito del novantesimo percentile; nel 2006 la proporzione era salita a 77 volte. Sono numeri che conferiscono un non trascurabile significato analitico ad uno slogan apparentemente generico come quello dei ragazzi di Occupy Wall Street: noi 99%, voi 1%.

Sul fronte europeo, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, si sarebbe riprodotto un equilibro simile, in termini di insostenibilità, fra Paesi del centro (con la Germania, l'Olanda e l'Austria ad interpretare il ruolo di grandi esportatori assunto a livello globale dalla Cina) e paesi della periferia (Grecia, Spagna e Portogallo, ad assumersi il ruolo di “spugna assorbente”). Il tutto in presenza di una moneta unica che non permetteva recuperi di competitività attraverso la svalutazione nei paesi in deficit, e di una impennata della produttività non accompagnata da una proporzionale crescita dei salari reali (e quindi del costo del lavoro per unità di prodotto) nei paesi in surplus. 

È una tesi sulle cause profonde dell'attuale crisi che non è possibile rintracciare nei documenti ufficiali dei vertici europei egemonizzati dal governo conservatore di Angela Merkel, ma che si trova in grande sintonia, ad esempio, con le analisi del più autorevole columnist del Financial Times, Martin Wolf: «I tedeschi individuano fideisticamente nei peccati del debito pubblico l'origine della crisi. Hanno buone ragioni per crederci. Se accettassero la verità, dovrebbero ammettere di aver avuto rilevanti responsabilità nell'infelice situazione in corso», ha scritto Wolf lo scorso 7 dicembre. Il vero punto cruciale sarebbe l'aggiustamento degli squilibri commerciali: in assenza di questi, «i continui tagli al deficit sui paesi più fragili causeranno lunghe e profonde recessioni». L'unica via di uscita, se si esclude l'abbandono dell'euro da parte dei paesi della periferia, risiede nella ripresa dell'economia dell'eurozona tramite politiche di segno nettamente contrario rispetto a quelle fin qui adottate; e la responsabilità ricade in primo luogo su chi è nelle condizioni di svolgere il ruolo di motore europeo della domanda. 

Da qui l'enfasi che Fassina ripone per tutto il libro sulla necessità e la possibilità di una svolta a sinistra dell'Europa a partire dalla vittoria in Francia del candidato socialista François Hollande. Essa dovrebbe segnare una discontinuità immediata con i governi conservatori attualmente predominanti nel vecchio continente, ma anche con l'orizzonte strategico del precedente ciclo di governo di centrosinistra (seconda metà degli anni Novanta). La questione del lavoro diventa allora non solo base dell'analisi, ma fondamento della proposta. Non poche critiche sono indirizzate nel libro verso «i soliti avanguardisti del riformismo» che vedono nella «modernità secondo Marchionne l'unica modernità possibile».

La grande sconfitta della sinistra, preparata da una débâcle culturale prima ancora che politica, sarebbe maturata con la rinuncia alla rappresentanza degli interessi legittimi del lavoro subordinato in tutte le sue forme a favore di un «interclassismo socialmente devertebrato». La “questione settentrionale”, ad esempio, è stata spesso evocata dai pasdaran del nuovismo riformista come il segnale lampante dell'incapacità da parte della sinistra tradizionale di parlare ai settori più avanzati e dinamici del paese, al popolo delle partite Iva e della piccola impresa. Tuttavia, senza trascurare la necessità di una intelligente strategia delle alleanze, è bene ricordare che in Italia i lavoratori subordinati sono 17,5 milioni su poco più di 23 milioni di occupati; e la maggioranza dei lavoratori dipendenti privati (il 60% circa) risiede proprio al Nord: anche nel ricco e “mitico” Nord Est 3 lavoratori su 4 sono lavoratori dipendenti. 

È vero che con la crisi, quando le aziende chiudono, imprenditori e lavoratori sono sulla stessa barca. Ma quando la crisi non c'era e la ricchezza si spostava sempre più rapidamente dai salari ai profitti, quando le imprese puntavano tutto sulla riduzione dei costi e non sull'innovazione e la ricerca, perché la sinistra ha rinunciato ad offrire un punto di vista autonomo? Rispondere a questa domanda è tanto più urgente se si considera che il populismo delle destre ha, a suo modo, fornito una alternativa al crescente disagio che montava dalle “periferie sociali” del paese: Fassina la chiama «redistribuzione territoriale e interaziendale del reddito». In sostanza territori più forti (vedi il sindacalismo localistico di forze come la Lega Nord) e aziende più forti (vedi la battaglia sulla contrattazione di secondo livello e la manomissione del contratto nazionale promossa dal ministro Sacconi) contro territori e realtà produttive più deboli.

Tuttavia la posizione neo-laburista del responsabile economia del Pd non si può nemmeno sovrapporre a quella “antagonista” che caratterizza pezzi consistenti della sinistra politica e sindacale. Il discrimine è, anche qui, “di analisi” prima ancora che di “programma”. Con riferimento alla vicenda della Fiat, Fassina – che è sempre stato fra i più solidali, all'interno del suo partito, con le tute blu guidate da Landini – scrive: «La Fiom non sembra cogliere fino in fondo lo sbilanciamento dei rapporti di forza nella fabbrica, nella società, nella politica, sopratutto in una fase di drammatica carenza di lavoro e diffusa insicurezza». I metalmeccanici della Cgil sperano di compensare questa debolezza attraverso una sempre più spiccata “politicizzazione” del sindacato e il coinvolgimento dei movimenti (vedi l'alleanza con i No Tav). Ma è un fatto difficilmente controvertibile, purtroppo, che le lotte di “resistenza" fin qui messe in campo hanno fatto registrare un differenziale enorme fra capacità di mobilitazione e risultati concreti ottenuti. Senza la politica, sostiene Fassina, senza l'ambizione di bypassare rapporti sociali oltremodo sfavorevoli tramite un'idea complessiva di Paese – e la capacità di trovare interlocutori adatti a dargli delle gambe sulle quali camminare –, si rischia la risorgenza del populismo e la continuazione di quello “smottamento” del mondo del lavoro che ha caratterizzato gli ultimi 30 anni.

Il governo Monti, all'interno di questa logica, dovrebbe rappresentare l'inevitabile fase di transizione verso l'alternativa, nella consapevolezza che se da una parte non è possibile sottrarsi ai vincoli imposti dall'emergenza finanziaria da cui quel governo è nato, è tuttavia necessario non rinunciare ad una indipendenza di giudizio e di iniziativa da parte delle forze che si candidano alla rappresentanza del mondo del lavoro. Difficile inserirsi nella scia di una possibile svolta europea se in Italia si è catturati da dinamiche di governo che lasciano dietro di sé macerie sociali. E questo è il grande problema che la proposta di Fassina – e di chi come lui, dentro il Pd, si oppone alla deriva neocentrista e tecnocratica del principale partito della sinistra italiana – si trova di fronte. Ma è un problema che nessuna analisi macroeconomica, nessun grafico, nessuna tabella potrà risolvere. Serve la lotta politica. 



http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-grande-assente-nel-dibattito-sulla-riforma-il-lavoro/