giovedì 30 gennaio 2020

‘Ndrangheta, “se vi dico che ho problemi, domani sono morto”: nelle parole ai pm la paura degli imprenditori. Poi la scelta di denunciare. - Lucio Musolino

‘Ndrangheta, “se vi dico che ho problemi, domani sono morto”: nelle parole ai pm la paura degli imprenditori. Poi la scelta di denunciare

Ci sono anche le storie delle vittime sotto scacco del clan Labate nell'operazione “Helianthus”, della procura di Reggio Calabria. Al centro dell'inchiesta c'è la cosca che decideva ogni cosa al Gebbione, il quartiere di Reggio tra il torrente Sant’Agata e il torrente Calopinace. Prima davanti ai magistrati facevano resistenza, terrorizzate "al solo pensiero di dover pronunciare” il nome del boss. Poi hanno raccontato con le lacrime agli occhi le estorsioni subite. Il gip: "Dopo anni di omertoso silenzio, hanno finalmente deciso di rialzare la testa e di ribellarsi all’imposizione mafiosa.”
“Dottore, se io le dico che avevo problemi, io domani sono morto!”. E poi: “Dottore, vedete che poi non torniamo più a casa“. E ancora: “Se vi dico che non torniamo più, non torniamo! Sentite che vi dico…omicidio”. Piangevano, davanti ai pm raccontavano con le lacrime agli occhi che quel nome, il nome del boss al quale dovevano chiedere il permesso per lavorare, loro non avevano intenzione di farlo. “Se vi dico che mi ammazzano dottore! Questi qua sono pazzi, non hanno niente da perdere”. “Ve lo dico sinceramente dottore, con il cuore in mano… sono due mesi che non dormo”. Alla fine, però, hanno trovato il coraggio di denunciare. E raccontare ai magistrati anni di minacce, estorsioni e taglieggiamenti. “L’impresa viene taglieggiata nel momento in cui viene ad iniziare un cantiere. Questa purtroppo nella nostra città è una prassi scontata“. L’alternativa? “La maggior parte delle imprese devono subire oppure rischiare in pratica ritorsioni oppure rischiare la vita”Ci sono anche le storie degli imprenditori sotto scacco della ‘ndrangheta nell’operazione “Helianthus”, coordinata dal procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri e dai pm Stefano Musolino e Walter Ignazitto. Al centro dell’inchiesta c’è la cosca Labate: 14 gli arrestati citati nell’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal gip Pasquale Laganà e notificata in carcere al boss Pietro Labate. Con l’accusa di associazione mafiosa ed estorsione, la squadra mobile ha arrestato pure Orazio Assumma, il braccio destro del boss che decideva ogni cosa al Gebbione, il quartiere di Reggio tra il torrente Sant’Agata e il torrente Calopinace.
L’inchiesta contro i “Ti mangio” – Le porte del carcere si sono spalancate pure per il cognato del boss, Rocco Cassone, Santo Gambello, Antonio Galante, Caterina Cinzia Candido, Francesco Marcellino, Fabio Morabito, Domenico Foti e Domenico Pratesi. In manette sono finite anche le nuove leve dei “Ti Mangiu”: i due omonimi Paolo Labate, di 38 e 36 anni, cugini e figli rispettivamente di Pietro e Nino Labate. Nei confronti di quest’ultimo, che si trova ricoverato in una struttura sanitaria, il gip ha disposto gli arresti domiciliari, così come per Santo Antonio Minuto detto “U Ceduzzu”. Ritenuto vicino alla cosca, Minuto gestisce una pescheria ed è accusato di essersi rivolto a Fabio Morabito e a Nino Labate per impedire a due fratelli di aprire un’altra pescheria nelle vicinanze. L’inchiesta Secondo il gip Pasquale Laganà, gli imprenditori che hanno denunciato il boss, “dopo anni di omertoso silenzio, hanno finalmente deciso di rialzare la testa e di ribellarsi all’imposizione mafiosa”. Durante la conferenza stampa, il procuratore Bombardieri non ha dubbi: “Gli imprenditori hanno dimostrato di voler fare questo salto di qualità e denunciare le cosche. Devono sapere che noi ci siamo e lo Stato c’è”. Nelle carte dell’inchiesta si riassume il percorso che ha portano molti di loro a ribellarsi al pizzo.
L’estorsione: “Sei uno scostumato” – È il 25 ottobre 2019 quando ai pm Musolino e Ignazitto l’imprenditore Francesco Presto racconta, con le lacrime agli occhi, la visita ricevuta dal boss Pietro Labate e dal suo uomo di fiducia, Orazio Assuma. “Sei uno scostumato” si è sentito dire dal boss e dal suo luogotenente che un giorno si erano presentati al cantiere dove la sua azienda edile stava costruendo un complesso immobiliare nel quartiere Gebbione, considerato il feudo dei “Ti mangiu”, come sono soprannominati i Labate. “Mi hanno rimproverato, mi hanno preso a male parole – ha spiegato Presto – mi hanno detto che sono andato a casa loro, che prima che andavo là gli dovevo chiedere il permesso, che sono scostumato, avete capito che mi hanno detto? Perché uno gli deve chiedere pure il permesso per lavorare, avete capito? Siamo in queste condizioni, avete capito? Che gli dovevo chiedere il permesso…che il lavoro era loro, che dovevano farlo loro, che loro si erano accaparrati il lavoro da prima… gli ho detto io ‘Ma scusate io vi sto offrendo il lavoro?’ dice ‘No tu stai zitto! Sei uno scostumato!… dice che gli dovevo dare 200mila euro ‘se fate il lavoro e se non lo fate’”.
L’imprenditore ai pm: “Vi affido la mia famiglia” – Prima di raccontare ai pm le angherie subite, l’imprenditore fa qualche resistenza. Ha paura di essere ucciso, teme per i suoi parenti, piange e lo dice senza mezzi termini. Le sue parole sono la “dimostrazione plastica” del terrore che i Labate provocano nella zona sud di Reggio Calabria: “Dottore ma se io le dico che avevo problemi, io domani sono morto! Se vi dico che mi ammazzano dottore! Questi qua sono pazzi dottore, non hanno niente da perdere… vedete che non torniamo più a casa! Se vi dico che non torniamo più, non torniamo! Sentite che vi dico…omicidio”. La Procura insiste e Presto, prima di parlare, si rivolge ai magistrati con una richiesta: “Vi affido la mia famiglia”. Per i pm, Francesco Presto è “letteralmente terrorizzato al solo pensiero di dover pronunciare” il nome del boss. Il pm Musolino lo convince a fidarsi: “Non vi preoccupate, state tranquillo, ditemi tutto quello che dovete dire, la libertà vera vi viene da questa cosa qua e vi garantisco che lo potete fare. Non vi preoccupate, ce le sappiano gestire, vogliamo che restate a Reggio e che lavorate a Reggio Calabria”.
“Non ho dormito per mesi” – Solo dopo essere stato tranquillizzato dal sostituto della Dda, l’imprenditore capisce che è arrivato il momento di alzare la testa e spiega ai pm cosa è successo nel suo cantiere quando sono iniziati i lavori per il complesso residenziale. Un giorno all’improvviso da un garage è spuntato il boss Pietro Labate. “Forse era pure latitante, non ricordo, ho avuto paura… sono rimasto. – racconta l’imprenditore costretto a pagare il pizzo – Dottore io non ho dormito per mesi, non è una cosa che uno può accettare però non avevo altre cose da fare, il cantiere era iniziato… Ma come si torna indietro? Come si torna indietro? Che devo fare? E ho dovuto pagarli, dargli i soldi… veniva il signor Assumma a prenderseli… sempre lui, anzi il signor Labate mi ha detto che glieli dovevo dare solo a lui”.
“Così funziona il pizzo a Reggio Calabria” – Le minacce sono sempre le stesse, e vengono registrate dalle cimici della squadra mobile di Reggio Calabria, diretta da Francesco Rattà: “Tu come fai, come ti permetti”. “Qua mi devi dare conto… qua non ne fai né tu e neanche il padre eterno”. Le carte dell’inchiesta raccontano come il clan controllasse un pezzo di città: per muovere un mattone, aprire un negozio o semplicemente respirare, nel quartiere Gebbione serviva quello che i pm definiscono il “nulla osta” dei Labate. I “Ti mangiu” lo hanno preteso anche dall’imprenditore Francesco Berna, coinvolto l’estate scorsa nell’operazione Libro nero contro la cosca Libri. Ai pm, Berna ha raccontato come “Vecchia Romagna”, il soprannome di Domenico Foti, ha costretto lui e il suo socio, l’imprenditore Francesco Siclari, “a pagare a titolo di “pizzo” la somma di 20mila euro” per i lavori di un complesso immobiliare ricadente nella zona di influenza dei Labate. “L’impresa – fa mettere Berna a verbale – viene taglieggiata nel momento in cui viene ad iniziare un cantiere… cioè questa purtroppo nella nostra città è una prassi scontata, cioè non esiste, può esistere il piccolo lavoretto che non… va sotto… che passa sotto traccia, nel senso che nessuno si avvicina… ma se si tratta di cantieri dove ci sono fabbricati da realizzare o lavori pubblici da fare, difficilmente in pratica uno riesce a scappare al tentativo di estorsione, all’estorsione vera e propria… La maggior parte delle imprese devono subire oppure rischiare in pratica ritorsioni oppure rischiare la vita. Dipende dai rapporti che ci sono con i soggetti… chi è il soggetto che ti viene davanti, no? E si presenta”.
“La mattina ho paura a uscire di casa” – Convocato in Procura, l’imprenditore Francesco Siclari dice di non aver mai ricevuto richieste di denaro da parte dei Labate. Come Presto, anche lui ha paura e, in un primo momento, nega quanto dichiarato dal suo socio Francesco Berna. Poi però si fa coraggio e, ai due pm che lo interrogano, racconta come sono andate le cose: “Un giorno dice Francesco (Berna, ndr) ‘sai qua sicuramente saremo costretti a pagare un caffè’”. Il realtà, il “caffè” era il pizzo preteso dai Labate. Come ha spiegato il responsabile della sezione Reati contro il patrimonio della squadra mobile Giuseppe Izzo, i “Ti Mangiu erano in grado di costringere chiunque a consegnare loro il denaro”. “Abbiamo dato 20mila euro… io ho un nodo qua dottore. La pretesa era più alta…era 30mila euro… Dal 31 luglio ad oggi, tremo… io la mattina ho paura di uscire di casa. Prima che esco mi affaccio dal balcone, guardo la macchina, mi sveglio di notte e tutta una serie di cose perché ho pensato ‘ora questi da chi vengono?’ Da me. Ve lo dico sinceramente dottore, con il cuore in mano… sono due mesi che non dormo”.

Caso Foodora: la Cassazione difende i rider, la politica i loro padroni. - Alessandro Somma



Dopo tre anni di battaglia legale, i rider di Foodora ottengono finalmente giustizia: sono lavoratori subordinati, e non autonomi come vuole la piattaforma. Si tratta di una vittoria significativa, di un segnale importante per il capitalismo digitale e per la voracità con cui punta allo sfruttamento del lavoro. È però un segnale debole, perché al coraggio dei giudici corrisponde l’inadeguatezza della politica, se non la sua complicità con i nuovi padroni, a beneficio dei quali ha edificato e presidiato il quadro delle regole entro cui hanno potuto prosperare. Regole che si avviano a divenire il punto di riferimento per una complessiva riforma del lavoro sempre più ridotto a merce.

Il coraggio dei giudici.
Nel 2017 alcuni fattorini addetti alla consegna di pasti, i cosiddetti rider, chiedono al Tribunale di Torino di riconoscere la loro condizione di lavoratori subordinati. Foodora, il loro datore di lavoro, sostiene però che i rider sono lavoratori autonomi in quanto per le consegne non utilizzano mezzi messi a disposizione dall’impresa: la bicicletta e lo smartphone sono di loro proprietà. Inoltre non hanno alcun obbligo contrattuale di rispondere alle chiamate: sono come i Pony Express degli anni Novanta[1], che la Corte di Cassazione aveva negato fossero lavoratori subordinati facendo leva proprio su questo aspetto[2].

Il Tribunale decide a favore di Foodora[3], motivo per cui i rider impugnano davanti alla Corte d’appello di Torino, che accoglie in parte le loro richieste. I giudici non riconoscono i rider come lavoratori subordinati, in quanto manca tra essi e il loro datore una relazione di “potere gerarchico disciplinare”, e tuttavia non ritengono che essi siano pienamente lavoratori autonomi. Appartengono a un terzo genere, quello dei lavoratori autonomi “etero-organizzati”, a cui un recente provvedimento riserva un trattamento particolare in quanto, pur non essendo subordinati, neppure sono liberi da condizionamenti: forniscono “prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. A queste condizioni, stabilisce il provvedimento, “si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato”[4]. Non però tutta la disciplina, ma solo alcuni aspetti comunque importanti: secondo i giudici l’estensione non vale per le norme sul licenziamento, mentre vale per quelle su “sicurezza e igiene, retribuzione diretta e differita (quindi inquadramento professionale), limiti di orario, ferie e previdenza”. Il che porta nel nostro caso ad applicare i livelli salariali previsti dal Contratto collettivo nazionale della logistica[5].

La decisione d’appello viene impugnata da Foodinho, che nel frattempo ha acquisito Foodora[6] e si rivolge alla Corte di Cassazione chiedendo di decidere nel senso già indicato dal Tribunale di Torino. La Corte ha appena reso la sua decisione, vien da dire a soli due anni e mezzo dal ricorso che ha originato il primo grado di giudizio, accogliendo le richieste dei rider ben oltre quanto aveva fatto la Corte d’appello di Torino.

I giudici di legittimità hanno innanzi tutto inquadrato la filosofia di fondo che ispira i più recenti interventi in materia di lavoro alla luce delle recenti “innovazioni tecnologiche”. Hanno per un verso evidenziato un favore per l’estensione del contratto di lavoro subordinato e a tempo indeterminato come “forma contrattuale comune”[7], e per un altro rilevato la tendenza a colpire gli abusi di chi punta a impedire il riconoscimento della subordinazione ricorrendo a espedienti: ad esempio far apparire autonomo il lavoratore comunque qualificato che subisce “l’ingerenza funzionale dell’organizzazione predisposta unilateralmente da chi commissiona la prestazione”.

Più precisamente i giudici distinguono tra “autonomia del lavoratore nella fase genetica del rapporto”, ovvero la loro libertà di rispondere o meno alle chiamate, e autonomia nella “fase funzionale di esecuzione del rapporto”, ovvero nel momento in cui hanno accettato la chiamata. E proprio di questa seconda autonomia non si trova traccia nell’attività dei rider, che sono tenuti a pagare una penale se non consegnano il cibo entro un termine definito, e che sono inoltre obbligati ad assolvere a compiti specifici: come sostare in punti prestabiliti per attendere gli ordini, controllare la corrispondenza tra l’ordine ricevuto e il cibo ritirato dal ristorante e notificare l’avvenuta consegna. A queste condizioni il rapporto di lavoro del rider non può considerarsi di un tipo intermedio tra l’autonomo e il subordinato: è direttamente subordinato perché presenta le caratteristiche che il legislatore ha inteso valorizzare “in una prospettiva anti-elusiva”, ovvero per colpire le condotte dei datori di lavoro intenzionati ad aggirare le tutele ricondotte al vincolo di subordinazione. Con il risultato che ai rider non si applicano solo alcune disposizioni in materia di lavoro subordinato: essi beneficiano “della disciplina integrale del lavoro subordinato”[8].

L’inadeguatezza della politica

Le argomentazioni della Corte di Cassazione appaiono decisamente forzate laddove identificano una volontà del legislatore di tutelare il lavoro subordinato a tempo indeterminato, se non altro perché la ricavano dal Jobs Act: non certo un baluardo per la tutela dei lavoratori. La forzatura è però un espediente retorico utile a produrre un risultato di tutto rispetto dal punto di vista di chi vuole contrastare l’attacco al lavoro che caratterizza le politiche degli ultimi decenni. E che ha visto proprio nel Jobs Act un simbolo dell’attuale involuzione, ben rappresentato dalla sostanziale abolizione della reintegra dei lavoratori licenziati senza giusta causa: come un tempo previsto dal celeberrimo art. 18 Statuto dei lavoratori.

Il tutto mentre si è oramai affermato quanto viene definito in termini di capitalismo delle piattaforme: il capitalismo potenziato dall’utilizzo delle tecnologie digitali, nel quale la piattaforma si manifesta come nuova forma di impresa e i suoi dipendenti come i nuovi sfruttati. Mettendo così in luce la sostanza di quanto viene rappresentato come la marcia verso un radioso futuro di progresso: in realtà una rovinosa regressione verso un ordine economico e un mercato del lavoro di tipo ottocentesco[9].

Sarebbe in effetti bastato concentrarsi sull’uso delle tecnologie da parte delle piattaforme per far emergere il lavoro dei rider come un lavoro di tipo subordinato, oltretutto con caratteristiche se possibile più marcate di quelle che caratterizzano la tradizionale relazione di lavoro. Si sa infatti che le piattaforme utilizzano algoritmi per gestire ogni singolo aspetto del servizio offerto, inclusi evidentemente i rapporti con i rider. Con il risultato che questi possono formalmente rifiutare le chiamate, ma di fatto la scelta se e quando farli lavorare dipende dalla loro incondizionata disponibilità al servizio, oltre che dalla velocità di esecuzione e magari dalle valutazioni dei clienti, verificate attraverso un penetrante sistema di controllo: tanto da ritenerlo un vero e proprio taylorismo digitale[10].

Se così stanno le cose, la politica dovrebbe intervenire per incidere in profondità sul modo di intendere e disciplinare il lavoro, per restituirgli la funzione attribuitagli dalla Costituzione. Lì rappresenta il fondamento del patto di cittadinanza, per cui attraverso il lavoro si assolve al dovere di “svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4), e si ottiene in cambio una retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36), oltre al “pacco standard di beni e servizi il cui possesso” rende il lavoratore “un cittadino nella pienezza delle sue prerogative”[11].

Invece la politica rincorre le trasformazioni del capitalismo, spesso per assecondarle e più raramente per contrastarle con provvedimenti del tutto inadeguati alla sfida posta del mercato e dai suoi operatori affamati di profitto: in parte perché non incidono in modo significativo sul fenomeno che intendono disciplinare, e in parte perché giungono di norma fuori tempo massimo. Per non dire dei casi in cui si annunciano con grande enfasi provvedimenti destinati a restituire dignità al lavoro, riposti però nel cassetto dopo aver constatato la contrarietà delle imprese, e deciso di non fare nulla per opporvisi. Come nella vicenda del cosiddetto decreto dignità voluto dall’allora Ministro del lavoro Luigi di Maio, che in un primo momento comprendeva una disposizione di questo tenore: è lavoratore subordinato “chiunque si obblighi, mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale, alle dipendenze e secondo le direttive, almeno di massima e anche se fornite a mezzo di applicazioni informatiche, dell’imprenditore, pure nei casi nei quali non vi sia la predeterminazione di un orario di lavoro e il prestatore sia libero di accettare la singola prestazione richiesta, se vi sia la destinazione al datore di lavoro del risultato della prestazione e se l’organizzazione alla quale viene destinata la prestazione non sia la propria ma del datore di lavoro”[12].

Recentemente il legislatore ha invece inteso allineare la disciplina del lavoro a quanto stabilito dalla Corte d’appello di Torino, escludendo così la possibilità di considerare i rider lavoratori subordinati a tutti gli effetti. Un provvedimento ha in effetti ampliato le ipotesi in cui si estende al lavoro autonomo la disciplina del lavoro subordinato, definite con esplicito riferimento al lavoro digitale, ovvero ai casi in cui “le modalità di esecuzione della prestazione” lavorativa “siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”. Come sappiamo, l’estensione riguardava prima “prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Ora le prestazioni di lavoro devono essere solo “prevalentemente personali” e inoltre non si fa più riferimento alla necessità che il lavoro sia etero-organizzato con specifico riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro[13]. Da rilevare che qui si intende il lavoro digitale in genere e quindi non solo quello svolto dai rider, ma che l’equiparazione non coinvolge la tutela in caso di licenziamento, e ovviamente la garanzia delle libertà sindacali e del diritto di sciopero.

Lo stesso provvedimento si è poi occupato di “lavoro tramite piattaforme digitali” nei casi in cui non ricorrono gli estremi per la parziale estensione della disciplina del lavoro subordinato. Qui non ci si rivolge però ai lavoratori delle piattaforme in genere, bensì solo ai “lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore” assimilati: i soli rider. A questi ultimi si riconoscono alcune prerogative importanti, come il diritto alla “copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali” e il divieto di retribuzione a cottimo: i rider “non possono essere retribuiti in base alle consegne effettuate e ai medesimi lavoratori deve essere garantito un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale”[14].

La complicità della politica.
Si dirà che queste misure sono forse inadeguate e destinate a incidere su una frazione minima del mondo del lavoro sconvolto dalla digitalizzazione, ma che comunque vanno nella direzione giusta: preludono a un possibile cambio di rotta. Sono però misure che necessitano sovente di numerosi interventi per renderle efficaci o addirittura applicabili: come nel caso delle tutele assicurative, che richiedono ulteriori precisazioni per poter finalmente incidere sulla vita dei rider.

Il punto però è un altro. Quella digitale si presenta come una tipologia di lavoro sottoposta a forme di controllo particolarmente penetranti, in quanto tale chiaramente rientrante nello schema della subordinazione. Evitare di riconoscerlo significa impedire l’attivazione delle tutele accordate ai tradizionali rapporti di lavoro: le tutele individuali, quelle previste in caso di licenziamento in testa, ma anche e soprattutto quelle collettive. Il mancato riconoscimento della subordinazione impedisce cioè ai lavoratori digitali di accedere all’organizzazione e alla lotta sindacale, contribuendo così a mantenerli in uno stato di cronico e irrimediabile isolamento di fronte al mercato. A condannarli a reagire in modo automatico agli stimoli di questo: a subire la legge del libero incontro di domanda e offerta di lavoro, senza poter opporre alla logica della concorrenza quella della giustizia sociale.

Il lavoro digitale senza il riconoscimento della subordinazione è insomma un lavoro spoliticizzato, incapace di alimentare il conflitto redistributivo, plasmato a immagine e somiglianza di un ordine economico che degrada l’inclusione sociale a inclusione nel mercato. Un lavoro elevato a punto di riferimento per il complesso delle riforme che non riguardano i soli settori più direttamente interessati dallo sviluppo tecnologico: la miseria del lavoro digitale simboleggia e anticipa la miseria del lavoro in una società nella quale il circuito della politica si è condannato ad assecondare i desiderata provenienti dal circuito dell’economia. Una società plasmata da leggi dello Stato ricalcate sulle leggi del mercato, spesso ottenute con il ricorso alla violenza e all’illegalità, come ampiamente documentato dalle vicende che hanno riguardato il settore del trasporto pubblico non di linea sconvolto dalle pratiche della piattaforma Uber[15].

Il tutto mentre il ricatto occupazionale viene incentivato anche dalla libera circolazione dei fattori produttivi, vero e proprio mantra posto a fondamento dell’ordine economico. È la libera circolazione dei capitali a rappresentare il rischio maggiore, dal momento che consente e anzi incentiva aperture e chiusure di imprese in funzione di quanto viene loro di volta in volta offerto dagli Stati. I quali alimentano così la spirale perversa di una competizione al ribasso tra chi attira più investitori abbassando i salari e le tutele del lavoro, oltre alla pressione fiscale sulle imprese, quest’ultima alla base del crescente ridimensionamento dei sistemi di welfare.

Per non dire poi della complicità che la politica mostra nel momento in cui asseconda le privatizzazioni e le liberalizzazioni, magari sul presupposto che in questo modo viene incrementata la concorrenza e con essa la qualità ed efficienza dei beni e dei servizi a beneficio dei consumatori. La concorrenza passa però dalla precarizzazione e svalutazione del lavoro e non anche dall’innovazione tecnologica, utilizzata semmai per moltiplicare i profitti delle imprese. Oppure per alimentare un’altra spirale perversa: quella per cui occorre abbattere il costo di beni e servizi per renderli accessibili a consumatori che sono allo stesso tempo lavoratori sempre più precari e impoveriti.

Insomma, il problema della politica non è solo l’inadeguatezza degli interventi volti a fronteggiare le trasformazioni del capitalismo, e a monte a comprenderli nella loro reale portata. Il problema della politica è la sua complicità con i nuovi volti del capitalismo, il costante allineamento alle sue mutevoli necessità, segno di uno Stato che ha deciso di stare dalla sua parte e di sacrificare il lavoro sull’altare di questa scelta di campo. Da questo punto di vista la decisione della Cassazione con cui si è riconosciuto al lavoro dei rider il carattere della subordinazione, è un notevole contributo a riaffermare le ragioni del lavoro. Resta però una goccia nel mare e quindi un contributo irrilevante se la politica non muterà rotta: se non lo farà subito, e se non lo farà in modo radicale.

NOTE

[1] V. S. Bonetto, Il caso Foodora, in A. Somma (a cura di), Lavoro alla spina e welfare à la carte. Lavoro e Stato sociale ai tempi della gig economy, Milano, 2019, p. 131 ss. Sergio Bonetto, assieme a Giulia Druetta, è l’avvocato che ha difeso i rider Foodora in tutti e tre i gradi di giudizio.

[2] Corte di Cassazione, 20 gennaio 2011 n. 1238.

[3] Tribunale di Torino, 7 maggio 2018 n. 778.

[4] Art. 2 decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81.

[5] Corte d’appello di Torino, 4 febbraio 2019 n. 26.

[6] Foodinho è stata poi ceduta a Gloovo.

[7] Formula utilizzata dall’art. 1 decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81.

[8] Corte di Cassazione, 24 gennaio 2020 n. 1663.

[9] A. Somma, Il diritto del lavoro dopo i Trenta gloriosi, in Lavoro e diritto, 2018, pp. 307 ss.

[10] S. Bellucci, E-Work. Lavoro, rete, innovazione, Roma, 2005.

[11] U. Romagnoli, Autonomia e subordinazione del diritto del lavoro, in Lavoro e dritto, 2016, p. 568.

[12] Disposizione ovviamente scomparsa dal testo approvato: decreto legge 12 luglio 2018 n. 87, convertito con modificazioni nella legge 9 agosto 2018 n. 96.

[13] Art. 1 decreto legge 3 settembre 2019, n. 101 così come convertito nella legge 2 novembre 2019 n. 128.

[14] Ibidem.


[15] E. Mostacci e A. Somma, Il caso Uber. La sharing economy nel confronto tra common law e civil law, Milano, 2016.

http://temi.repubblica.it/micromega-online/caso-foodora-la-cassazione-difende-i-rider-la-politica-i-loro-padroni/

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La politica va rinnovata, se non buttiamo fuori dal parlamento quella pletora di fancazzisti ignoranti, arroganti e corrotti, non avremo ciò che ci spetta di diritto, perchè è bene che si sappia: senza di noi il paese va in bancarotta, siamo noi a mantenere l'impalcatura, loro, i politi, sono solo dannose sanguisughe. C.

Wahrheit Macht Frei… La verità vi farà liberi. - Finian Cunningham

Risultato immagini per olocausto"

In occasione della Giornata della Memoria 2020, pubblichiamo un articolo di Strategic Culture che rimette ordine nei fatti storici del tempo. Sarebbe infatti opportuno che l’Europa non ricordasse del nazismo e dell’Olocausto solo ciò che le fa comodo, riscrivendo la storia di tutto il resto. Il tentativo recente da parte del governo polacco e dell’UE di attribuire all’Unione Sovietica parte della responsabilità dei crimini della Germania nazista è un insulto al popolo russo, che più di ogni altro ha pagato un prezzo — elevatissimo — per combattere e sconfiggere i nazisti, oltre ad avere materialmente liberato numerosissimi campi di concentramento, Auschwitz compreso. (Malachia Paperoga)

Ricorre questa settimana il settantacinquesimo anniversario della liberazione del campo di morte di Auschwitz dai nazisti ad opera dell’Armata Rossa sovietica. Ma l’evento epocale viene oscurato da nuovi tentativi da parte delle autorità polacche – supportate da funzionari americani e tedeschi – di scaricare la colpa della Seconda guerra mondiale sull’Unione Sovietica.

La famigerata massima tedesca “Arbeit Macht Frei” (“Il lavoro rende liberi”), che sormontava il cancello di ingresso metallico di Auschwitz, attraverso il quale milioni di prigionieri si avviarono verso la morte, potrebbe oggi essere sottotitolata con la frase più onesta “Wahrheit Macht Frei” (“La verità vi farà liberi”).

Perché quello che si sta verificando nella commemorazione di Auschwitz della Polonia, e più in generale nelle dichiarazioni sulle origini della Seconda Guerra Mondiale, è una spaventosa distorsione della storia per soddisfare gli attuali interessi geopolitici occidentali e danneggiare la Russia. Ma nascondere o negare le cause della guerra serve solo a condannare il mondo a ripeterla.
Anziché vedersi assegnato un posto d’onore in prima fila per la liberazione dei campi di sterminio nel sud della Polonia il 27 gennaio 1945, ad opera dell’Armata Sovietica, oggi Mosca viene messa a margine, nonostante il suo ruolo fondamentale nel distruggere il regime nazista e tutti i suoi orrori.

Sembra che il presidente Russo Vladimir Putin abbia declinato l’invito a presenziare al settantacinquesimo anniversario in Polonia. La Russia verrà rappresentata dal suo ambasciatore nel Paese. Putin sarà presente a un evento equivalente in Israele, e in quella commemorazione alternativa gli sarà riconosciuta la meritata importanza, per mettere in risalto i risultati ottenuti nella liberazione dal predecessore della Russia, l’Unione Sovietica. Possiamo capire le ragioni per cui il Presidente Russo ha deciso di non prendere parte all’evento in Polonia, a causa delle affermazioni tossiche fatte recentemente da Varsavia e da altri stati occidentali sulle accuse rivolte all’Unione Sovietica di essere stata collusa con la Germania nazista nell’istigare la guerra.

Questa distorsione della storia ha persino ottenuto uno status ufficiale quando il Parlamento europeo – a seguito di pressioni da parte degli stati Baltici e della Polonia – ha adottato una risoluzione, lo scorso settembre, in cui l’Unione Sovietica viene dichiarata colpevole come il Terzo Reich Nazista per aver dato inizio alla Seconda Guerra Mondiale.

Quando il presidente Putin ha liquidato la risoluzione come una “sciocchezza” e ha proseguito sottolineando la collaborazione documentata della stessa Polonia con la Germania nazista, l’attuale governo polacco, insieme ai diplomatici tedeschi e americani, hanno raddoppiato le accuse verso Mosca, imputandole di avere una parziale responsabilità nell’esplosione della peggiore conflagrazione della storia.

Queste accuse occidentali e polacche hanno origine dallo storico patto di non aggressione firmato tra nazisti e sovietici il 23 agosto 1939, una settimana prima che i nazisti invadessero la Polonia. Si sostiene quindi che la distensione tra Stalin e Hitler abbia incoraggiato quest’ultimo a dare il via alla guerra.

Come ha riferito Radio Free Europe: “L’inviato tedesco Rolf Nikel e l’ambasciatore USA in Polonia Georgette Mosbacher hanno entrambi dichiarato il 30 dicembre che la Germania e l’Unione Sovietica hanno colluso, nel 1939, per iniziare la guerra che avrebbe portato alla morte di decine di milioni di persone nell’Europa continentale”.
Il Primo ministro polacco Mateusz Moraweicka ha denunciato la versione della storia di Putin come “falsa… che calpesta la memoria di tali eventi. La Polonia deve difendere la verità, non per i propri interessi, ma per il bene di ciò che definisce l’Europa”.

Si tratta di un esempio di distorsione della storia quanto mai audace.

Le ragioni di questa riscrittura sono ovvie. La Germania può così scaricare parte della sua colpa riguardo alla guerra che ha terrorizzato l’Europa con il genocidio fascista.

Coinvolgendo i Sovietici nell’orrore nazista, gli americani e i loro surrogati di destra in Polonia e negli stati Baltici possono rianimare le loro invenzioni fiacche e stantie su una “aggressione russa” verso l’Europa di oggi. Questo capovolgimento è particolarmente disprezzabile, se consideriamo che l’Unione Sovietica soffrì più di ogni altra nazione la barbarie nazista, con più di 25 milioni di morti e decine di milioni di feriti.

La Polonia è forse quella che ha più da guadagnare dalla falsificazione della storia. Il suo stesso vergognoso passato di collusione col regime nazista prima e durante la guerra verrebbe, si prevede, cancellato e scaricato nel dimenticatoio della storia.

Ironia della sorte, tutti coloro che si accodano alla denigrazione della Russia per la presunta complicità sovietica con la Germania nazista sostengono che Putin sta “riscrivendo la storia” , facendo riferimento ai documenti sovietici e alla propaganda.

Uno dei migliori resoconti accademici del periodo dalla Prima guerra mondiale fino alla fine degli anni ’30 e allo scoppio della guerra è l’opera dello storico britannico A. J. P. Taylor, dal titolo ‘Le origini della Seconda Guerra Mondiale’ (pubblicata nel 1961). Taylor non è un “compagno di viaggio” dell’Unione Sovietica. Il suo studio è un esercizio professionale di studio oggettivo.

La prospettiva russa è sostanzialmente appoggiata da Taylor (e da altri storici occidentali, vedi ad esempio questo recente saggio  di Michael Jabara Carley). Il patto di non aggressione nazista-sovietico alla vigilia dello scoppio della guerra fu un disperato tentativo di Mosca di tenere a bada il Terzo Reich. Dovuto al fatto che, come sottolinea Taylor, le potenze occidentali, in particolare la Gran Bretagna, la Francia e la Polonia, avevano costantemente respinto tutti gli appelli sovietici a stringere un patto collettivo europeo di sicurezza contro la Germania nazista.
Quando Hitler si annesse l’Austria nel 1936 e invase la Cecoslovacchia nel 1938, Gran Bretagna, Francia e Polonia si voltarono dall’altra parte. Il manifesto del Fuhrer nel Mein Kampf e le sue varie invettive durante gli anni ’30 ebbero come obiettivo esplicito l’annientamento dell’Unione sovietica e degli ebrei europei per la soluzione finale.

I ministri polacchi durante questo periodo condivisero lo spregio nazista per il popolo sovietico ed ebraico. Il caso dell’ambasciatore polacco a Berlino Josef Lipski, che nel 1938 propose a Hitler un piano per deportare gli ebrei europei in Africa, è inconfutabile.

Ciò che le autorità polacche oggi sono costrette a negare sono fatti storici obiettivi che assegnano complicità ai loro predecessori nello scatenare il mostro nazista. Il fatto che Auschwitz e altri campi di sterminio nazisti si trovino sul territorio polacco non sembra dare a questi russofobi virali alcuno spunto di riflessione. Il fatto che l’Armata Rossa sovietica abbia salvato milioni di polacchi dalla barbarie nazista – una barbarie che i loro vacillanti e illusi leader politici avevano incoraggiato – è forse l’esempio più chiaro di come “la menzogna non vi farà liberi”.

Finian Cunningham


http://vocidallestero.it/2020/01/28/wahrheit-macht-frei-la-verita-vi-fara-liberi/

Coronavirus: il lato oscuro. - Godfree Roberts




Il Vioxx ha ammazzato 500.000 Americani: un bilancio che avrebbe potuto essere ridotto del 90% se la FDA avesse emesso un avviso tempestivo.
I prodotti farmaceutici, correttamente e legalmente prescritti, uccidono ogni anno 140.000 Americani, eppure la maggior parte delle persone non è consapevole della loro letalità e non sa come evitare di farsi amazzare in questo modo.
Le morti da Coronavirus sono poche, le sue vittime sono anziane e la prevenzione è semplice.
media riferiscono che, in questa stagione, i decessi per influenza in America sono stati finora 8200, e non è degno di nota?
Nel 2016, 142.000 Americani sono morti a causa dell’uso di farmaci, ma anche questa non è una novità.
Ma 100 Cinesi, nati per lo più durante la Seconda Guerra Mondiale, malnutriti e portatori di altre malattie sono morti a causa di un nuovo virus e questa sarebbe un’epidemia?
Quest’anno ricorre il centenario dell’Influenza Spagnola, la pandemia più mortale della storia umana. Si stima che l’avessero contratta cinquecento milioni di persone, un terzo della popolazione mondiale del 1918, e che ne fossero morte tra i cinquanta e i cento milioni. Gli Asiatici avevano una probabilità di morire trenta volte superiore a quella degli Europei.
Ogni anno [l’influenza] uccide centinaia di migliaia di persone in ogni continente abitato, mentre, a livello globale, molte decine di milioni vengono contagiate ogni anno dai virus. Tutti questi milioni di persone infette a loro volta ne infettano altre a casa, al lavoro, nelle scuole, nei luoghi di culto, nei viaggi e in ogni luogo pubblico immaginabile, diffondendo i loro virus in tutto il pianeta.
Il ceppo coinvolto nell’ultima pandemia influenzale, l’epidemia di influenza suina del 2009, era altamente contagioso, ma di grado inferiore rispetto ai precedenti ceppi pandemici. Dei 61,7 milioni di persone che vivevano nel Regno Unito nel 2009, ne erano morte 457, una cifra paragonabile al normale bilancio annuale dei decessi da influenza. L’influenza asiatica del 1957 e le pandemie influenzali di Hong Kong del 1968-69 erano state più gravi; il bilancio delle vittime per ogni episodio era stato stimato in circa un milione in tutto il mondo.
L’influenza uccide ogni anno 646.000 persone in tutto il mondo, mentre, a livello globale, sono decine di milioni ad aver contratto la malattia. Il tasso di mortalità delle infezioni “gravi” in tutto il mondo è di circa il 13%, più o meno lo stesso delle “infezioni gravi da SARS.” Quella del nuovo virus potrebbe essere notevolmente inferiore.
I media occidentali ci condizionano ad un pavloviano timore della Cina utilizzando mappe come quella di copertina, mentre strillano per far sì che l’influenza cinese venga dichiarata un’emergenza sanitaria internazionale ed una pandemia globale anche se, fino ad ora, l’OMS si rifiuta di dichiarare l’epidemia virale cinese un’emergenza sanitaria mondiale. Come potrebbe, guardando quella ridicola mappa?
Il servizio sanitario pubblico cinese è probabilmente il più efficiente sulla Terra, il motivo per cui i bambini cinesi hanno una vita più lunga e più sana dei loro coetanei americani. Ma neanche questa è una novità.
Secondo Nature: la velocità e il grado di apertura della risposta scientifica al Coronavirus non ha precedenti. Dieci giorni dopo essere stato segnalato per la prima volta nell’uomo, gli scienziati in Cina e in Australia avevano già resa nota la sequenza genetica del virus. Nel giro di poche ore, i laboratori di ricerca di tutto il mondo stavano utilizzando tutti i mezzi disponibili per comprendere la malattia. “Questa è una delle prime volte che vediamo emergere un nuovo focolaio virale e la comunità scientifica condividere i propri dati quasi in tempo reale,” ha affermato il biologo molecolare Michael Letko.
David Ho, ricercatore medico specializzato in HIV/AIDS, ha sottolineato che, alla fine della scorsa settimana, il tasso di mortalità [del Coronavirus] sembrava essere del 2,5% circa, “circa 3-4 volte inferiore a quello della SARS,” aggiungendo: “I decessi si verificano nelle persone anziane o in quelle con patologie mediche concomitanti. Se dovessimo confrontare le cifre dell’influenza con quelle di questo nuovo CoV, i numeri dei casi assoluti e i tassi di mortalità sarebbero molto maggiori [per la normale influenza].  Ma tendiamo a non dare importanza all’influenza tradizionale, anche se è abbastanza mortale per i giovani, gli anziani e per le persone con problemi medici di base.”
Non sono stati segnalati decessi al di fuori della Cina, a conferma del tasso di mortalità relativamente basso riportato dai dati ufficiali cinesi.
Il New York Times riassume così gli ultimi dati sull’infezione internazionale:
Thailandia e Hong Kong hanno riferito di otto casi di infezione ciascuno; gli Stati Uniti, Taiwan, Australia e Macao ne hanno cinque a testa; Singapore, Giappone, Corea del Sud e Malesia ne hanno segnalati quattro ciascuna; la Francia ne ha tre; Canada e Vietnam ne hanno due; Nepal e Cambogia ne hanno uno ciascuno.
IL LATO OSCURO.
• Fin dal 20° secolo, l’Occidente è stato e continua ad essere il più avido utilizzatore di armi batteriologiche. Gli Stati Uniti sono stati il maggiore utilizzatore di armi batteriologiche di tutta la storia, a Cuba, in Iraq, Siria e Iran (per procura), in Serbia, Giappone, Vietnam, Laos e Cambogia, e l’America le ha usate a cuor leggero anche sulla propria popolazione, apparentemente più spesso di quanto si vorrebbe ammettere.
• Negli anni ’40 gli Stati Uniti avevano infettato di proposito con sifilide e gonorrea migliaia di cittadini del Guatemala, per testare su queste cavie umane la risposta agli antibiotici. Naturalmente, queste anime sofferenti erano rimaste sessualmente attive per il resto delle loro vite e avevano involontariamente contagiato tutti quelli con cui erano venuti a contatto, compresi i coniugi.
A Tuskegee, centinaia di Americani di colore erano stati lasciati infetti dalla sifilide dagli anni ’30 agli anni ’70, per fungere da capsule Petri umane. Questo per controllare l’avanzamento della malattia e monitorare l’orribile morte che questo batterio avrebbe poi inflitto alle sue vittime nella fase finale: follia, disturbi nervosi, malattie epatiche e cardiache.
• Gli Stati Uniti hanno una lunga e illustre storia nell’utilizzo del bioterrorismo in tutto il mondo. Il bersaglio preferito era stata Cuba, che aveva visto centinaia di migliaia di persone contagiate dalla febbre dengue e tutta la sua popolazione suina spazzata via dalla peste suina.
• Gli Stati Uniti d’America detengono il brevetto esclusivo del virus Ebola: il brevetto statunitense numero 20120251502 è di proprietà del governo americano. Il virus dell’Ebola è un giocattolo per la guerra biologica dello zio Sam fin dal 1976, quando era stato scoperto nello Zaire e spedito a 3.500 km di distanza nei laboratori americani per la guerra batteriologica di Fort Detrick, nel Maryland, e poi rimandato in Africa Occidentale per la coltivazione e lo sviluppo (tramite i laboratori per la guerra batteriologica del Regno Unito a Porton Down e con l’aiuto dell’Organizzazione Mondiale della “Sanità”), in particolare, in Liberia, Guinea e Sierra Leone, gli attuali epicentri dell’epidemia di Ebola nel Grande Continente.
• L’epidemia di Ebola del 2014 è stata il risultato di un’altra vile operazione militare USA nell’Africa Australe, in cui è stato coinvolto il laboratorio per le armi batteriologiche di Kenema, in Sierra Leone, finanziato da Soros e Bill Gates.
• Gli Stati Uniti hanno una lunga storia di guerra batteriologica contro la Cina. Il rapporto della Commissione Scientifica Internazionale per le Indagini sui Fatti Riguardanti la Guerra Batteriologica in Corea e Cina (rapporto ISC) aveva convalidato le affermazioni della Corea del Nord e della Cina secondo cui gli Stati Uniti avevano lanciato attacchi di guerra batteriologica (guerra biologica, BW) contro truppe e obiettivi civili in quei due paesi per un periodo di mesi, nel 1952. Questo veritiero rapporto di 667 pagine della Commissione ha il dubbio onore di essere il documento scritto più diffamato del 20° secolo. La pubblicazione del rapporto, nel settembre del 1952, aveva causato un severo attacco da parte della comunità internazionale. Era stato denunciato in toto dai massimi esponenti politici americani e britannici, ridicolizzato dai generali a quattro stelle, accusato di falsità da celebri esperti, mal interpretato da noti scienziati e disprezzato da una stampa occidentale compiacente. Nei decenni successivi, i volumi [del rapporto che si trovavano] nelle collezioni delle biblioteche universitarie americane erano stati silenziosamente e definitivamente rimossi dalla circolazione. Quando una rara copia era stata messa all’asta, era stata acquistata in modo discreto e fatta sparire dalla vista del pubblico.
• Nel marzo 2019, in un evento misterioso, una spedizione di virus eccezionalmente virulenti proveniente dai laboratori biologici canadesi del NML era finita in Cina. I funzionari canadesi avevano affermato che la spedizione faceva parte dei loro sforzi a sostegno della ricerca sulla salute pubblica in tutto il mondo. Avevano sostenuto che si era trattato di una normale procedura. Ciò che non è chiaro è perché fosse stata fatta in segreto e perché i funzionari cinesi avessero presentato una denuncia. Di sicuro, se questo fosse stato solo un trasferimento di routine, il governo cinese ne sarebbe stato informato. Nel luglio 2019, un gruppo di virologi cinesi era stato allontanato con la forza dal Canadian National Microbiology Laboratory (NML). L’NML è l’unica struttura di livello 4 del Canada ed una delle poche in Nord America equipaggiata per gestire le malattie più mortali al mondo, tra cui Ebola, SARS, Coronavirus, ecc.
 Il 18 ottobre 2019, il Johns Hopkins Center for Health Security, in collaborazione con il World Economic Forum, aveva riunito “15 leader del mondo degli affari, del governo e della sanità pubblica” per simulare uno scenario in cui una pandemia di Coronavirus stava devastando il pianeta. I principali partecipanti erano stati la leadership militare americana e alcune figure politiche neoconservatrici. I Cinesi non erano stati invitati. I delegati avevano preso appunti e poi erano tornati alle loro attività quotidiane.
• In una simulazione di 3 mesi fa, la Bill e Melinda Gates Foundation aveva previsto fino a 65 milioni di morti da Coronavirus.
 Il 19 ottobre, 300 militari statunitensi erano arrivati a Wuhan per i Military World Games. Il primo caso di Coronavirus si era verificato due settimane dopo, il 2 novembre. Il periodo di incubazione del Coronavirus è di 14 giorni.
• Due mesi dopo, una pandemia molto simile di Coronavirus ha colpito la Cina a Wuhan, un importante hub dei trasporti nella Cina centrale e un nodo di transito per la rete dei treni ad alta velocità, con 60 rotte aeree e voli diretti per la maggior parte delle principali città del mondo, oltre a più di 100 voli interni verso i maggiori scali cinesi, proprio durante le celebrazioni del Festival di Primavera, quando centinaia di milioni di persone viaggiano in tutto il paese per stare con le loro famiglie.
• Il Coronavirus (2019-nCoV) è un ceppo completamente nuovo, correlato ai virus MERS (MERS-CoV) e SARS (SARS-CoV), anche se le prime prove suggerivano che non era pericoloso. E’ stato dimostrato che la SARS era causata da una variante del Coronavirus, una grande famiglia di virus per lo più innocui e responsabili anche del comune raffreddore, ma la SARS aveva mostrato caratteristiche mai osservate prima in nessun virus animale o umano, non corrispondeva in alcun modo ai virus animali sopra menzionati e conteneva materiale genetico che non è ancora stato identificato, analogamente a questo nuovo Coronavirus apparso nel 2019.
• La SARS aveva i tratti distintivi di un’arma batteriologica. Dopotutto, i nuovi agenti per la guerra batteriologica non sono forse progettati per indurre una nuova malattia utilizzando un nuovo agente infettivo? Come nei precedenti esperimenti militari, tutto ciò che potrebbe essere stato necessario per diffondere la SARS è una bomboletta spray. Diversi scienziati russi hanno suggerito un legame tra SARS e guerra batteriologica. Sergei Kolesnikov, un membro dell’Accademia Russa per le Scienze Mediche, ha affermato che la propagazione del virus SARS potrebbe essere stata causata dalla diffusione accidentale di un virus per la guerra batteriologica sintetizzato nei laboratori per le armi batteriologiche. Secondo informazioni della stampa, Kolesnikov ha affermato che il virus della polmonite atipica (SARS) era una sintesi di due virus (del morbillo e della parotidite infettiva o orecchioni), assolutamente impossibile in natura, affermando che “Questo può essere stato fatto solo in un laboratorio.” E Nikolai Filatov, il capo dei servizi epidemiologici di Mosca, era stato citato dal quotidiano Gazeta perché aveva affermato di essere convinto che la SARS fosse stata prodotta dall’uomo perché “non esiste un vaccino per questo virus, la sua costituzione non è chiara, non ha avuto molta diffusione e la popolazione non ne è immune.”
• All’epoca, il virologo Dr. Alan Cantwell aveva scritto che “il misterioso virus della SARS è un nuovo virus mai visto prima dai virologi, questa è una malattia completamente nuova con effetti devastanti sul sistema immunitario e non esiste un trattamento conosciuto.” Cantwell aveva osservato che l’ingegneria genetica sui Coronavirus è praticata da decenni nei laboratori medici sia civili che militari. Quando aveva cercato su PubMed la frase “ingegneria genetica del Coronavirus,” aveva trovato i riferimenti di 107 esperimenti scientifici, i primi risalenti addirittura al 1987. Per citare il dott. Cantwell: “Ho avuto rapidamente la conferma che gli scienziati, da oltre un decennio, ingegnerizzano geneticamente Coronavirus animali e umani per produrre virus mutanti e ricombinanti patogeni.”
• L’epidemia virale coincide con la guerra commerciale contro la Cina.
• L’epidemia virale coincide con i disordini “filo-democratici” di Hong Kong, interamente finanziati e istigati dalla National Endowment for Democracy (NED) e dalla CIA.
 L’epidemia virale si è verificata subito dopo che l’influenza suina aveva messo in ginocchio l’industria cinese della carne suina.
 L’epidemia virale si è verificata subito dopo che l’influenza aviaria aveva decimato l’industria cinese del pollame.
 L’epidemia virale si è verificata poco prima del sostegno e dell’addestramento da parte della NED agli estremisti musulmani uiguri.
• Questo mese, la CNN ha pubblicato un gaio (e falso) rapporto secondo cui “L’economia cinese è in crisi e il paese sta ancora subendo gli effetti della guerra commerciale con l’America. Lo scoppio di un virus nuovo e mortale è l’ultima cosa di cui ha bisogno.”