«Mentre tutto il mondo si preoccupa del dopo-Mubarak, noi ci dilaniamo sulla “nipote”». Lucio Caracciolo, direttore di “Limes”, non ha dubbi: in Egitto, l’Italia – cruciale frontiera mediterranea – sta perdendo un’occasione storica: ricucire lo strappo con il Nord Africa post-coloniale e frenare l’esodo della disperazione mettendo in campo una nuova alleanza politica ed economica. «L’occasione è storica: spezzare nel più strategico paese arabo il circolo vizioso di miseria, frustrazione, regimi di polizia e terrorismo – spesso alimentato dai regimi stessi per ottenere soldi e status dall’Occidente – che destabilizza Nordafrica e Vicino Oriente fino al Golfo e oltre».
Il futuro imminente è quello di un Egitto “normale”, governato da un potere legittimato dal popolo: dopo la scintilla tunisina scrive Caracciolo su “Repubblica”, la nostra frontiera sud-orientale può cambiare in meglio, avvicinandosi ai nostri standard di libertà e democrazia, archiviando l’avidità autoritaria delle élite postcoloniali, impegnate a coltivare le proprie rendite e indifferenti a una società giovane, esigente. Più di qualsiasi altra nazione europea, continua Caracciolo, è proprio l’Italia che dovrebbe appassionarsi al sommovimento in corso al Cairo: «Chi più di noi dovrebbe interessarsi alla ricostruzione del circuito mediterraneo, destinato a intercettare la quasi totalità dei flussi commerciali fra Asia ed Europa, di cui saremmo naturalmente il centro?».
A nessuno come l’Italia conviene, eccome, la ricomposizione della frattura nord-sud fra le sponde del “mare nostrum”: «O davvero pensiamo sia possibile erigere una barriera impenetrabile in mezzo al Mediterraneo? Qualcuno pensa ancora che lo sviluppo del Sud del mondo sia una minaccia e non una formidabile risorsa per il nostro stesso sviluppo – anzi, la condizione perché non si arresti?». Eppure, osserva Caracciolo, «Roma tace». Il governo Berlusconi è rimasto in silenzio fino a sabato, «e quando ha parlato – via Frattini – nessuno se n’è accorto». Un guaio: «Stiamo perdendo l’occasione di incidere in una svolta storica – stavolta l’aggettivo èpertinente – che riguarda molto da vicino la vita nostra, soprattutto dei nostri figli e nipoti».
Se anche i militari riuscissero ad affogare nel sangue le aspettative della piazza, continua il direttore di “Limes”, la rivoluzione egiziana ha ormai sancito che il paradigma delle dinastie parassitarie, incentivato dai governi occidentali, non garantisce più nessuno: certamente non i popoli che opprime, ma nemmeno noi europei. «Quei regimi significano solo caos, repressione e miseria: l’ambiente ideale per i jihadisti. I quali, non dimentichiamolo mai, sono incistati nelle nostre metropoli. Se sbagliamo politica in Egitto, in Tunisia o in altri paesi del nostro Sud, il prezzo lo paghiamo in casa». La colpa non è solo dell’attuale governo, dice Caracciolo, ma della gigantesca rimozione che l’Italia ha compiuto di se stessa.
«Abbiamo dimenticato che per secoli l’Egitto è stato fecondato dalla nostra diaspora», ricorda Caracciolo: un’area che un secolo fa ospitava un milione di connazionali, operai e artigiani, ma anche banchieri, architetti e burocrati pubblici. Nell’Egitto di allora «l’italiano era lingua franca, usata nell’amministrazione pubblica». Era italiano il fondatore delle Poste egiziane, così come le diciture dei primi francobolli. «Decine di migliaia di italiani, tra cui molti ebrei, abitavano il Cairo e Alessandria, dove i segni del “liberty alessandrino” sono ancora visibili». Un legame che è rimasto forte nell’egittologia: «A Torino abbiamo il più importante museo di antichità egizie dopo quello del Cairo», devastato in questi giorni. «Finanziare e sostenere la messa in sicurezza del Museo del Cairo e dei suoi reperti – sostiene Caracciolo – significa non solo salvare un giacimento culturale di valore universale, ma un atto di rispetto per la pietra angolare dell’identità egiziana».
Eppure, continua il direttore di “Limes”, nell’immaginario collettivo (ossia televisivo) sembra che l’Egitto sia un qualsiasi pezzo d’Africa, un arcipelago di miserie e arretratezze, su cui svettano le Piramidi e scintillano le spiagge di Sharm el-Sheikh. «Ma da dove spuntano i giovani anglofoni che maneggiano Twitter e Facebook – già ribattezzato Sawrabook, “libro della rivoluzione” – e rischiano la vita per la libertà?». La realtà è che «per anni abbiamo vissuto di verità ricevute», mentre «la società civile egiziana cresceva, si strutturava». I Fratelli Musulmani? Mubarak ce li ha “venduti” come come banda di terroristi, e invece oggi si scopre che sono uno dei cardini di un’opposizione civile composita, fatta di «laici, cristiani, nazionalisti, socialisti, gente che semplicemente non ne può più della “repubblica ereditaria”».
Quanto meno daremo ascolto e supporto alle loro istanze, avverte Caracciolo, tanto più il rischio di una deriva islamista diverrà concreto. «E’ quanto sperano Suleiman e gli altri anziani ufficiali drogati da decenni di potere incontrastato: per riproporre e rivenderci il muro contro muro». Obama e alcuni leader europei forse cominciano a capirlo: fra cautele ed esitazioni invitano a voltare pagina. Loro, ma non noi italiani: «Continuiamo ad aggrapparci a un Egitto che non c’è più», conclude Caracciolo: «L’Egitto che prova a nascere non lo dimenticherà. La sua sconfitta sarà la nostra. La sua vittoria, solo sua» (info: www.repubblica.it).
http://www.libreidee.org/2011/01/il-mondo-discute-di-mubarak-noi-invece-della-nipote/
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