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domenica 31 ottobre 2021

Tassa sui miliardari: da Musk a Bezos, i 10 Paperoni che pagheranno di più. - Angelo Mincuzzi

Illustrazione di Giorgio De Marinis/Il Sole 24 Ore

 

Se passasse la proposta del senatore Wyden, il proprietario di Tesla verserebbe 50 miliardi, il fondatore di Amazon 44 e Zuckerberg 29 miliardi.

Il conto più salato lo pagherebbe Elon Musk, il proprietario di Tesla. L’uomo più ricco del mondo, con un patrimonio stimato in 274 miliardi di dollari, dovrebbe versare al Fisco statunitense 50 miliardi tondi tondi. Il salasso colpirebbe anche Jeff Bezos, suo acerrimo rivale nella corsa per la conquista commerciale dello spazio. Il fondatore di Amazon, al secondo posto tra i miliardari più facoltosi della terra con un patrimonio di 196 miliardi di dollari, dovrebbe pagare 44 miliardi. Per Mark Zuckerberg, in questi giorni nell’occhio del ciclone per le rivelazioni della whistleblower ed ex manager di Facebook, Frances Haugen, il conto sarebbe invece di “soli” 29 miliardi. Così come per Larry Page, uno dei fondatori di Google: anche lui verserebbe 29 miliardi nelle casse del governo americano.

I “magnifici quattro.”

Secondo il Bloomberg Billionaires Index, i “magnifici quattro” posseggono complessivamente 735 miliardi di dollari e ne dovrebbero versare 152 al Fisco Usa se dovesse passare la legge proposta dal democratico Ron Wyden, presidente della commissione Finanze del Senato. Conosciuta come la “tassa sui miliardari”, la proposta ha l’appoggio del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, che da giorni ormai invade i social network con tweet in cui spiega perché è necessario far pagare le giuste imposte anche agli uomini più ricchi del Paese.

Nell’impostazione attuale la nuova tassa punta a incassare 500 miliardi di dollari in cinque anni, prima di andare a regime. Complessivamente, i 10 americani più ricchi possiedono un patrimonio di circa 1.300 miliardi di dollari e il piano Wyden richiederebbe loro di pagare in totale di 276 miliardi di tasse.

Il peso maggiore ricadrebbe, nell’ordine, su Musk, Bezos, Zuckerberg e Page – come abbiamo visto – seguiti da Sergey Brin (anch’egli fondatore di Google), Larry Ellison (Oracle), Warren Buffett (Berkshire Hathaway), Bill Gates (Microsoft), Steve Ballmer (Microsoft) e Jim Walton (Wal-Mart). I rimanenti 224 miliardi verrebbero pagati da altri 700 miliardari.

Questi calcoli si basano sulla ricchezza rilevata domenica 24 ottobre dal Bloomberg Billionaires Index ma le stime delle entrate si evolveranno insieme al patrimonio dei miliardari. Solo lunedì 25 ottobre, infatti, la ricchezza totale detenuta da Musk è salita di ben 36 miliardi di dollari a causa di un nuovo ordine di Tesla dalla società di noleggio Hertz.

L’insofferenza di Elon Musk.

Come maggiore contribuente della nuova imposta, Musk non l’ha presa affatto bene e alle 2,22 di notte del 26 ottobre ha lanciato un tweet in cui ventila la possibilità che dopo aver tassato i miliardari il governo potrebbe tassare anche gli altri contribuenti: «Alla fine, finiscono i soldi degli altri e poi vengono a prendere i tuoi», ha scritto.

In base alla proposta di Wyden (che non è per nulla sicuro che passerà così come è stata formulata, anche perché ci sarebbero dei profili di costituzionalità), i miliardari inizieranno a pagare le tasse sulla loro maggiore ricchezza ogni anno, proprio come i lavoratori pagano le tasse sui loro stipendi. L’imposta si applicherà solo ai contribuenti la cui ricchezza supera il miliardo di dollari: circa 700 famiglie su 130 milioni di famiglie degli Stati Uniti, ovvero lo 0,00005% del totale. Oppure riguarderà chi ha guadagnato oltre 100 milioni di dollari per tre anni consecutivi.

L’imposta sarà valutata annualmente sui beni negoziabili, come azioni, fondi comuni di investimento e derivati, il cui valore è noto all’inizio e alla fine dell’anno e il proprietario ottiene un rendiconto finanziario al termine dei 12 mesi. Per le attività non negoziabili, come un’impresa non quotata o immobili, le imposte saranno differite fino alla vendita dell’attività.

Gli interessi saranno addebitati per quegli anni in cui le tasse sono state eluse e il bene è aumentato di valore. Se l’asset perderà invece valore, allora saranno riconosciuti dei crediti d’imposta.

L’aliquota fiscale non è stata ancora determinata, ma è probabile che sia almeno l’aliquota massima sulle plusvalenze, che attualmente è del 20% più un’imposta sul reddito da capitale del 3,8%. In totale, dunque, il 23,8%.

Le aliquote basse dei miliardari.

I miliardari pagano aliquote fiscali effettive molto basse anche perché il valore delle loro azioni societarie non è soggetto alle imposte sulle plusvalenze fino a quando non vengono vendute. Il piano di Wyden equivarrebbe a un importante cambiamento nel Codice fiscale degli Stati Uniti istituendo la tassa del 23,8% sull’aumento del valore delle azioni - cioé la “plusvalenza non realizzata” - anche prima che le attività vengano vendute.

Di conseguenza, il piano ricadrebbe principalmente sui miliardari che hanno mantenuto le loro azioni quotate in Borsa, un criterio facilmente misurabile e pubblicamente identificabile. Le loro partecipazioni aziendali private, come SpaceX di Musk o Blue Origin di Bezos, probabilmente non rientrerebbero nella tassa.

«Ci sono due Codici fiscali in America – ha sottolineato il senatore Wyden spiegando come funzionerà la sua proposta -. Il primo è obbligatorio per i lavoratori che pagano le tasse prelevate da ogni busta paga. Il secondo è volontario per i miliardari che rimandano il pagamento delle tasse per anni, se non a tempo indeterminato. Due Codici fiscali consentono ai miliardari di utilizzare il reddito in gran parte non tassato della loro ricchezza per costruire più ricchezza, mentre le famiglie che lavorano lottano per bilanciare il mutuo con le spese e le bollette. Ecco perché è il momento di un’imposta sul reddito dei miliardari».

Il boom durante la pandemia.

Gli oltre 700 miliardari americani hanno visto la loro ricchezza aumentare di 1,8 trilioni di dollari (+62%), durante i primi 17 mesi di pandemia. Sulla base dei dati del Fisco statunitense, il giornale investigativo no-profit ProPublica ha scoperto che Jeff Bezos ha pagato zero tasse federali sul reddito nel 2007 e nel 2011, Elon Musk ne ha pagate zero nel 2018 e Michael Bloomberg ha pagato zero più volte negli ultimi anni.

ProPublica ha anche scoperto che i 25 miliardari più ricchi hanno pagato un’aliquota fiscale effettiva di appena il 3,4% su un incremento di 400 miliardi di dollari della loro ricchezza tra il 2014 e il 2018.

Gli economisti della Casa Bianca, dal canto loro, hanno rilevato che in media le 400 famiglie più ricche degli Stati Uniti hanno pagato un’aliquota effettiva dell’imposta federale sul reddito di poco superiore all’8% negli ultimi anni, se si calcola l’aumento del valore delle loro azioni. Insomma - afferma la Casa Bianca - i miliardari possono pagare aliquote fiscali inferiori rispetto ai lavoratori della classe media, come insegnanti, infermieri e vigili del fuoco.

I miliardari versano aliquote fiscali così basse per due motivi principali. La maggior parte del loro reddito deriva dall’aumento del valore dei loro investimenti come azioni, attività commerciali o immobili, piuttosto che da una busta paga. Inoltre, non devono pagare le tasse su quella maggiore ricchezza se non vendono asset. E non hanno bisogno di venderli perché possono usarli come garanzia per prendere in prestito denaro dalle banche a tassi bassi e vivere esentasse.

Se invece vendono i loro beni, pagano un’aliquota massima dell'imposta sulle plusvalenze del 20% (più l’imposta sul reddito da capitale netto del 3,8%), molto al di sotto dell’attuale tasso massimo del 37% che pagherebbero con uno stipendio da lavoratore dipendente. Questo è il motivo per cui molti ultraricchi pagano un’aliquota fiscale inferiore rispetto alle persone della classe media.

Il dibattito in Europa.

Il problema del doppio regime fiscale non è solo americano. Solo qualche giorno fa l’economista francese Thomas Piketty, autore di due libri diventati pietre miliari per interpretare l’evoluzione della società (“Il capitale nel XXI secolo” e “Capitale e ideologia”), ha scritto su Le Monde un lungo articolo per chiedere l’istituzione di un catasto dei patrimoni finanziari.

Il problema di fondo – sostiene l’economista francese – è che, all’inizio del XXI secolo, si continua a registrare e tassare i patrimoni sulla sola base dei beni immobili, utilizzando i catasti realizzati all'inizio del XIX secolo. Il possesso di un patrimonio – è il ragionamento di Piketty – è un indicatore della capacità contributiva delle persone, il che spiega perché la tassazione dei patrimoni ha sempre avuto un ruolo centrale nei moderni sistemi fiscali, oltre alla tassazione che grava sul flusso del reddito.

«Istituendo un catasto centralizzato per tutti i beni immobili, sia abitativi che professionali (terreni agricoli, negozi, fabbriche), la Rivoluzione francese istituì nello stesso tempo un sistema fiscale basato sulle transazioni (diritti di trasferimento ancora in vigore oggi) e soprattutto sulla proprietà (con imposta fondiaria) – sottolinea Piketty -. In Francia come negli Stati Uniti e in quasi tutti i paesi ricchi, l'imposta sulla proprietà continua a rappresentare la principale imposta sul patrimonio».

Un sistema ormai vecchio.

Il problema è che questo sistema di registrazione e tassazione dei beni è rimasto pressoché invariato da due secoli, anche se le attività finanziarie hanno assunto un’importanza preponderante.
«Il risultato è un sistema estremamente ingiusto e diseguale - sostiene Piketty -. Se possiedi una casa o un immobile professionale del valore di 300.000 euro e sei indebitato fino a 290.000 euro, pagherai la stessa tassa di proprietà di una persona che ha ereditato la stessa proprietà e possiede inoltre un portafoglio finanziario di 3 milioni di euro. Nessun principio, nessun ragionamento economico può giustificare un sistema fiscale così violentemente regressivo».

In molti affermano che sarebbe impossibile registrare i patrimoni finanziari. Secondo Piketty, però, non si tratta di un’impossibilità tecnica ma di una scelta politica: «Abbiamo scelto di privatizzare la registrazione dei titoli finanziari (presso depositari centrali di diritto privato, come Clearstream o Eurostream) e poi di istituire la libera circolazione dei capitali garantita dagli Stati, senza alcun coordinamento fiscale preventivo».

Il catasto finanziario.

Cosa fare allora? La priorità dovrebbe essere l'istituzione di un registro pubblico dei patrimoni finanziari e la tassazione minima di tutti i beni, anche solo per produrre informazioni oggettive su di essi. Ogni Paese può muoversi immediatamente in questa direzione, richiedendo a tutte le società che detengono o gestiscono dei beni nel suo territorio di rivelare l'identità dei loro titolari e tassandoli di conseguenza, in modo trasparente e alla stregua dei normali contribuenti, né più né meno. Rinunciando a qualsiasi ambizione in termini di sovranità fiscale e giustizia sociale, conclude Piketty, si incoraggia solo il separatismo dei più ricchi e il ripiegamento su se stessi.

Da una parte all'altra dell’Atlantico il tema della tassazione dei miliardari comincia a dettare l'agenda politica. È una delle conseguenze del nuovo mondo scaturito dalla pandemia.

https://24plus.ilsole24ore.com/art/tassa-miliardari-musk-bezos-10-paperoni-che-pagheranno-piu-AErOhAt?s=hpf

mercoledì 9 giugno 2021

Lo scandalo dei miliardari Usa esentasse. - Mauro Suttore

 

DREW ANGERER VIA GETTY IMAGES

WASHINGTON, DC - MAY 17: A mobile billboard calling for higher taxes on the ultra-wealthy depicts an image of billionaire businessman Elon Musk, near the U.S. Capitol on May 17, 2021 in Washington, DC. Organized by the group "Patriotic Millionaires," the mobile billboards are rolling through Washington, DC and New York City on Monday to mark Tax Day, calling for higher taxes for wealthy Americans. (Photo by Drew Angerer/Getty Images)

Non c’è bisogno di essere di sinistra per scandalizzarsi di fronte al clamoroso scoop del sito statunitense ProPublica.


Non c’è bisogno di essere di sinistra per scandalizzarsi di fronte al clamoroso scoop del sito statunitense ProPublica.

I 25 uomini più ricchi d’America (e del mondo) pagano poche o nessuna tassa sul reddito: Jeff Bezos (Amazon), Mark Zuckerberg (Facebook, Instagram, Whatsapp), Elon Musk (Tesla), Bill Gates (Microsoft), Michael Bloomberg, Rupert Murdoch, George Soros, Warren Buffett e gli altri hanno versato 13 miliardi di irpef federale nel 2014-2018 su un reddito complessivo di 400 miliardi. La loro aliquota, quindi, è poco più del 3%. 

Ma grazie a una sapiente e legale elusione fiscale, alcuni ricchissimi sono addirittura scesi a zero. Come Musk, la seconda persona più ricca del mondo, che nel 2018 non ha pagato neanche un cent. Buffett ha versato lo 0,1% sui 24 miliardi di crescita della propria ricchezza dei cinque anni esaminati: 23 milioni. L’aliquota di Bezos è stata dell′1%, quella di Bloomberg dell′1,3%, per tre anni Soros è riuscito a stare a zero.

Com’è possibile? L’aliquota massima dell’imposta sui redditi negli Usa è del 37%. La famiglia media americana paga il 14% di tasse federali su un reddito di 70mila dollari. Ma i miliardari dichiarano una minima frazione di reddito annuo rispetto al patrimonio (soprattutto azioni) che non può essere tassato finché non è liquidato. E, soprattutto, beneficiano di miliardi in deduzioni: scaricano praticamente tutte le spese, dagli aerei privati ai palazzi e ville, fino alle fondazioni di beneficienza e ai finanziamenti per i musei. Nel 2011, per esempio, la ricchezza di Bezos aumentò di 18 miliardi, ma lui dichiarò un bilancio in rosso, denunciando perdite sugli investimenti. Così riuscì a ottenere perfino 4mila dollari in assegni familiari per i figli.

È evidente che il sistema non può continuare così. Il presidente Biden annuncia una riforma delle leggi fiscali. Ma il sito ProPublica è pessimista: “Non serve aumentare le aliquote massime, se non si disbosca la giungla delle detrazioni e dei trust ai Caraibi”.

Da tempo si sapeva delle astronomiche diseguaglianze che piagano gli Stati Uniti degli ultimi decenni. In confronto ai miliardari di oggi, i Rockefeller, Carnegie e Vanderbilt un secolo fa erano dei poveracci. Nel 2011 Buffett chiese a Obama di pagare più tasse: “Ho guadagnato tre miliardi, mi avete chiesto solo sette milioni”.

Ma solo ora, con i documenti dell’Irs (Internal Revenue Service, la nostra Agenzia delle entrate) pubblicati da ProPublica in barba alla privacy dei ricchissimi, ci sono cifre sconvolgenti a sostanziare denunce generiche.

Particolarmente fastidiosa risulta la pretesa dei Paperoni di spacciarsi pure per filantropi. Il velo sollevato sulla fondazione Gates dal divorzio fra Bill e Melinda comincia a rivelare aspetti deplorevoli.

A New York e nelle altre metropoli americane si è sviluppata una vera e propria industria dei “charity gala”, le feste di fundraising per le buone cause più disparate con cui i ricchi si lavano la coscienza. E con cui aumentano le deduzioni fiscali per guadagnare ancora di più.

Secondo Forbes nei sedici mesi dell’epidemia Covid, mentre centinaia di migliaia di americani morivano e milioni perdevano il lavoro, i miliardari Usa hanno accumulato altri 1.200 miliardi di guadagni. Inconcepibile, per un impero nato 245 anni fa e cresciuto grazie a due parole: libertà, ma anche eguaglianza.

HUFFPOST

giovedì 13 maggio 2021

Covid, miliardari sempre più ricchi con la pandemia. Ecco come fanno i soldi. - Milena Gabanelli e Fabrizio Massaro

 

Se c’è una cosa che il Covid-19 non ha fermato, è la crescita della ricchezza dei miliardari. Solo negli Stati Uniti, dal 18 marzo al 15 settembre la ricchezza di 643 persone è cresciuta complessivamente di 845 miliardi di dollari. Contemporaneamente 50 milioni di lavoratori perdevano il lavoro (14 milioni sono ancora disoccupati) e ottenevano sussidi dal governo.


È una crescita di ricchezza che non si ferma. Il patrimonio personale di Jeff Bezos venerdì 16 ottobre è arrivato a 192 miliardi di dollari, (+69,9% da marzo), Elon Musk a 91,9 miliardi (+273,8%), Mark Zuckerberg a 97,9 miliardi, (+78,6%), solo per citare i più famosi. Oltre ai boom di Amazon, Tesla, Facebook, Microsoft, il lockdown è stata una benedizione anche per il fondatore e ceo di Zoom, Eric Yuan, passato da 5,5 a 24,7 miliardi di dollari (+349%) grazie alle videoconferenze cui siamo stati obbligati a ricorrere. Ed è entrato in classifica il creatore del videogioco Fortnite, Tim Sweeny, che oggi possiede 5,3 miliardi di dollari.


Anche la peste suina crea ricchezza.

Dopo gli Stati Uniti, al secondo posto c’è la Cina con 456 miliardari in elenco. A aprile il maggior incremento di ricchezza se l’era aggiudicato Qin Yinglin, l’allevatore di maiali più grande del mondo: è passato dai 4,3 miliardi di dollari del 2019 ai 23,4 miliardi attuali perché un’altra epidemia – la peste suina – ha fatto schizzare alle stelle il prezzo della carne. Il Covid ha modificato anche in Cina la classifica. In testa non c’è più Jack Ma: il creatore del colosso dell’e-commerce Alibaba, oggi a quota 53 miliardi, è sceso al terzo posto. E’ stato superato da Ma Huateng, presidente e ceo di Tencent, super holding che controlla fra l’altro WeChat: a marzo possedeva 38 miliardi, oggi ha superato i 61,6 miliardi. Al secondo posto è schizzato da poche settimane Zheng Shanshan: da 1,9 a 55,9 miliardi di dollari in sei mesi grazie alla quotazione in Borsa di due suoi gruppi, le acque minerali Nongfu Spring e la Wantai Biological Pharmacy.


I miliardari italiani.

In Italia Forbes ne segnala 40 (erano 36 ad aprile). Al primo posto Giovanni Ferrero con 26,5 miliardi di dollari, seguito da Leonardo Del Vecchio con 20,8, la famiglia Aleotti (Menarini Industrie Farmaceutiche) con 10,2 miliardi (1 miliardo di evasione scudati), Giorgio Armani passato dai 5,4 di inizio aprile agli 8,5 di oggi, Stefano Pessina con 8 miliardi e Silvio Berlusconi con 6,4 miliardi. Ma c’è anche il meno noto Gustavo Denegri (5,9 miliardi), presidente e primo azionista del gruppo di biotech Diasorin.


Da dove arriva questa ricchezza?

Tanti soldi si concentrano sempre di più in poche mani, ma la gran parte non per meriti propri. Da un terzo al 60% dei super-ricchi (a seconda di come viene classificata l’origine delle fortune) ha ereditato i miliardi che possiede, a cominciare dalla new entry Mackenzie Scott con 62 miliardi di dollari (erano 36 ad aprile): la sua fortuna è quella di essere stata la moglie di Bezos. Otto delle prime dieci donne più ricche al mondo sono in classifica grazie al padre o al marito miliardario. Le restanti due sono self-made women cinesi.

Idrocarburi, olio di palma, casinò.

Un altro terzo almeno è composto da protagonisti del capitalismo di relazione, ovvero fanno affari grazie all’appoggio dei governi con leggi a favore, occhi chiusi della autorità antitrust, lobbying sui parlamenti, brevetti ed esclusive estremamente estese che creano monopoli di fatto o di diritto. Per esempio il messicano Carlos Slim (53,1 miliardi di dollari) è l’uomo dei telefoni in Messico. In Russia i primi dieci miliardari si occupano tutti di materie prime e idrocarburi: Vladimir Potanin (22,9 miliardi) possiede la maggioranza di Nornickel (palladio e nichel); Vladimin Lisin (22,6 miliardi) è il re dell’acciaio. Leonid Mikhelson (20,7 miliardi), produttore di gas naturale, Roman Abramovich (12,6 miliardi) grazie soprattutto a carbone, nichel e palladio. Il filippino Enrique Razon Jr. (4,8 miliardi) è la terza generazione della dinastia che controlla i porti nel Paese asiatico. Il malese Robert Kuok, 11,1 miliardi di dollari, ha fatto fortuna con l’olio di palma. Le coltivazioni comportano l’abbattimento di intere foreste pluviali contribuendo pesantemente ai mutamenti climatici; l’olio utilizzato come combustibile fossile è inquinante, mentre il palmisto, impiegato nell’industria alimentare, è fra i più pericolosi grassi saturi. Ben 21 miliardari che valgono complessivamente 100 miliardi di dollari sono nel business dei casinò.


L’ingegneria fiscale.

Quando hai tanti soldi, puoi anche permetterti i migliori esperti fiscali per creare trust, scatole cinesi, veicoli offshore e spostando la residenza fiscale dove è più conveniente. Lo fa la maggior parte delle multinazionali. Solo per fare un esempio, in Italia, la famiglia Rocca controlla Tenaris attraverso un sistema di scatole che hanno al vertice una fondazione olandese. Secondo una recente analisi di Mediobanca i giganti del web hanno versato 46 miliardi di dollari di tasse in meno, solo negli ultimi 5 anni. Microsoft ha così risparmiato 14,2 miliardi; Alphabet (Google) 11,6; Facebook 7,5. Tra i giganti del web, Microsoft è quella che ha pagato meno in tasse: appena il 10% degli utili nel 2019. Inoltre circa l’80% della loro liquidità - 638 miliardi a fine 2019, secondo Moody’s - è tenuta in paradisi fiscali per sottrarla al Fisco dei paesi di provenienza.


Contratti infami ai dipendenti di ultimo livello.

I soldi si fanno risparmiando poi sul lavoro. La gran parte delle multinazionali applica contratti indegni ai dipendenti che stanno in fondo alla filiera, o ricorre subfornitori che a loro volta usano lavoratori sottopagati. Noti marchi del lusso italiani hanno obbligato sotto Covid i loro artigiani ad applicare uno sconto del 2% sugli ordini già concordati. Bezos, che è l’uomo più ricco del pianeta e ceo di Amazon, paga in Italia un co.co.co sì e no 700 euro al mese. Non ha sborsato un euro per i mille tamponi fatti dalla Regione Emilia Romagna ai dipendenti del centro logistico Amazon di Castelsangiovanni. Ferrari e Ducati li pagano invece di tasca loro.

In 2153 hanno più soldi di 4,6 miliardi di persone

Secondo la ong Oxfam i 2.153 miliardari del mondo detengono il 60% della ricchezza globale, ovvero hanno più soldi di quanti ne possiedono tutti insieme 4, 6 miliardi abitanti della Terra. Come contrastare questa ricchezza che si concentra sempre di più nelle mani di pochi, mentre il livello di disuguaglianza continua ad allargarsi? Le proposte di economisti e politici sono tante: da eliminare le protezioni legali agli oligopolisti per aumentare la concorrenza ad alzare le tasse di successione per i grandi patrimoni o di introdurle lì dove non ci sono. Ma si fermano sui tavoli dei convegni.


Le fondazioni filantropiche e Bill Gates.

Il dibattito sulle tasse è molto acceso in Usa dove, tra il 1980 e il 2018, le tasse pagate dai miliardari, in rapporto alla ricchezza, sono diminuite del 79%. Una proposta è quella di tassare le fondazioni nelle quali i mega-miliardari conferiscono le loro ricchezze con il solo obbligo di donare appena il 5% l’anno del loro patrimonio. Scegliendo come e dove intervenire le fondazioni filantropiche di fatto privatizzano le politiche di welfare. Il miliardo che arriva al bilancio dell’Oms dalla Gates Foundation e Gavi Alliance consente di fatto a Bill Gates, in qualità di maggior contribuente, di orientarne le decisioni di politica sanitaria globale. Si sta accreditando come il maggior benefattore dell’umanità e oggi chiede agli Stati di aumentare la tassazione ai più ricchi del pianeta. Gliene siamo grati. Non dice una parola però contro il turismo fiscale di colossi come Microsoft, grazie al quale ha fatto (e continua a macinare) miliardi.

Usa: le apparenze e i fatti.

La sinistra americana nelle elezioni in corso ci ha provato con Bernie Sanders a proporre un’imposta del 60% sui guadagni realizzati dai miliardari durante la pandemia per sostenere le spese sanitarie. Diversi miliardari sono pure d’accordo, a cominciare dal finanziere Warren Buffett, 80,2 miliardi di dollari, quarto uomo più ricco al mondo. Ma oggi il candidato democratico è un altro, Joe Biden. E dall’altra parte c’è Donald Trump, posto 1.092 nella classifica mondiale con 2,5 miliardi di dollari. Per 15 anni ha pagato zero dollari di tasse, grazie ad ottimi (dal suo punto di vista) consulenti fiscali. Da aprile a settembre, mentre in America il Covid fermava il Paese, la sua ricchezza è cresciuta del 20%.

Quanto togliere ai ricchi per creare posti di lavoro.

Secondo il calcolo di Oxfam un aumento dello 0,5% della tassazione a carico dell’1% più ricco del mondo, consentirebbe in dieci anni di pagare 117 milioni di posti di lavoro nella scuola e nell’assistenza e cura di anziani e malati. Maggior peso fiscale sui ricchi, inoltre, toglierebbe un po’ di peso dalle tasse sul lavoro.

dataroom@rcs.it

CorrieredellaSera

giovedì 21 maggio 2020

Quei Bravi Ragazzi (The Good Club). - Federico Nicola Pecchini



Di questi tempi si sente spesso parlare di teorie del complotto. Ma io voglio parlarvi di un complotto reale, effettivo, e non semplicemente di teorie. Per intenderci, un “complotto” non è altro che una congiura, una trama (di solito segreta) ordita da un certo gruppo di persone ai danni di qualcun’altro. La cosa sorprendente, però, è che in questo caso il complotto sarebbe a fin di bene, l’obiettivo finale nientepopodimeno che “salvare il mondo”. A chi mi riferisco?
Ma ovviamente al Good Club — il Club dei Buoni — un’iniziativa promossa dal co-fondatore di Microsoft Bill Gates già nel lontano 2009. Come riportato dal Times di Londra, l’esclusivissimo gruppo comprendeva la crème de la crème del capitalismo mondiale: David Rockefeller, il patriarca della famiglia più ricca d’America, i finanzieri Warren Buffet e George Soros, i magnati dei media Michael Bloomberg, Ted Turner e Oprah Winfrey. Ad accomunarli, oltre alla spropositata ricchezza, era la bontà. Tutti quanti infatti, dopo una vita dedicata al profitto, si erano miracolosamente convertiti alla filantropia.
Il buon Bill li chiamò a raccolta per discutere dei maggiori problemi che minacciavano il futuro dell’umanità, e delle possibili strategie per risolverli. Secondo l’informatore del Times, si trovarono tutti d’accordo nel considerare la sovrappopolazione come il problema più importante. Per chi ancora non lo sapesse infatti, il numero di esseri umani sul pianeta è cresciuto a dismisura nel secolo scorso, passando da poco più di 1 miliardo e mezzo nel 1900 a oltre 6 miliardi nel 2000. Oggi siamo a 7 miliardi e mezzo, e il numero continua ad aumentare. Perciò i nostri filantropi decisero all’unanimità di “affrontare la crescita demografica come una minaccia potenzialmente disastrosa a livello ambientale, sociale e industriale”, qualcosa di talmente tremendo che solo un loro tempestivo intervento avrebbe potuto evitare il peggio.
“La bomba demografica” — copertina di un pamphlet del 1954
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