Non ci sono parole, ma solo risate, per commentare la servitù volontaria dei berluscones che da trent’anni si vendono la faccia in cambio della pagnotta, fingendo di credere alla favola del bravo imprenditore che s’è fatto da sé, boicottato dai poteri forti, dai comunisti e dalle toghe rosse, ma alla fine viene sempre assolto (o prescritto, per loro è lo stesso) perché è innocente come un giglio di campo, non ha mai corrotto politici, giudici, finanzieri, testimoni, senatori e minorenni, era davvero convinto che Mangano fosse uno stalliere, Dell’Utri un bibliofilo, Previti un avvocato, Gelli un materassaio, Craxi uno statista, Ruby (marocchina) la nipote di Mubarak (egiziano) e, se una volta lo condannano per una frode fiscale da 368 milioni di dollari, è un complotto. Più preoccupante è il caso dei giornali “indipendenti” (dalla verità e dal ridicolo), che prendono sul serio o sottogamba l’ultima minchiata della Banda B., utilissima ai loro traffici per il governo di larghe intese&imprese. Da anni invocano una legge-bavaglio contro le intercettazioni legali a fini di giustizia (quelle disposte dal giudice su richiesta del pm) e ora non si scandalizzano per quelle illegali a fini di ingiustizia (realizzate da B., non si sa se d’accordo col giudice Franco o a sua insaputa, né dove, né quando, né montate da chi, certamente conservate per 7 anni con tutti i ricatti possibili e immaginabili, infine diffuse dopo la morte del parlante per salvarlo dalle conseguenze e fare un po’ di casino). Che non sono una novità. Ma una prassi.
Da quando non riesce più a comprarsi i giudici, B. vince la sua innata ritrosia per le intercettazioni e se le fa in casa per sputtanare chi gli dà noia. Il nastro, segreto perché penalmente irrilevante, di Fassino che dice a Consorte “abbiamo una banca?”, rubato da un dirigente dell’azienda che l’aveva realizzato per i pm, regalato a B. e finito nel 2006 in prima pagina sul Giornale per la campagna elettorale anti-Pd, lo ricordano tutti tranne il Pd. Ma il vero “nastro zero” è quello del 1995 contro Antonio Di Pietro che, appena svestita la toga, respinge le sirene di B. e vuole entrare in politica con tutta la sua popolarità. I berluscones, terrorizzati, lo coprono di denunce alla Procura di Brescia, ma le indagini languono e rischiano il flop. Così B., il 7 settembre, invita ad Arcore un suo vecchio dipendente e amico, legato anche a Di Pietro: il costruttore Antonio D’Adamo, che naviga in pessime acque. E si impegna ad aiutarlo finanziariamente in cambio della testa di Tonino. Quando D’Adamo esce da villa San Martino, chiama la figlia che gli domanda: “Papà, ma tu sei riuscito a fare qualcosa per lui?”. E D’Adamo: “Certo, Patrizia, c’è tutta una contropartita…”.
Silvio gli ha appena promesso di levargli le banche dalle calcagna e di sbloccargli un affare edilizio in Libia. Due anni dopo Previti produce a Brescia un memoriale di D’Adamo che rievoca creativamente un prestito di 100 milioni di lire all’ex pm (poi restituito) e altri particolari opportunamente ritoccati per accreditare l’accusa dei pm: che Di Pietro abbia concusso il banchiere-corruttore Pacini Battaglia per salvarlo da Mani Pulite in cambio di una tangente parcheggiata sui conti di D’Adamo. B. corre a testimoniare: “D’Adamo mi ha riferito di aver ricevuto da Pacini un finanziamento di 9 miliardi, di cui avrebbe dovuto restituire a Pacini 4,5 miliardi, mentre la restante somma avrebbe dovuto essere destinata al dottor Di Pietro, pienamente consapevole e consenziente”. E aggiunge che, per puro caso, il suo collaboratore Roberto Gasparotti ha registrato D’Adamo mentre gli confida il peccato mortale di Tonino. Gasparotti presenta ai pm un “taglia e cuci” delle parole di D’Adamo, che però non sono così chiare come dice B.: è anzi quest’ultimo che tenta di far dire al costruttore che Di Pietro era un corrotto, mentre D’Adamo, finito in un gioco più grande di lui e rischiando la calunnia, si schermisce: “Dottore, lei sa quanto le voglio bene e quindi non ho paura… ma se dice una cosa di questo tipo si incasina… lei queste cose le lasci dire a me…”. Nel nastro “taglia e cuci” made in Arcore, D’Adamo mente su un credito aperto con Di Pietro (che invece ha restituito tutto nel ’94). Ma quando depone a Brescia, si contraddice e non conferma che Di Pietro sia un corrotto.
Così l’ex pm è prosciolto dal gup Anna Di Martino con parole definitive su B. (almeno per chi ha buona memoria): “La genesi delle accuse di D’Adamo rinviene dai sedimentati risentimenti nutriti da Silvio Berlusconi nei confronti dell’ex magistrato, risultando poi per tabulas che proprio Berlusconi (e Previti) sospinse D’Adamo alla Procura di Brescia, utilizzando ogni mezzo e facendo leva sull’antico rapporto di lavoro subordinato e sullo stato di dipendenza finanziaria e psicologica di D’Adamo”. Il nastro dimostra un’“inquietante soggettiva interpretazione dei fatti da parte del Berlusconi, ma anche un abbandono strumentale del D’Adamo a rivelazioni forzatamente alterate dei suoi rapporti con Di Pietro” per “soddisfare l’ansia accusatoria del suo interlocutore (Berlusconi) nei confronti dell’ex pm e ottenere soccorsi”. Ecco, signore e signori che ancora ci cascate: questo è l’uomo, l’ometto che con una mano accende il registratore per le balle di Franco contro Esposito e con l’altra sventola il vessillo della privacy contro le intercettazioni. Quelle legali, quindi non le sue.
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