Prem Shankar Jha, Il caos prossimo venturo. Il capitalismo contemporaneo e la crisi delle nazioni, introduzione di E. Hobsbawm, trad. di Andrea Grechi e Andrea Spilla, Neri Pozza, Vicenza, 2007, pp. 677, € 25,00.
La pubblicazione del grande saggio dell’economista indiano Prem Shankar Jha Il caos prossimo venturo merita attenzione per più di un motivo. In primo luogo, perché consente di focalizzare l’attenzione degli analisti occidentali, inguaribilmente onfalocentrici, sull’alto livello della produzione culturare orientale. È interessante vedere come alcuni fondamenti dell’economia e della storiografia (Arrighi, Polanyi, Braudel , Schumpeter, esplicitamente richiamati dall’autore sin dalle prime pagine) siano tutt’ora attuali, forse perché capaci di visioni globali che sfuggivano alla centralità dell’ombellico occidentale.
In secondo luogo, la ricostruzione di Prem Shankar Jha è utile a ripensare alcune periodizzazioni del Novecento, per scoprirne il fiato cortissimo: quelle elaborazioni che, ponendo il 1989 come termine conclusivo di una fase storica, sono rimaste poi spiazzate dal rapido volgere degli eventi successivi. Le periodizzazioni di Furet (Il passato di un’illusione), Fukuyama (La fine della storia), e ad un più basso livello, la tesi della guerra civile europea di Nolte (improvvidamente sdoganata da Canfora) non riescono infatti a cogliere come il Novecento, al di là delle ricostruzioni affascinate più dalla schiuma degli eventi che dall’onda lunga delle strutture storico-economiche, prolunghi la propria lunga ombra sul terzo millennio. Che è, per contro, la tesi, fatta proprio dall’economista indiano, di Arrighi e del suo Il lungo XX secolo, contemporaneo al più noto Il Secolo breve di Hobsbawm: un testo nel quale, forse per la prima volta con piena consapevolezza critica, compare il termine “globalizzazione”. In quel testo Arrighi, proseguendo l’opera di Braudel, individuava nella storia del capitalismo quattro grandi cicli di accumulazione sistemica: il secolo genovese, il ciclo olandese, il lungo ciclo britannico, e infine il ciclo statunitense. Arrighi ipotizzava (e in questo si è sbagliato) che il ciclo americano fosse sul punto di entrare in crisi a causa del sorgere di un nuovo ciclo, quello delle cosiddette “tigri asiatiche”. Nondimeno, l’ascesa del gigante cino-indiano riporta in primo piano l’opera di Arrighi, che nel frattempo è stato oggetto di critica da parte di Negri e Hardt per il suo impianto strutturale: i clicli di accumulazione, sostengono gli autori di Impero, sembrano configurarsi come strutture quasi ideali, comunque indipendenti dalle lotte e dalle crisi che hanno lacerato il capitalismo e segnatamente, oggi, dal sorgere della moltitudine come causa della crisi del sistema degli stati-nazione. In sintesi: se i cicli e il loro alternarsi sono strutture che agiscono al di sotto dei processi storici, determinandoli quasi secondo necessità, va smarrita la centralità della frattura tardo-novecentesca: il crollo dell’equilibrio disegnato dalla Pace di Westfalia al termine della guerra dei Trent’anni e l’avvento della globalizzazione come epoca in cui gli stati nazionali perdono la propria centralità in favore di istituzioni ed agenzie sovranazionali. Ora, il terzo motivo per leggere con attenzione il lavoro di Jha è il suo tentativo di tenere insieme il piano storico-economico disegnato dalle opere di Braudel e Arrighi con quello storico-politico caratterizzato dalla fine dell’ordine westfaliano. È un rapporto ambivalente (lo ha notato il marxista americano Louis Proyect sul proprio sito) quello che impronta il rapporto Jha-Negri: se alcuni assunti di Impero sono condivisi da Jha, è altrettanto vero che l’economista indiano cerca nelle strutture economiche, e non nel soggettivismo che impronta la comparsa della moltitudine sulle ceneri della classe operaia novecentesca, la causa della crisi che pervade il capitalismo globale, caratterizzato dalla «simultanea comparsa di una disoccupazione di natura cronica (ossia non ciclica)» e dall’allargamento «delle disuguaglianze reddituali dopo un secolo di livellamento». Jha esamina, per escluderle, quattro spiegazioni “canoniche”: lo shock petrolifero degli anni Settanta, il raggiungimento di una maturità industriale, l’esaurimento della spinta tecnologica e il mutamento di paradigma dell’economia politica. Queste cause possono spiegare il rallentamento dell’economia negli anni Settanta, ma non il carattere strutturale della disoccupazione e delle disuguaglianze, né il «mistero della crescita lenta che ha agitato i sogni degli economisti». La spiegazione va cercata nei processi di deindustrializzazione, ossia di spostamento della produzione nelle aree a basso costo, causati sia dal mutato assetto delle periferie del globo, sia dalla ricaduta sulle aziende più deboli degli esiti delle contrattazioni collettive: quindi una combinazione di processi strutturali e di lotte novecentesche che disegnano il quadro attuale, segnato da un profondo pessimismo che l’autore eredita da Hobsbawm: la sua ricostruzione, infatti, in qualche modo riabilita l’idea di un “breve Novecento”, affermando il passaggio da un “breve secolo americano” all’età del capitalismo globale, e costituisce un tentativo di fornire ragioni alla lettura dell’ultimo trentennio del Novecento come un periodo di decadenza da parte dello storico inglese. Jha sottolinea come ogni passaggio da un ciclo di accumulazione all’altro sia segnato da processi distruttivi: il «caos sistemico» verso cui siamo a suo parere rapidamente avviati, anche per effetto del sostanziale fallimento delle politiche imperiali americane, sembra ridefinire negativamente quell’elemento di “distruzione creatrice” che Schumpeter leggeva nel cuore del capitalismo. Lo stato delle cose richiederebbe l’istituzione di «uncommonwealth che possa funzionare immediatamente o in tempi brevissimi»: ma «il modo in cui gli Stati Uniti hanno fatto della coercizione il metodo preferito per trattare con le altre nazioni» lascia pochi dubbi su quanto rapidamente il mondo stia precipitando verso l’oscurità.
In secondo luogo, la ricostruzione di Prem Shankar Jha è utile a ripensare alcune periodizzazioni del Novecento, per scoprirne il fiato cortissimo: quelle elaborazioni che, ponendo il 1989 come termine conclusivo di una fase storica, sono rimaste poi spiazzate dal rapido volgere degli eventi successivi. Le periodizzazioni di Furet (Il passato di un’illusione), Fukuyama (La fine della storia), e ad un più basso livello, la tesi della guerra civile europea di Nolte (improvvidamente sdoganata da Canfora) non riescono infatti a cogliere come il Novecento, al di là delle ricostruzioni affascinate più dalla schiuma degli eventi che dall’onda lunga delle strutture storico-economiche, prolunghi la propria lunga ombra sul terzo millennio. Che è, per contro, la tesi, fatta proprio dall’economista indiano, di Arrighi e del suo Il lungo XX secolo, contemporaneo al più noto Il Secolo breve di Hobsbawm: un testo nel quale, forse per la prima volta con piena consapevolezza critica, compare il termine “globalizzazione”. In quel testo Arrighi, proseguendo l’opera di Braudel, individuava nella storia del capitalismo quattro grandi cicli di accumulazione sistemica: il secolo genovese, il ciclo olandese, il lungo ciclo britannico, e infine il ciclo statunitense. Arrighi ipotizzava (e in questo si è sbagliato) che il ciclo americano fosse sul punto di entrare in crisi a causa del sorgere di un nuovo ciclo, quello delle cosiddette “tigri asiatiche”. Nondimeno, l’ascesa del gigante cino-indiano riporta in primo piano l’opera di Arrighi, che nel frattempo è stato oggetto di critica da parte di Negri e Hardt per il suo impianto strutturale: i clicli di accumulazione, sostengono gli autori di Impero, sembrano configurarsi come strutture quasi ideali, comunque indipendenti dalle lotte e dalle crisi che hanno lacerato il capitalismo e segnatamente, oggi, dal sorgere della moltitudine come causa della crisi del sistema degli stati-nazione. In sintesi: se i cicli e il loro alternarsi sono strutture che agiscono al di sotto dei processi storici, determinandoli quasi secondo necessità, va smarrita la centralità della frattura tardo-novecentesca: il crollo dell’equilibrio disegnato dalla Pace di Westfalia al termine della guerra dei Trent’anni e l’avvento della globalizzazione come epoca in cui gli stati nazionali perdono la propria centralità in favore di istituzioni ed agenzie sovranazionali. Ora, il terzo motivo per leggere con attenzione il lavoro di Jha è il suo tentativo di tenere insieme il piano storico-economico disegnato dalle opere di Braudel e Arrighi con quello storico-politico caratterizzato dalla fine dell’ordine westfaliano. È un rapporto ambivalente (lo ha notato il marxista americano Louis Proyect sul proprio sito) quello che impronta il rapporto Jha-Negri: se alcuni assunti di Impero sono condivisi da Jha, è altrettanto vero che l’economista indiano cerca nelle strutture economiche, e non nel soggettivismo che impronta la comparsa della moltitudine sulle ceneri della classe operaia novecentesca, la causa della crisi che pervade il capitalismo globale, caratterizzato dalla «simultanea comparsa di una disoccupazione di natura cronica (ossia non ciclica)» e dall’allargamento «delle disuguaglianze reddituali dopo un secolo di livellamento». Jha esamina, per escluderle, quattro spiegazioni “canoniche”: lo shock petrolifero degli anni Settanta, il raggiungimento di una maturità industriale, l’esaurimento della spinta tecnologica e il mutamento di paradigma dell’economia politica. Queste cause possono spiegare il rallentamento dell’economia negli anni Settanta, ma non il carattere strutturale della disoccupazione e delle disuguaglianze, né il «mistero della crescita lenta che ha agitato i sogni degli economisti». La spiegazione va cercata nei processi di deindustrializzazione, ossia di spostamento della produzione nelle aree a basso costo, causati sia dal mutato assetto delle periferie del globo, sia dalla ricaduta sulle aziende più deboli degli esiti delle contrattazioni collettive: quindi una combinazione di processi strutturali e di lotte novecentesche che disegnano il quadro attuale, segnato da un profondo pessimismo che l’autore eredita da Hobsbawm: la sua ricostruzione, infatti, in qualche modo riabilita l’idea di un “breve Novecento”, affermando il passaggio da un “breve secolo americano” all’età del capitalismo globale, e costituisce un tentativo di fornire ragioni alla lettura dell’ultimo trentennio del Novecento come un periodo di decadenza da parte dello storico inglese. Jha sottolinea come ogni passaggio da un ciclo di accumulazione all’altro sia segnato da processi distruttivi: il «caos sistemico» verso cui siamo a suo parere rapidamente avviati, anche per effetto del sostanziale fallimento delle politiche imperiali americane, sembra ridefinire negativamente quell’elemento di “distruzione creatrice” che Schumpeter leggeva nel cuore del capitalismo. Lo stato delle cose richiederebbe l’istituzione di «uncommonwealth che possa funzionare immediatamente o in tempi brevissimi»: ma «il modo in cui gli Stati Uniti hanno fatto della coercizione il metodo preferito per trattare con le altre nazioni» lascia pochi dubbi su quanto rapidamente il mondo stia precipitando verso l’oscurità.
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