Illustrazione di Giorgio De Marinis/Il Sole 24 Ore |
Se passasse la proposta del senatore Wyden, il proprietario di Tesla verserebbe 50 miliardi, il fondatore di Amazon 44 e Zuckerberg 29 miliardi.
Il conto più salato lo pagherebbe Elon Musk, il proprietario di Tesla. L’uomo più ricco del mondo, con un patrimonio stimato in 274 miliardi di dollari, dovrebbe versare al Fisco statunitense 50 miliardi tondi tondi. Il salasso colpirebbe anche Jeff Bezos, suo acerrimo rivale nella corsa per la conquista commerciale dello spazio. Il fondatore di Amazon, al secondo posto tra i miliardari più facoltosi della terra con un patrimonio di 196 miliardi di dollari, dovrebbe pagare 44 miliardi. Per Mark Zuckerberg, in questi giorni nell’occhio del ciclone per le rivelazioni della whistleblower ed ex manager di Facebook, Frances Haugen, il conto sarebbe invece di “soli” 29 miliardi. Così come per Larry Page, uno dei fondatori di Google: anche lui verserebbe 29 miliardi nelle casse del governo americano.
I “magnifici quattro.”
Secondo il Bloomberg Billionaires Index, i “magnifici quattro” posseggono complessivamente 735 miliardi di dollari e ne dovrebbero versare 152 al Fisco Usa se dovesse passare la legge proposta dal democratico Ron Wyden, presidente della commissione Finanze del Senato. Conosciuta come la “tassa sui miliardari”, la proposta ha l’appoggio del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, che da giorni ormai invade i social network con tweet in cui spiega perché è necessario far pagare le giuste imposte anche agli uomini più ricchi del Paese.
Nell’impostazione attuale la nuova tassa punta a incassare 500 miliardi di dollari in cinque anni, prima di andare a regime. Complessivamente, i 10 americani più ricchi possiedono un patrimonio di circa 1.300 miliardi di dollari e il piano Wyden richiederebbe loro di pagare in totale di 276 miliardi di tasse.
Il peso maggiore ricadrebbe, nell’ordine, su Musk, Bezos, Zuckerberg e Page – come abbiamo visto – seguiti da Sergey Brin (anch’egli fondatore di Google), Larry Ellison (Oracle), Warren Buffett (Berkshire Hathaway), Bill Gates (Microsoft), Steve Ballmer (Microsoft) e Jim Walton (Wal-Mart). I rimanenti 224 miliardi verrebbero pagati da altri 700 miliardari.
Questi calcoli si basano sulla ricchezza rilevata domenica 24 ottobre dal Bloomberg Billionaires Index ma le stime delle entrate si evolveranno insieme al patrimonio dei miliardari. Solo lunedì 25 ottobre, infatti, la ricchezza totale detenuta da Musk è salita di ben 36 miliardi di dollari a causa di un nuovo ordine di Tesla dalla società di noleggio Hertz.
L’insofferenza di Elon Musk.
Come maggiore contribuente della nuova imposta, Musk non l’ha presa affatto bene e alle 2,22 di notte del 26 ottobre ha lanciato un tweet in cui ventila la possibilità che dopo aver tassato i miliardari il governo potrebbe tassare anche gli altri contribuenti: «Alla fine, finiscono i soldi degli altri e poi vengono a prendere i tuoi», ha scritto.
In base alla proposta di Wyden (che non è per nulla sicuro che passerà così come è stata formulata, anche perché ci sarebbero dei profili di costituzionalità), i miliardari inizieranno a pagare le tasse sulla loro maggiore ricchezza ogni anno, proprio come i lavoratori pagano le tasse sui loro stipendi. L’imposta si applicherà solo ai contribuenti la cui ricchezza supera il miliardo di dollari: circa 700 famiglie su 130 milioni di famiglie degli Stati Uniti, ovvero lo 0,00005% del totale. Oppure riguarderà chi ha guadagnato oltre 100 milioni di dollari per tre anni consecutivi.
L’imposta sarà valutata annualmente sui beni negoziabili, come azioni, fondi comuni di investimento e derivati, il cui valore è noto all’inizio e alla fine dell’anno e il proprietario ottiene un rendiconto finanziario al termine dei 12 mesi. Per le attività non negoziabili, come un’impresa non quotata o immobili, le imposte saranno differite fino alla vendita dell’attività.
Gli interessi saranno addebitati per quegli anni in cui le tasse sono state eluse e il bene è aumentato di valore. Se l’asset perderà invece valore, allora saranno riconosciuti dei crediti d’imposta.
L’aliquota fiscale non è stata ancora determinata, ma è probabile che sia almeno l’aliquota massima sulle plusvalenze, che attualmente è del 20% più un’imposta sul reddito da capitale del 3,8%. In totale, dunque, il 23,8%.
Le aliquote basse dei miliardari.
I miliardari pagano aliquote fiscali effettive molto basse anche perché il valore delle loro azioni societarie non è soggetto alle imposte sulle plusvalenze fino a quando non vengono vendute. Il piano di Wyden equivarrebbe a un importante cambiamento nel Codice fiscale degli Stati Uniti istituendo la tassa del 23,8% sull’aumento del valore delle azioni - cioé la “plusvalenza non realizzata” - anche prima che le attività vengano vendute.
Di conseguenza, il piano ricadrebbe principalmente sui miliardari che hanno mantenuto le loro azioni quotate in Borsa, un criterio facilmente misurabile e pubblicamente identificabile. Le loro partecipazioni aziendali private, come SpaceX di Musk o Blue Origin di Bezos, probabilmente non rientrerebbero nella tassa.
«Ci sono due Codici fiscali in America – ha sottolineato il senatore Wyden spiegando come funzionerà la sua proposta -. Il primo è obbligatorio per i lavoratori che pagano le tasse prelevate da ogni busta paga. Il secondo è volontario per i miliardari che rimandano il pagamento delle tasse per anni, se non a tempo indeterminato. Due Codici fiscali consentono ai miliardari di utilizzare il reddito in gran parte non tassato della loro ricchezza per costruire più ricchezza, mentre le famiglie che lavorano lottano per bilanciare il mutuo con le spese e le bollette. Ecco perché è il momento di un’imposta sul reddito dei miliardari».
Il boom durante la pandemia.
Gli oltre 700 miliardari americani hanno visto la loro ricchezza aumentare di 1,8 trilioni di dollari (+62%), durante i primi 17 mesi di pandemia. Sulla base dei dati del Fisco statunitense, il giornale investigativo no-profit ProPublica ha scoperto che Jeff Bezos ha pagato zero tasse federali sul reddito nel 2007 e nel 2011, Elon Musk ne ha pagate zero nel 2018 e Michael Bloomberg ha pagato zero più volte negli ultimi anni.
ProPublica ha anche scoperto che i 25 miliardari più ricchi hanno pagato un’aliquota fiscale effettiva di appena il 3,4% su un incremento di 400 miliardi di dollari della loro ricchezza tra il 2014 e il 2018.
Gli economisti della Casa Bianca, dal canto loro, hanno rilevato che in media le 400 famiglie più ricche degli Stati Uniti hanno pagato un’aliquota effettiva dell’imposta federale sul reddito di poco superiore all’8% negli ultimi anni, se si calcola l’aumento del valore delle loro azioni. Insomma - afferma la Casa Bianca - i miliardari possono pagare aliquote fiscali inferiori rispetto ai lavoratori della classe media, come insegnanti, infermieri e vigili del fuoco.
I miliardari versano aliquote fiscali così basse per due motivi principali. La maggior parte del loro reddito deriva dall’aumento del valore dei loro investimenti come azioni, attività commerciali o immobili, piuttosto che da una busta paga. Inoltre, non devono pagare le tasse su quella maggiore ricchezza se non vendono asset. E non hanno bisogno di venderli perché possono usarli come garanzia per prendere in prestito denaro dalle banche a tassi bassi e vivere esentasse.
Se invece vendono i loro beni, pagano un’aliquota massima dell'imposta sulle plusvalenze del 20% (più l’imposta sul reddito da capitale netto del 3,8%), molto al di sotto dell’attuale tasso massimo del 37% che pagherebbero con uno stipendio da lavoratore dipendente. Questo è il motivo per cui molti ultraricchi pagano un’aliquota fiscale inferiore rispetto alle persone della classe media.
Il dibattito in Europa.
Il problema del doppio regime fiscale non è solo americano. Solo qualche giorno fa l’economista francese Thomas Piketty, autore di due libri diventati pietre miliari per interpretare l’evoluzione della società (“Il capitale nel XXI secolo” e “Capitale e ideologia”), ha scritto su Le Monde un lungo articolo per chiedere l’istituzione di un catasto dei patrimoni finanziari.
Il problema di fondo – sostiene l’economista francese – è che, all’inizio del XXI secolo, si continua a registrare e tassare i patrimoni sulla sola base dei beni immobili, utilizzando i catasti realizzati all'inizio del XIX secolo. Il possesso di un patrimonio – è il ragionamento di Piketty – è un indicatore della capacità contributiva delle persone, il che spiega perché la tassazione dei patrimoni ha sempre avuto un ruolo centrale nei moderni sistemi fiscali, oltre alla tassazione che grava sul flusso del reddito.
«Istituendo un catasto centralizzato per tutti i beni immobili, sia abitativi che professionali (terreni agricoli, negozi, fabbriche), la Rivoluzione francese istituì nello stesso tempo un sistema fiscale basato sulle transazioni (diritti di trasferimento ancora in vigore oggi) e soprattutto sulla proprietà (con imposta fondiaria) – sottolinea Piketty -. In Francia come negli Stati Uniti e in quasi tutti i paesi ricchi, l'imposta sulla proprietà continua a rappresentare la principale imposta sul patrimonio».
Un sistema ormai vecchio.
Il problema è che questo sistema di registrazione e tassazione dei beni è rimasto pressoché invariato da due secoli, anche se le attività finanziarie hanno assunto un’importanza preponderante.
«Il risultato è un sistema estremamente ingiusto e diseguale - sostiene Piketty -. Se possiedi una casa o un immobile professionale del valore di 300.000 euro e sei indebitato fino a 290.000 euro, pagherai la stessa tassa di proprietà di una persona che ha ereditato la stessa proprietà e possiede inoltre un portafoglio finanziario di 3 milioni di euro. Nessun principio, nessun ragionamento economico può giustificare un sistema fiscale così violentemente regressivo».
In molti affermano che sarebbe impossibile registrare i patrimoni finanziari. Secondo Piketty, però, non si tratta di un’impossibilità tecnica ma di una scelta politica: «Abbiamo scelto di privatizzare la registrazione dei titoli finanziari (presso depositari centrali di diritto privato, come Clearstream o Eurostream) e poi di istituire la libera circolazione dei capitali garantita dagli Stati, senza alcun coordinamento fiscale preventivo».
Il catasto finanziario.
Cosa fare allora? La priorità dovrebbe essere l'istituzione di un registro pubblico dei patrimoni finanziari e la tassazione minima di tutti i beni, anche solo per produrre informazioni oggettive su di essi. Ogni Paese può muoversi immediatamente in questa direzione, richiedendo a tutte le società che detengono o gestiscono dei beni nel suo territorio di rivelare l'identità dei loro titolari e tassandoli di conseguenza, in modo trasparente e alla stregua dei normali contribuenti, né più né meno. Rinunciando a qualsiasi ambizione in termini di sovranità fiscale e giustizia sociale, conclude Piketty, si incoraggia solo il separatismo dei più ricchi e il ripiegamento su se stessi.
Da una parte all'altra dell’Atlantico il tema della tassazione dei miliardari comincia a dettare l'agenda politica. È una delle conseguenze del nuovo mondo scaturito dalla pandemia.
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