E' difficile definire la personalità di un uomo che non nutre alcun rispetto nei confronti di chi lo circonda, dotato di un egocentrismo spiccato, di un bisogno di potere illimitato, scevro da regole di ogni tipo sia legali che affettive.
Un uomo cosi' è anaffettivo, ama solo se stesso ed il potere che prende a piene mani senza mai porsi domande su quali e quanti danni possa provocare questa voglia frenetica di ricchezza e predominanza.
In quanto al suo arresto, io non credo che sia il frutto di indagini, credo, invece, che sia stato tradito da qualcuno dei suoi adepti, cosi' come lui stesso fece, a suo tempo, ne sono convinta, con Totò Riina.
Chi è stato latitante per trent'anni non lo è stato senza l'aiuto di qualcuno e, se viene arrestato, succede solo perché chi lo aiutava lo ha abbandonato.
Il fatto che, appena arrestato, abbia detto "Sapete già chi sono, io sono Matteo Messina Denaro" è un'incognita da risolvere conoscendo il gergo mafioso; per me, che non conosco il gergo, potrebbe anche significare che abbia deciso di mollare la presa e rilassarsi essendo affetto da cancro, oppure, volendo azzardare un 'ipotesi fantasiosa, che "cosa nostra (tutta loro e non nostra)" abbia consegnato alla giustizia un Bonafede qualsiasi (approfittando della strabiliante somiglianza del tizio con la ricostruzione del volto invecchiato) affetto da cancro al colon, in cambio della somministrazione di cure adeguate, ponendo termine, al contempo, alla ricerca di un latitante trentennale.
Il covo di mattia Messina Denaro a Campobello di Mazzara
Oltretutto, quest'uomo si muoveva tranquillamente ed indisturbato tra Campobello di Mazzara, dove viveva, e Palermo... da circa due anni... è difficile pensare che nessuno ne sapesse nulla...
I carabinieri del Ros e la procura di Palermo hanno individuato il covo del boss Matteo Messina Denaro, arrestato ieri alla clinica Maddalena di Palermo.
E' a Campobello di Mazara, nel trapanese, paese del favoreggiatore Giovanni Luppino, finito in manette insieme al capomafia.
Il nascondiglio, secondo quanto si apprende, è nel centro abitato. Le ricerche sono state coordinate dal procuratore aggiunto Paolo Guido.
La perquisizione del covo è durata tutta la notte. Ha partecipato personalmente il procuratore aggiunto Paolo Guido che da anni indaga sull'ex latitante di Cosa nostra.
Messina Denaro è sbarcato ieri sera con un volo militare all'aeroporto di Pescara. L'ipotesi più accreditata, come anticipato da La Repubblica e il Centro, è che il boss venga detenuto nel carcere dell'Aquila poiché è una struttura di massima sicurezza, ha già ospitato personaggi di spicco ed anche perché nell'ospedale del capoluogo c'è un buon centro oncologico. Non è escluso che il boss sia stato trattenuto altrove per la notte, o in una caserma o nei vari penitenziari della zona. Secondo quanto si è appreso, autorità ed istituzioni sarebbero state allertate.
Matteo Messina Denaro è stato arrestato ieri dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza. L'inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano (Tp) è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido. "Mi chiamo Matteo Messina Denaro", dice con fare arrogante al carabiniere del Ros che sta per arrestarlo. Finisce così la latitanza trentennale del padrino di Castelvetrano, finito in manette alle 8.20 mentre stava per iniziare la seduta di chemioterapia alla clinica Maddalena di Palermo, una delle più note della città. Quando si è reso conto d'essere braccato, ha accennato ad allontanarsi.
Non una vera e propria fuga visto che decine di uomini del Ros, armati e col volto coperto, avevano circondato la casa di cura. I pazienti, tenuti fuori dalla struttura per ore, si sono resi conto solo dopo di quanto era accaduto e hanno applaudito i militari ringraziandoli. Stessa scena fuori dalla caserma Dalla Chiesa, sede della Legione, dove nel pomeriggio il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia, l'aggiunto Paolo Guido, il generale del Ros Pasquale Angelosanto e il comandante palermitano del Raggruppamento Speciale Lucio Arcidiacono hanno tenuto una conferenza stampa.
LA CONFERENZA STAMPA DEI CARABINIERI
Una piccola folla ha atteso i pm e mostrato uno striscione con scritto: "Capaci non dimentica". In mattinata in Procura era arrivata la premier Giorgia Meloni che ha voluto incontrare i magistrati per congratularsi con loro. "Siamo orgogliosi di un risultato costato tanta fatica", dicono i pm che sottolineano come si sia trattato di una indagine tradizionale. Nessun pentito, nessun anonimo. Messina Denaro è stato preso grazie alla stessa strategia che portò all'arresto del boss Bernardo Provenzano. Prosciugare l'acqua attorno al latitante, disarticolando la rete dei favoreggiatori. Favoreggiatori anche eccellenti: "una fetta della borghesia lo ha aiutato", dice il procuratore de Lucia. E' accaduto questo. E i familiari del boss stretti dalla morsa degli investigatori alla fine hanno fatto l'errore fatale.
Parlando tra loro, pur sapendo di essere intercettati, hanno fatto cenno alle malattie del capomafia. L'inchiesta è partita da lì. E indagando sui dati della piattaforma del ministero della Salute che conserva le informazioni sui pazienti oncologici, si è riusciti a stilare una lista di pazienti sospettati. Un nome ha fatto saltare sulla sedia gli inquirenti: Andrea Bonafede, parente di un antico favoreggiatore del boss. Avrebbe un anno fa subito un intervento al fegato alla Maddalena. Ma nel giorno in cui doveva trovarsi sotto ai ferri, hanno scoperto i magistrati, Bonafede era a casa sua a Campobello di Mazara. E allora il sospetto che il latitante usasse l'identità di un altro si è fatto forte. La prenotazione di una seduta di chemioterapia a nome di Bonafede ha fatto scattare il blitz.
Messina Denaro, trasferito subito in una località segreta, sarà destinato ad un carcere di massima sicurezza, un istituto che gli possa permettere di seguire le sue cure, come ad esempio Parma, dove già furono reclusi Riina e Provenzano: la premier parla di regime di "carcere duro" e il procuratore de Lucia scandisce che le condizioni del boss "sono compatibili col carcere". Ma le indagini non si sono fermate con l'arresto. Perquisizioni sono in corso da ore nel trapanese: Castelvetrano e Campobello di Mazara vengono setacciate palmo a palmo. Gli inquirenti cercano e sarebbero ad un passo dal covo. Quel nascondiglio che avrebbe ospitato il boss negli ultimi mesi e potrebbe custodire i segreti dell'ex primula rossa di Cosa nostra che, dicono i pentiti, avrebbe conservato il contenuto della cassaforte di Totò Riina portata via dalla casa di via Bernini, mai perquisita. Decine le dichiarazioni di politici di tutti gli schieramenti dopo l'arresto. "Oggi è una giornata storica - ha detto il procuratore de Lucia - che dedichiamo a tutte le vittime della mafia". Parole simili a quelle pronunciate dalla premier che ha aggiunto: "mi piace immaginare che il 16 gennaio possa essere il giorno nel quale viene celebrato il lavoro degli uomini e delle donne che hanno portato avanti la guerra contro la mafia. Ed è una proposta che farò".
IL VIDEO DELL'ARRESTO "Sottoposto a terapia oncologica", nel documento falso esibito ai sanitari c'era scritto il nome di Andrea Bonafede (ANSA)
COME SI E' ARRIVATI ALL'ARRESTO. "Matteo Messina Denaro è stato catturato grazie al metodo Dalla Chiesa, cioè la raccolta di tantissimi dati informativi dei tanti reparti dei carabinieri, sulla strada, attraverso intercettazioni telefoniche, banche dati dello Stato, delle regioni amministrative", ha detto il comandante dei carabinieri Teo Luzi, arrivato a Palermo. "Una grande soddisfazione perché è un risultato straordinario. Messina Denaro era un personaggio di primissimo piano operativo, ma anche da un punto di vista simbolico perché è stato uno dei grandi protagonisti dell'attacco allo Stato con le stragi. Risultato reso possibile dalla determinazione e dal metodo utilizzato. Determinazione perché per 30 anni abbiamo voluto arrivare alla sua cattura, soprattutto in questi ultimi anni con un grandissimo impiego di personale e di ricorse strumentali". "Un risultato - conclude Luzi - grazie al lavoro fatto anche dalle altre forze di polizia, in particolare dalla polizia di Stato. La lotta a Cosa nostra prosegue. Il cerchio non si chiude. E' un risultato che dà coraggio che ci dà nuovi stimoli ad andare avanti e ci dà metodo di lavoro per il futuro, la lotta alla criminalità organizzata è uno dei temi fondamentali di tutti gli stati".
"E' il risultato di un lavoro corale che si è svolto nel tempo, che si è basato sul sacrificio dei carabinieri in tanti anni. L'ultimo periodo, quelle delle feste natalizie, i nostri lo hanno trascorso negli uffici a lavorare e a mettere insieme gli elementi che ogni giorno si arricchivano sempre di più e venivano comunicati", ha detto Pasquale Angelosanto, comandante del Ros.
LE FASI DELL'ARRESTO. Il blitz è scattato quando "abbiamo avuto la certezza che fosse all'interno della struttura sanitaria". Quando è stato bloccato, hanno aggiunto, Messina Denaro "non ha opposto alcuna resistenza" e "si è subito dichiarato, senza neanche fingere di essere la persona di cui aveva utilizzato l'identità". Alla domanda se Messina Denaro abbia tentato la fuga, gli investigatori hanno affermato di "non aver visto tentativi di fuga" anche se, hanno aggiunto, "sicuramente ha cercato di adottare delle tutele una volta visto il dispositivo che stava entrando nella struttura". "Fino a ieri era certamente il capo della provincia di Trapani, da domani vedremo", ha spiegato il procuratore aggiunto Paolo Guido sugli assetti dei vertici di Cosa nostra dopo l'arresto di Messina Denaro.
"Ero in ospedale che stavo aspettando per entrare, saranno state più o meno le 8,15, poi ho visto arrivare tutti i carabinieri mascherati, incappucciati e ci hanno bloccato tutti". (ANSA)
"Abbiamo catturato l'ultimo stragista responsabile delle stragi del 1992-93", ha detto il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia. "Siamo particolarmente orgogliosi del lavoro portato a termine questa mattina che conclude un lavoro lungo e delicatissimo. E' un debito che la Repubblica aveva con le vittime della mafia che in parte abbiamo saldato". "Catturare un latitante pericoloso senza ricorso alla violenza e senza manette è un segno importante per un paese democratico". "Allo stato non abbiamo elementi per parlare di complicità del personale della clinica anche perchè i documenti che esibiva il latitante erano in apparenza regolari, ma le indagini sono comunque partite ora" ha aggiunto il procuratore.
"Ci è apparso in buona salute e di buon aspetto non ci pare che le sue condizioni siano incompatibili con il carcere", ha spiegato l'aggiunto di Palermo Paolo Guido alla conferenza stampa. "Era di buon aspetto, ben vestito, indossava capi di lusso ciò ci induce a dire che le sue condizioni economiche erano buone", ha aggiunto. "Ovviamente sarà curato come ogni cittadino ha diritto essere curato", ha concluso. Al momento della cattura indossava anche un orologio molto particolare del valore di 30-35mila euro.
CHI E' IL FIANCHEGGIATORE DEL BOSS. E' un commerciante di olive, agricoltore di mestiere, incensurato. È il profilo diGiovanni Luppino,l'uomo arrestato insieme al superlatitante Matteo Messina Denaro. È stato lui a portarlo in macchina presso la clinica privata di Palermo per le cure. Luppino è di Campobello di Mazara, paese vicino a Castelvetrano. Da qualche tempo gestiva, insieme ai figli, un centro per l'ammasso delle olive cultivar Nocellara del Belìce proprio alla periferia di Campobello di Mazara. La sua funzione era quello di intermediario tra i produttori e i grossi acquirenti che, in zona, arrivano dalla Campania.
Chi e' Messina Denaro (e perché la sua cattura è importante)
L'arresto di Matteo Messina Denaro in una clinica oncologica è coerente con risultati investigativi, anche molto datati che lo indicavano affetto da serie patologie. Tracce del boss superlatitante risalenti al gennaio del 1994, lo collocavano infatti in Spagna, a Barcellona, dove si sarebbo sottoposto, presso una nota clinica oftalmica, ad un intervento chirurgico alla retina. Ma non solo: avrebbe accusato - sempre secondo risultanze investigative di alcuni anni fa - una insufficienza renale cronica, per la quale avrebbe dovuto ricorrere a dialisi. Per non rischiare l'arresto durante gli spostamenti per le cure ed i trattamenti clinici, il boss avrebbe installato nel suo rifugio le apparecchiature per la dialisi. Una importante conferma sulle patologie accusate dal superlatitante giunse nel novembre scorso dal pentito Salvatore Baiardo, che all'inizio degli anni '90 gestì la latitanza dei fratelli Graviano a Milano. In un'intervista televisiva, su La7 a Massimo Giletti il pentito rivelo' che Matteo Messina Denaro era gravemente malato e che proprio per questo meditava di costituirsi.
Andrea, Francesca, Maria: le conquiste del capo mafia play boy (ANSA)
Figlio del vecchio capomafia di Castelvetrano Ciccio, storico alleato dei corleonesi di Totò Riina, Matteo Messina Denaro era latitante dall'estate del 1993, quando in una lettera scritta alla fidanzata dell'epoca, Angela, dopo le stragi mafiose di Roma, Milano e Firenze, preannunciò l'inizio della sua vita da Primula Rossa. "Sentirai parlare di me - le scrisse, facendo intendere di essere a conoscenza che di lì a poco il suo nome sarebbe stato associato a gravi fatti di sangue - mi dipingeranno come un diavolo, ma sono tutte falsità". Il capomafia trapanese è stato condannato all'ergastolo per decine di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell'acido dopo quasi due anni di prigionia, per le stragi del '92, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, e per gli attentati del '93 a Milano, Firenze e Roma. Messina Denaro era l'ultimo boss mafioso di "prima grandezza" ancora ricercato. Per il suo arresto, negli anni, sono stati impegnati centinaia di uomini delle forze dell'ordine. Oggi la cattura, che ha messo fine alla sua fuga decennale. Una latitanza record come quella dei suoi fedeli alleati Totò Riina, sfuggito alle manette per 23 anni, e Bernando Provenzano, riuscito a evitare la galera per 38 anni.
Cercato anche all’estero, era nascosto nella sua Sicilia. Con i gli affari illeciti avrebbe accumulato un tesoro di 4 miliardi di euro.
Trent’anni di latitanza sono un segno di potere e di esercizio del potere; una sfida nella quale Matteo Messina Denaro non è soltanto sfuggito alla cattura, ma ha continuato a guidare un pezzo importante di Cosa nostra contando sul prestigio derivante anche dall’essere l’ultimo latitante della mafia stragista che aveva messo in ginocchio lo Stato. All’appello mancava solo lui, Matteo Messina Denaro, uno dei «rampolli» di Totò Riina, ricercato dal 1993 da subito dopo l’arresto del «capo dei capi», mentre era in corso l’attacco terroristico della mafia corleonese alle istituzioni e alla convivenza civile, di cui il boss di Castelvetrano è stato uno dei protagonisti.
Per gli inquirenti e gli investigatori che l’hanno cercato così a lungo era una sfida da vincere; per il «popolo di Cosa nostra» un legame col passato e con la storia. Al punto da essere chiamato in causa forse perfino strumentalmente, da chi pensava di spendere il suo nome per conservare la propria influenza. Era il sospetto di un mafioso di medio calibro della provincia trapanese, che — intercettato da una delle migliaia di microspie che in questi anni hanno invaso la Sicilia nel tentativo di raccogliere una voce che potesse portare al superlatitante — diceva: «Io sono del parere che questo qualche giorno, a meno non lo abbia già fatto, si ritira… e gli altri vanno a fare cose a nome suo quando lui ormai non c’è più qua…».
Invece non si era ritirato, ed era ancora là. Ha continuato a gestire il potere e il patrimonio accumulato grazie agli affari: droga, estorsioni, riciclaggio, investimenti nell’eolico, nei supermercati, nel turismo e in altri settori. Un tesoro stimato da qualcuno in 4 miliardi di euro, sebbene avventurarsi in cifre e calcoli sia un esercizio rischioso. Una latitanza trascorsa in Sicilia e in altre parti d’Italia, forse con qualche puntata fuori dai confini.
Di Matteo Messina Denaro rifugiato all’estero s’è parlato spesso: una volta in Spagna, un’altra in Albania. Ma tutte le indagini, alla fine, ritornavano sempre in Sicilia, nel triangolo fra Castelvetrano, Marsala e Trapani che fu il suo regno e prima ancora del padre Francesco, morto latitante nel 1998, per il quale Matteo ha continuato a far pubblicare l’annuale necrologio di ricordo insieme al resto della famiglia, firmato «i tuoi cari». In quella terra e in quel legame hanno germinato le radici mafiose di un boss che è sempre stato «nel cuore» di Totò Riina.
Il legame stretto dei Messina Denaro con il «capo dei capi» corleonese lo confermò lo stesso Riina nei suoi colloqui con il compagno di detenzione, intercettati in carcere nel 2013: «Suo padre buonanima era un bravo cristiano, un bel cristiano ‘u zu Ciccio di Castelvetrano… ha fatto tanti anni di capomandamento… a lui gli ho dato la possibilità di muoversi libero… però era un cristiano perfetto, un orologio». Poi passò a parlare del figlio: «Lo ha dato a me per farne quello che ne dovevo fare, è stato qualche 4 o 5 anni con me, impara bene, minchia…». Finché non cominciò a pensare prima di tutto a sé, a investire per conto proprio, quasi dimenticando il destino dell’organizzazione. Guadagnandosi per questo i rimbrotti di Riina, che sui giornali ha letto degli investimenti nell’energia eolica ed è sbottato: «A me dispiace dirlo, questo fa il latitante, fa questi pali… eolici, i pali della luce… Questo si sente di comandare, si sente di fare luce ovunque, fa pali per prendere soldi, ma non si interessa di…».
Fu quasi una scomunica nei confronti del figlioccio che dopo il ‘93 non decise di proseguire con la strategia delle bombe: «Se ci fosse stato qualcun altro avrebbe continuato. E non hanno continuato, non hanno intenzione di continuare…». Si sentiva tradito, Totò Riina: «Una persona responsabile ce l’ho, e sarebbe Messina Denaro, però che cosa per ora questo…. Io non so più niente… Potrebbe essere pure all’estero… L’unico ragazzo che poteva fare qualcosa perché era dritto… Non ha fatto niente… io penso che se n’è andato all’estero».
Invece era ancora in Italia, e aveva messo in piedi un sistema di comunicazione attraverso pizzini recapitati e ritirati in aperta campagna, con i postini che andavano e venivano parlandosi con linguaggio cifrato («il macellaio sono, mi aveva ordinato la fiorentina si ricorda? Domani alle 9.30 se la può venire a prendere») finché le indagini della Procura di Palermo nel 2015 smantellarono anche quel «fermo posta».
Costringendo il latitante a inventarne uno nuovo per restare fuggitivo. Contando su appoggi che non prevedessero più i legami con la famiglia d’origine (finita in galera quasi per intero), ma conservando — anche a distanza — quelli con chi ha continuato a garantirgli protezione: compresi forse pezzi di potere istituzionale o massonico, come ipotizzato più volte dagli inquirenti che gli davano la caccia. Di sicuro ha avuto dalla sua parte qualcuno che gli ha procurato i documenti semi-autentici (con la sua foto e il nome di un altro, ma il timbro regolare del Comune di Campobello) che aveva in tasca al momento dell’arresto.
Catturato Riina e salito al trono Bernardo Provenzano, Matteo si adeguò alla metamorfosi della «mafia sommersa» messa in pratica dall’ultimo padrino, con il quale interloquiva con i pizzini firmati «Alessio» e sequestrati nel rifugio corleonese dove l’altro padrino fu arrestato nel 2006: «Quello che lei decide per me va bene… I suoi amici sono i miei amici…», scriveva con deferenza Messina Denaro. Sempre a proposito di affari e spartizioni.
I pizzini recapitati a mano sono sempre stati la garanzia migliore per comunicare tentando di sfuggire alle indagini; ancora lo scorso anno gli investigatori ne hanno intercettato qualcuno in cui parlava dei suoi movimenti. Scriveva, dava indicazioni e si lamentava. Persino di come i familiari tenevano la tomba del padre; o della figlia Lorenza, nata durante la sua latitanza, che non lo avrebbe «onorato» come altri figli o nipoti di boss mafiosi. Un anno e mezzo fa quella donna l’ha reso nonno, ma il bambino non si chiama Matteo.
La ricostruzione del volto di Matteo Messina Denaro da una sua foto di anni fa
Si stima un patrimonio di 4 miliardi di euro, con ricavi provenienti da diversi settori: dalle rinnovabili ai supermercati, tutti gli affari che conosciamo di Matteo Messina Denaro.
Miliardi di euro, così tanti che sono difficili da quantificare con esattezza. Dopo 30 anni di latitanza interrotti con l'arresto del 16 gennaio 2023, il patrimonio di Matteo Messina Denaro si è fatto imponente e sfaccettato in più pezzi, difficili da ricomporre anche per gli investigatori. Una stima, per difetto, dei guadagni di una vita di traffici di droga, estorsioni, riciclaggio nei settori più disparati si può azzardare sulla base di quel che lo Stato, negli anni, è riuscito a sottrarre al padrino di Castelvetrano e ai suoi prestanome. Si parla di quasi 4 miliardi di euro. La maggior parte degli affari del padrino della mafia si sono concentrati in Sicilia, con alcune eccezioni.
I soldi della mafia in giro per il mondo.
Gli affari di Messina Denaro sarebbero arrivati anche in Venezuela, regno dei clan Cuntrera e Caruana che da Siculiana, paese dell'agrigentino, colonizzarono Canada e Sudamerica imponendo il loro monopolio sul narcotraffico. Un pentito "minore", Franco Safina, raccontò che Messina Denaro aveva ricavato un tesoro in Venezuela investendo 5 milioni di dollari in un'azienda di pollame.
Per gli inquirenti si trattava di un evidente escamotage per riciclare i proventi del traffico di stupefacenti. E di Venezuela parlò anche il collaboratore di giustizia Salvatore Grigoli, il killer di don Pino Puglisi. Ferito in un attentato, si era nascosto ad Alcamo, nel trapanese. "Se vuoi, per un certo periodo te ne vai in Venezuela e stai tranquillo", gli avrebbe detto il padrino che, sospettano gli inquirenti, in Sudamerica come pure in Tunisia sarebbe andato anche da latitante.
Gli affari di Matteo Messina Denaro.
Matteo Messina Denaro ha guadagnato parecchio dagli investimenti nelle energie rinnovabili, in particolare nell'eolico, settore "curato" per il boss dall'imprenditore trapanese Vito Nicastri, l'ex elettricista di Alcamo e pioniere dell'industria verde in Sicilia, che per anni avrebbe tenuto le chiavi della cassaforte del capomafia.
Poi c'è l'edilizia e la grande distribuzione, attraverso la "6 Gdo" di Giuseppe Grigoli, il salumiere diventato in poco tempo il re dei Despar in Sicilia al quale furono sequestrati beni - di proprietà del boss secondo i magistrati - per 700 milioni di euro.
Tra gli affari di Matteo Messina Denaro c'è anche il turismo: secondo i pm ci sarebbero stati i soldi del capomafia nell'ex Valtur, un colosso miliardario di proprietà di Carmelo Patti, l'ex muratore di Castelvetrano divenuto capitano d'azienda che, come Al Capone, finì nei guai per un'accusa di evasione fiscale.
Braccio destro di Patti, raccontano le inchieste, era il commercialista Michele Alagna, padre di una delle amanti di Messina Denaro, Francesca, che al boss ha dato una figlia mai riconosciuta. Nel 2018 il tribunale di Trapani gli sequestrò beni per 1,5 miliardi, un delle misure patrimoniali più ingenti mai eseguite, disse la Dia. I sigilli vennero messi a resort, beni della vecchia Valtur, una barca di 21 metri, un campo da golf, terreni, 232 proprietà immobiliari e 25 società.
I capitali accumulati da Matteo Messina Denaro.
Ma se, come sono certi i magistrati, solo una parte del tesoro del padrino è stata trovata e confiscata, a quanto ammonta il suo patrimonio? Le ricchezze illecite ancora da scoprire sarebbero enormi. A partire dai soldi che gli sarebbero stati affidati da Totò Riina.
"Se recupero pure un terzo di quello che ho sono sempre ricco", diceva il capomafia corleonese, intercettato, parlando durante l'ora d'aria con un altro detenuto. "Una persona responsabile ce l'ho e sarebbe Messina Denaro. Però che cosa fa per ora questo Matteo Messina Denaro non lo so. Suo padre era uno con i coglioni" , spiegava all'amico mostrando una qualche diffidenza sulla capacità gestionale del boss trapanese. E rivelando che parte del suo patrimonio potrebbe essere stato affidato proprio agli alleati di Castelvetrano.
L'operazione dei carabinieri del Ros ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano, ricercato dall'estate 1993. Si trovava nella struttura in pieno centro dove era sottoposto a terapie da oltre un anno.
Matteo Messina Denaro, l’ultimo superlatitante di Cosanostra, è stato arrestato questa mattina, lunedì 16 gennaio, mentre era in day hospital alla clinica Maddalena, in pieno centro a Palermo. Era ricercato dall’estate del 1993. Lo storico arresto è stato compiuto dai carabinieri del Ros dopo 30 anni di latitanza: più di cento uomini questa mattina hanno accerchiato la struttura e assediato la zona di San Lorenzo. Il blitz è scattato intorno alle 9 con tutti i militari a volto coperto: Messina Denaro è stato arrestato mentre era all’ingresso prima di cominciare la terapia. “Come ti chiami?”, gli hanno chiesto i carabinieri. “Sono Matteo Messina Denaro”: sono state queste le prime parole del boss.
Urla di incoraggiamento e applausi nei confronti dei carabinieri da parte di decine di pazienti e loro familiari hanno accompagnato l’arresto. L’inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano (Trapani) è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto PaoloGuido. Dopo il blitz, l’ormai ex superlatitante è stato trasferito in una localitàsegreta. Messina Denaro un anno fa era stato operato e da allora stava facendo delle terapie in day hospital nella clinica privata, una delle più note di Palermo. Nel documento falso esibito ai sanitari c’era scritto il nome di AndreaBonafede. Il boss si era recato nella clinica privata dove è stato arrestato “per sottoporsi a terapie“, spiega il comandante del Ros dei carabinieri Pasquale Angelosanto dopo l’arresto del boss compiuto dagli uomini del raggruppamento speciale assieme a quelli del Gis e dei comandi territoriali. Insieme a Messina Denaro, è stato arrestato anche uno dei suoi fiancheggiatori: GiovanniLuppino, di Campobello di Mazara, accusato di favoreggiamento. Avrebbe accompagnato il boss alla clinica.
I segnali –L’ultima “primula rossa” di Cosa Nostra, 60 anni, si era reso irreperibile subito dopo la cattura di TotòRiina, avvenuta proprio trent’annifa. E mentre la polizia scientifica si incaricava di aggiornare, invecchiandola, l’immagine giovanile del boss il suo impero miliardario veniva pezzo per pezzo smontato e sequestrato. È così che è stata smantellata la sua catena di protezione e di finanziamento. Pochi mesi fa, a metà novembre, Il Gazzettino aveva riportato le dichiarazioni di SalvatoreBaiardo, l’uomo che ha gestito la latitanza dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano in Nord Italia. Baiardo aveva dichiarato che Messina Denaro era gravementeammalato. È del settembre scorso invece l’arresto di 35 persone, ritenute fiancheggiatori del boss. Tra queste anche Francesco Luppino, considerato uno dei “fedelissimi” di Matteo Messina Denaro. Una settimana fa, invece, il ministro dell’Interno MatteoPiantedosi aveva dichiarato: “Auspico, per giustizia nei confronti delle vittime, che venga preso. Confido nelle forze di polizia e magistratura”.
I segreti delle stragi – Nato a Castelvetrano nell’aprile del 1962, sull’ultimo superlatitante di Cosa nostra sono stati scritti centinaia di articoli, decine di libri, informative d’indagine lunghe migliaia e migliaia di pagine. Per il suo arresto, negli anni, sono stati impegnati centinaia di uomini delle forze dell’ordine. Messina Denaro era l’ultimo boss mafioso di “prima grandezza” ancora ricercato. Una latitanza record come quella dei suoi fedeli alleati Totò Riina, sfuggito alle manette per 23 anni, e Bernando Provenzano, riuscito a evitare la galera per 43 anni. Era soprattutto l’unico boss rimasto in libertà a conoscere i segreti delle stragi. Nei più gravi fatti criminali degli ultimi trent’anni, a cominciare dagli attentati del ’92 in cui furono uccisi GiovanniFalcone e PaoloBorsellino, è stata riconosciuta la sua mano. Da Riina ai fratelli Graviano, passando per Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e poi anche Bernardo Provenzano, tutti gli uomini della piovra che hanno attraversato quel biennio di terrore erano però già finiti, in un modo o nell’altro, in carcere. Tutti tranne lui, fino ad oggi.
Le condanne –Il padrino di Castelvetrano si è sempre mosso tra ferocia criminale e pragmatismopolitico. Per questo è stato considerato l’erede di Bernardo Provenzano ma soprattutto del padre don Ciccio, altro boss della nomenclatura tradizionale morto da latitante nel 1998. Quando il vecchio patriarca scomparve, del giovane Matteo si erano perse le tracce già da cinque anni, nel 1993, prima ancora che fosse coinvolto nelle indagini sulle stragi di quegli anni. Il “fantasma” di Messina Denaro era inseguito da una montagna di mandati di cattura e di condanne all’ergastolo per associazione mafiosa, omicidi, attentati, detenzione e trasporto di esplosivo. Il capomafia trapanese è stato condannato all’ergastolo per decine di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell’acido dopo quasi due anni di prigionia, per le stragi del 1992, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, e per gli attentati del 1993 a Milano, Firenze e Roma.
Dichiarazione spontanea del prelato durante un'udienza.
"Lei, lo avrete capito, ha qualcosa contro di me.
Anzi, molto contro di me.
E una delle accuse che smentisco in pieno è quella di aver dato io ordine di arrestarla e di non aver avuto pietà del suo stato di donna incinta. È una bugia, falso, avvenne i primi di novembre 2015. Io ero nel mio Paese, in Sardegna. Chi la interrogò fu il comandante Giani e mi telefonò: ho arrestato la signora Chaouqui. Gli dissi: 'Ma sei matto?'. 'No, avevo tutte le ragioni per farlo'. Poi disse in seguito che era in stato interessante, era di pochi mesi. Come si fa a vedere a tre mesi? La respingo totalmente". Così il card. Becciu su Francesca Chaouqui.
In una dichiarazione spontanea in aula alla fine dell'interrogatorio della testimone Francesca Immacolata Chapuqui, il cardinale Anelo Becciu ha detto di riconoscere "che non mi è facile dopo questa giornata parlare in maniera serena. Avrei voluto dire che nutro quasi un sentimento di gelosia nei suoi confronti, è così facile dire io il Santo Padre, io vado, io ritorno, io a nome del Santo Padre. Io ho fatto il sostituto non ho avuto questa facilità di andare dal Papa, di portare ordini".
"Riferendosi alla Cosea - ha proseguito -, dice che veniva in Segreteria di Stato, si imponeva a Perlasca. Mi pare strano… Di solito chi viene è il presidente della Cosea e chiede prima al sostituto e chiedere se può entrare coi collaboratori e avere documenti dell'ufficio, è strano e non molto veritiero. Com'è possibile che ha del materiale?"
"Io da quando ho lasciato l'ufficio non ho più nulla - ha sottolineato -, non posso mantenere un foglio dell'ufficio, tutti devono andare via con la borsa vuota i doc si lasciano, mi meraviglio che sia in possesso di questi fogli. È contro tutte le regole. Come può, una così disporre di documenti se sono delicati?". "Accennava i messaggi, io ce li ho ancora tutti qui, come può dire che sono della signora Marogna che gestisce i miei account? - ha continuato Becciu - Ce li ho tutti qui, senza una risposta. E sapete perché? Perché quando ne parlavo con il Santo Padre mi diceva le consiglio di non rispondere. Una volta solo ho risposto per Natale, faccina del figliolo, auguri le dissi. Non può dire che sono gestiti chissà da chi". "Sono messaggi in cui fa lodi, in cui mi presenta il migliore di tutti, e messaggi in cui mi distrugge totalmente", ha osservato.
"Invece mi prendo responsabilità di due atti per i quali si può arrabbiare e risentire - ha detto ancora -. Quando nel 2013, fu composta la commissione Cosea e alla Segreteria di Stato fu inviata la lista dei nomi, io a vedere il nome trasalii perché avevo avuto segnalazioni gravi sulla sua persona. Di solito era prassi che la Segreteria di Stato desse il beneplacito alle nomine, per fare il 'de more'. Eravamo a inizi pontificato e le regole stavano saltando. Il nominativo… fummo messi davanti al fatto compiuto. Qualche mese prima ebbi segnalazioni che non deponevano a favore di questa signora, corsi da chi di dovere e dissi: questa signora non è degna di lavorare qui in Vaticano. Non mi ascoltarono" "Altro atto, Vatileaks - ha aggiunto Becciu -, presenziai commissione in SdS che doveva decidere se procedere a denuncia degli autori della pubblicazione dei doc segreti o procedere al licenziamento, in via amministrativa. La commissione, tutti, si pronunciarono per la denuncia ai magistrati. Il comandante portò risultato al Papa e il Papa autorizzò la denuncia. Possono essere motivi di astio, ma sono gli unici con cui mi sono posto con la Chaouqui in Vaticano".
Sulla questione grazia, "è vero lei mi ha mandato Lojudice, il suo parroco che io accolsi, e dissi: 'Presenti formalmente la richiesta e la porterò al Santo Padre'. Io la presentai, la sua risposta fu questa: 'Eccellenza, non mi faccia più questo nome qui dentro'. 'Santo Padre manca poco tempo, accontentiamola'. Lui ripete: 'Non mi faccia più questo nome qui dentro, io non intendo concedere la grazia. E inoltre è ancora valido il biglietto che non entri in Vaticano, questa donna non deve entrare". Eravamo nel 2017".
L'udienza. E' stata un'udienza molto movimentata, in cui il presidente Giuseppe Pignatone ha fatto molta fatica a tenere il dibattimento sui binari assegnati, tra accenti polemici, proteste delle difese, impulsività ed escandescenze delle due testimoni, quella di oggi al Tribunale vaticano nel processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, in cui sono state sentite le testimoni Genoveffa Ciferri e Francesca Immacolata Chaouqui. In particolare, la prima ha riferito dei suoi rapporti d'amicizia con mons. Alberto Perlasca, ex capo dell'Ufficio amministrativo, cui ha intestato anche una casa e sue proprietà a Greccio (Rieti), dell'averlo voluto aiutare quand'era indagato nell'inchiesta - andando anche a casa del card. Becciu per sostenerne la necessità di scagionarlo, dopo aver temuto per una somministrazione di barbiturici al suo amico e sodale -, del fatto che il porporato, suo superiore come sostituto per gli Affari generali, lo tenesse "in uno stato di soggezione fuori da ogni immaginazione". La donna -, terziaria francescana, ex collaboratrice del Dis come analista e geostratega - ha anche riferito di aver ricevuto a lungo "informazioni ampie e dettagliate sul corso della indagini" dalla stessa Chaouqui, che le vantava "una strategia comune col promotore di giustizia Diddi, col prof. Milano, con la Gendarmeria e persino col Santo Padre". Si è detta al corrente, informata dalla Chaouqui, anche di un progetto per arrestare l'imputata Cecilia Marogna sul suolo vaticano, invitandola in Segreteria di Stato, salvo poi il fatto che il cardinale Pietro Parolin si sarebbe tirato indietro.