GLASGOW - I 120 big litigano sulla data della “neutralità carbonica”. L’India: “Noi nel 2070”. Pechino attacca gli Stati Uniti.
Al termine della prima giornata della Cop26 di Glasgow, la conferenza sul clima delle Nazioni Unite durante la quale tradizionalmente i Paesi assumono impegni formali (e a volte vincolanti) sul fronte delle politiche climatiche e ambientali, forse le parole che inquadrano meglio la situazione di partenza sono del segretario generale dell’Onu, António Guterres: “C’è un deficit di credibilità – ha detto quasi ammonendo i partecipanti – e un eccesso di confusione sulla riduzione delle emissioni e sugli obiettivi di zero netto, con significati e metriche diverse”. Sono punti fermi da cui partire per interpretare quello che accadrà nei prossimi undici giorni, fino alla conclusione del 12 novembre, e anche per comprendere la situazione attuale.
Il G20 di Roma, che si è concluso domenica e che aveva sul clima un focus rilevante, ha infatti consegnato un comunicato su un traguardo molto debole perché già previsto nell’accordo di Parigi del 2015, ovvero il riconoscimento da parte di tutti del contenimento del riscaldamento globale a 1,5 gradi centigradi entro la fine del secolo invece degli iniziali 2 gradi con vocazione a fare “ogni sforzo possibile” per arrivare a 1,5. La “neutralità carbonica”, ossia il saldo zero tra le emissioni inquinanti emesse e quelle eliminate, si dovrà invece raggiungere “intorno alla metà del secolo”, senza una data precisa. E così, nel suo discorso di apertura, il premier britannico Boris Johnson si rifà alle parole dell’attivista Greta Thunberg e spiega che dal 2015 il mondo ha fatto troppo “bla bla bla” e che il flop di questo summit potrebbe scatenare la “furia del mondo”. Certo l’inizio non è dei migliori.
I leader radunati a Glasgow sono 120 e sono arrivati portandosi dietro di sicuro 52 jet solo nella giornata di domenica, almeno 400 jet totali secondo le stime della stampa anglosassone che potrebbero generare “13mila tonnellate di emissioni di CO2, l’equivalente di quella prodotta da 1.600 inglesi in un anno” dice il Daily Mail. Anche il rientro di Johnson a Londra è previsto in aereo e il premier si è dovuto giustificare con esigenze istituzionali e il fatto che il suo jet charter utilizza una speciale miscela di carburante per aviazione “sostenibile” ed è uno degli aerei più efficienti in termini di emissioni. Pesano, poi, le assenza rilevanti del presidente cinese Xi Jinping (che a Roma si è collegato in videoconferenza mentre in Scozia ha mandato un messaggio scritto), del presidente brasiliano Jair Bolsonaro e del presidente russo Vladimir Putin. E soprattutto, pesa l’assenza di qualsiasi buona notizia: se la Cina non sembra in alcun modo intenzionata a modificare il percorso stabilito (massime emissioni entro il 2030 e poi zero al 2060) e ha puntato il dito contro gli Stati Uniti accusandoli di avere “minato la fiducia globale in anni recenti nella lotta contro i cambiamenti climatici”, per la mancata ratifica del Protocollo di Kyoto, e il ritiro dagli accordi di Parigi del 2015 con Donald Trump, l’India è riuscita a sorprendere in negativo. Il primo ministro Narendra Modi, da cui ci si aspettava annunci ambiziosi, ha comunicato un obiettivo di “zero netto” entro il 2070, dieci anni dopo Cina e Russia, venti dopo gli Usa. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha invece sollecitato un’azione più severa sulle emissioni, ma non ha annunciato alcuna nuova mossa rispetto all’impegno d’inizio mandato (taglio del 52% delle emissioni entro il 2030).
Non resta che l’obiettivo minimo dei soldi, i famosi 100 miliardi all’anno che, sempre dal 2015, gli Stati si sono impegnati a destinare alla transizione energetica dei Paesi in via di sviluppo e oggi fermi a 82 miliardi. La proposta del premier Mario Draghi, ieri, è stata di colmare la differenza con i diritti speciali di prelievo del Fondo monetario internazionale (una forma di liquidità garantita dal fondo). Spendere anziché agire: magari su questo si arriverà a una quadra.
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