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mercoledì 2 dicembre 2020

Elogio della nostra finita esistenza. - Paolo Flores d’Arcais

 

Albert Camus vince il premio Nobel per la Letteratura nel 1957. Jacques Monod vince il premio Nobel per la Medicina nel 1965. Uno scrittore e uno scienziato, dunque. In realtà entrambi anche filosofi, nel senso più vero e profondo: contribuiscono alla filosofia del dopoguerra con testi di straordinaria originalità e di raro rigore, Il mito di Sisifo e L’uomo in rivolta Albert Camus, Il caso e la necessità e i due saggi conclusivi di Per un’etica della conoscenza Jacques Monod.

Filosofi che la filosofia accademica ovviamente non vorrà riconoscere come tali, tanto più che sviluppano entrambi, in perfetta autonomia, tutte le componenti essenziali di una filosofia del finito, rigorosamente antimetafisica, partendo da materiali di riflessione lontanissimi e complementari: l’assurdità dell’esistenza per Albert Camus, che solo la rivolta potrà riscattare mettendo in solidarietà (“mi rivolto, dunque siamo”) gli uomini che si battono per “diminuire aritmeticamente il dolore del mondo”; il radicale disincanto cui la scienza costringe secondo Jacques Monod, l’Homo sapiens, mandando in frantumi plurimillenarie concezioni religiose e filosofiche, “i concetti tradizionali che da tempo immemorabile hanno fornito il fondamento etico alle società umane”, frutto tutte, nella loro differenza e concorrenza, di “ontogenesi immaginarie, nessuna delle quali può resistere al confronto con l’indagine scientifica”.

Se la filosofia ufficiale avesse fatto tesoro dei loro lavori, avrebbe potuto imboccare la strada fecondissima di una filosofia del finito, anziché avvitarsi da mezzo secolo nei piaceri insensati di tutte le varianti metafisiche, e neo e post, e nelle fantasmagorie teologiche o para, e nelle presunzioni autoreferenziali delle ermeneutiche col loro nietzschiano “non esistono fatti, solo interpretazioni”, che ha infine celebrato i suoi trionfi con le “verità alternative” canonizzate da Donald Trump.

Filosofie accademiche in asperrima concorrenza, che hanno tutte in comune, però, la fuga consolatoria dalla finitezza dell’esistenza e il disprezzo per la scienza, banco di prova di ogni pretesa conoscenza e tribunale di ogni filosofia.

Ora, finalmente, una filosofia del finito, che mette in dialogo, e in reciproca ibridazione, e in fruttuosa sinergia il pensiero di Camus con quello di Monod, ha preso corpo. Grazie a Telmo Pievani e al suo Finitudine (Raffaello Cortina editore, 280 pagine, 16 euro). Pievani ha scritto il lavoro filosofico che Monod e Camus avrebbero potuto scrivere insieme, e lo ha fatto unendo alla maturità filosofica e alla competenza scientifica una rara capacità di espressione letteraria, talvolta di poesia, se il termine non fosse abusato. L’argomentazione razionale come unico strumento di indagine, proposto ai lettori con una “leggerezza” che sarebbe piaciuta a Italo Calvino.

Il sottotitolo del libro recita “Un romanzo filosofico su fragilità e libertà”. In effetti la cornice è pura finzione, Pievani immagina che Albert Camus non muoia sul colpo nell’incidente di macchina del 4 gennaio 1960. Resta gravemente ferito, e Jacques Monod lo va a trovare ripetutamente, leggendogli ogni volta le bozze di un capitolo del libro che, nella finzione di Pievani, stanno scrivendo insieme.

La cornice è in realtà la struttura del libro, consente a Pievani di esporre la propria filosofia come sintesi e sinergia di quelle di Monod e Camus, ma anche di far dialogare i due che si raccontano gli episodi salienti delle reciproche vite, e in questo modo rivisitare momenti cruciali del dopoguerra europeo, innanzitutto la Resistenza contro il nazifascismo, l’impegno a sinistra degli intellettuali, la rottura con il mondo comunista, la coerenza di un socialismo libertario minoritario ed eretico.

Camus (nomi di clandestinità Albert Mathé e Bauchard) nella Resistenza sarà l’animatore del giornale clandestino Combat, che giocherà un ruolo fondamentale nella vita civile e politica anche nei primi anni dopo la liberazione di Parigi. Monod fa parte dei gruppi armati Franc-tireurs Partisans fino a diventare, col nome di Commandant Malivert, il numero due delle Forces Françaises de l’Intérieur.

L’alternarsi della lettura delle bozze con il reciproco “raccontarsi” permette inoltre a Pievani di mettere in bocca ai suoi personaggi/autori pagine di affascinante divulgazione scientifica, e di criticare le derive filosofiche del loro tempo, che presentano in evidente filigrana un de te fabula narratur rispetto alle derive successive, diventate il mainstream della filosofia continentale fino ad oggi, ahimé.

Pievani riesce a mostrarci in modo persuasivo, anzi stringente, come tutte queste filosofie di evasione spiritualista o dialettica o ermeneutica dal finito, costituiscano in realtà forme di animismo, forme elaboratissime, sia chiaro, esattamente come le religioni, del resto. Ma di animismo. E qui si saldano in modo inaggirabile la riflessione filosofica e l’accertamento scientifico: è il processo di selezione darwiniano – che per via evolutiva ha dato vita alla peculiarissima scimmia che tutti noi siamo – che ha impregnato di animismo la nostra neocorteccia, perché vantaggioso nella iniziale competizione di Homo sapiens.

La storia della scienza è anche il percorso di emancipazione da tale animismo, che continua a permanere come tentazione e stigmate e imprinting in ciascuno di noi. Non siamo animali razionali. Lo siamo solo potenzialmente, e sempre in lotta con l’animismo prepotente ma resistibile di un viluppo di connessioni sinaptiche inestirpabile nel nostro cervello. Quando riusciamo a venirne a capo e a dominarlo, quando riusciamo a essere razionali, riconosciamo il carattere illusorio delle religioni e di ogni aldilà, il carattere irrimediabilmente finito, materiale, della nostra esistenza. Non è un caso, allora, che Pievani metta in esergo ad ogni capitolo della sua (e di Camus/Monod) filosofia alcuni versi dal De rerum natura di Lucrezio.

Scientismo, materialismo, ateismo, sono le accuse che a questa filosofia saranno ovviamente rivolte, e che Pievani è pronto ad assumere con orgoglio come coerenza del disincanto. Cui consegue l’inaggirabile libertà della nostra scelta etica, perché la natura è muta, non esiste nessuna “morale naturale”, siamo noi i padroni della norma.

Pievani è scrupolosamente fedele ai testi di Camus e Monod. Fino quasi al collage di brani originali o comunque ad ampie parafrasi. Esponendo la loro/sua filosofia del finito critica con sferzante lucidità i continui tentativi di aggirare il finito insensato che la scienza ci squaderna davanti, i trucchi di nuovo finalismo, gli escamotage di Intelligent design con cui il neo animismo teo-filosofico cerca di metabolizzare il carattere sovversivo del darwinismo.

Chiunque ami la filosofia e la scienza, questo libro dovrebbe correre a leggerlo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/12/01/elogio-della-nostra-finita-esistenza/6022237/

domenica 8 marzo 2020

L’umanesimo ai tempi del coronavirus. Rileggendo “La peste” di Camus. - Teresa Simeone



“I singolari avvenimenti che danno materia a questa cronaca si sono verificati nel 194… a Orano; per opinione generale, non vi erano al loro posto, uscendo un po’ dall’ordinario: a prima vista, infatti, Orano è una città delle solite, null’altro che una prefettura francese della costa algerina”.[1]
L’incipit di una delle più famose e inquietanti opere della letteratura mondiale di tutti i tempi ci immerge nell’ordinarietà di un luogo che è Orano ma potrebbe tranquillamente essere Codogno o Wuhan o Daegu.

Considerata una metafora di quella spaventosa epidemia che negli anni quaranta dilagò in Europa con il nome di nazionalsocialismo, oggi richiama invece un’interpretazione fedelmente letteraria di ciò che descrive, in modo per noi assolutamente imprevedibile, considerando che quando fu scritta, benché già ammonisse sul possibile rinascere del pericolo, non lo ritenesse reale nel suo aspetto biologico-sanitario.
E invece lo stiamo vivendo, in modo drammatico e paradossale, a più di settanta anni dall’uscita del libro.
Nel 2020 l’epidemia, che assume sempre più i contorni di un’emergenza pandemica, ritorna a ricordarci quanto siamo esposti a nuovi e invasivi patogeni e come la loro diffusione sia ancora in grado di modificare radicalmente rapporti, relazioni, vita sociale e culturale, economia e diritti: chi avrebbe mai immaginato che non una singola, limitata città, ma un’intera nazione e poi un continente e infine il mondo globale diventasse un enorme, impensabile lazzaretto? È anche in questa capacità lungimirante e visionaria che si leggono opere come La peste di Albert Camus.

“La mattina del 16 aprile il dottor Bernard Rieux, uscendo dal suo studio, inciampò in un sorcio morto, in mezzo al pianerottolo.”[2] Inizia tutto da questo neutro, insignificante ma insolito rinvenimento. I topi diventano due, tre, poi dieci. Si trovano, sporchi di sangue, a centinaia in tutti gli stabili e le vie di Orano. La gente incomincia a essere inquieta ma poi, finalmente, la moria di topi si arresta. “La città – scrive Camus – respirò.”[3] Per poco. Iniziarono a sentirsi male gli esseri umani: il primo fu Michel, portiere del condominio in cui era stato trovato il topo. I sintomi inizialmente non furono associati a una malattia in particolare. In seguito altre persone accusarono gli stessi malori e Rieux incominciò, da medico esperto, a chiedersi cosa avessero in comune e a cosa potessero ricondursi. Man mano che i numeri dei malati aumentavano e i sintomi si ripetevano – stato di astenia, gangli ingrossati e in suppurazione, febbre – lo scenario si faceva più minaccioso. “La somma era paurosa. In pochi giorni appena, i casi mortali si moltiplicarono, e fu palese a quelli che si preoccupavano dello strano morbo che si trattava di una vera epidemia.”[4]

Da questo momento in poi è un crescendo inarrestabile di paure e conferme, fino a pronunciare la terribile, definitiva parola che richiama sciagure del passato ritenute superate: peste. Un demone temuto e respinto nell’oscurità di un periodo, quello trecentesco, che si era replicato certo, qualche secolo dopo, ma che poi era stato arginato e ricacciato indietro dalla scienza. Un flagello di fronte al quale, comunque, si è sempre impreparati, come dinanzi a una guerra, e che induce un misto d’inquietudine e speranza: “Quando scoppia una guerra, la gente dice: ‘Non durerà, è cosa troppo stupida’. E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare”[5]Eppure, ci si autoconsola: con le dovute misure, si fermerà. E invece i morti continuano a salire. Le autorità vengono informate ma, per evitare il panico, non si parla di peste. Alla fine non si può non avvisare la popolazione ma che resti tranquilla, invitano: le precauzioni, se applicate correttamente e da tutti, arresteranno il morbo. Nella fase iniziale, oltre la derattizzazione e l’invito alla pulizia, si chiede agli infestati dalle pulci di presentarsi negli ospedali e alle famiglie di autodenunciarsi; poi, con l’aumentare dei casi, le misure si fanno più spietate. “La denuncia obbligatoria e l’isolamento furono mantenuti; le case dei malati dovevano essere chiuse e disinfettate, i congiunti sottoposti a una quarantena di sicurezza, i seppellimenti organizzati”[6]Il dispaccio del prefetto diventa definitivo: “Si dichiari lo stato di peste. La città è chiusa”[7].

E da questo momento Camus, con straordinaria percezione e un’esatta progressione dei fatti, ci accompagna nella psicologia dei protagonisti e degli altri attori che fanno da contesto umano a una situazione tragica in cui, accanto alla paura di esser contagiati, si staglia il terrore di essere ostracizzati dai sani come l’angoscia di essere separati dai propri affetti: madri e padri allontanati dai figli con la paura di non rivederli più, mogli e mariti divisi, fratelli e sorelle non più abitanti della stessa casa. La pietà, riflette Rieux, non è più possibile. Neanche per le grida disperate delle mamme nel vedere i bubboni all’inguine delle proprie figlie: “Ci si stanca della pietà, quando la pietà è inutile.”[8]

E in questo teatro di dolori e di orrori, risaltano le vite di coloro che vi sono rappresentati: figure che, di volta in volta, si mostrano e ci mostrano i mille volti che assumono la paura di non farcela, l’istinto di sopravvivenza, l’angoscia per il lutto degli affetti, la disperazione e la solitudine. E le reazioni diverse di fronte a quelle che, giustamente, Jaspers ha definito situazioni-limite, in cui ci si trova senza maschere e senza protezioni, davanti alla possibilità del “naufragio” e dello scacco. Situazioni estreme, per dirla alla Feyerabend, in cui, però, ciascuno scopre anche il proprio potenziale, nascosto nelle vicende della normalità di tutti i giorni.

Come potremmo reagire noi? ci chiediamo. Noi, in quanto collettività? E io, in quanto individuo?

Come il semplice Michel che muore innocente e inconsapevole, preoccupandosi solo del fatto che il rinvenimento del topo possa essere addebitabile alla sua negligenza?
Come il generoso Rieux, che si aggira tra morbi e pestilenze, dormendo tre ore a notte, senza chiedersi se sia opportuno esporsi in quel modo ma facendo ciò che è giusto in quel momento? Consapevole di poter morire, senza il sorriso della moglie, che si è dovuta allontanare da Orano prima dello scoppiare della calamità e che, infatti, non rivedrà più? Indulgente verso chi, come Rambert, cerca di fuggire da quell’inferno o con Cottard, che senza la peste sarebbe arrestato e che perciò si rifiuta di aiutare a debellarla?
Come i tanti oranesi che, certi che il morbo non li avrebbe toccati (e perché avrebbe dovuto? Perché proprio loro?), si disinteressano fino a quando non ne divengono vittime? Fino a che il cordone sanitario si stringe come i cancelli di una prigione, escludente ed emarginante? Fino a quando, sfiniti dall’isolamento e dall’angoscia, rompono gli obblighi di quarantena e fuggono dalla città? Fino a quando si rassegnano e accettano, infelici e spauriti, il proprio destino? Abituati al coprifuoco, al fetore della morte, ai seppellimenti fatti in fretta e furia, a non poter piangere più i propri cari, a intuire che finiranno nei forni crematori?
Come Castel, intento a cercare un siero che possa aiutare i malati? Non è facile, tutto induce allo scetticismo, ma bisogna lottare e non mettersi in ginocchio. Combattere la peste, a qualsiasi costo, con qualunque mezzo. Impedire che le persone muoiano: questo è ciò che dà senso alle giornate. E infine ci riesce, stanco e snervato, ma sereno.
O come Rambert, il giornalista capitato per lavoro a Orano e lì obbligato a rimanere per la pestilenza? Lotta in tutti i modi per impedire alla peste di soffocarne il desiderio di felicità, nello sforzo disperato di lasciare Orano e ricongiungersi alla sua compagna. Prova tutte le strade, legali e illegali, ma intanto offre il suo aiuto a Rieux, soccorre appestati, dall’alba alla notte. Finalmente riesce a organizzare la fuga: dovrà partire di lì a poche ore ma, quando arriva il momento, non è più così convinto. A Rieux che gli dice, generosamente, tra un’incisione di bubbone e un’altra, che non c’è niente di male a essere felice, Rambert risponde che è vero, ma che “ci può essere vergogna nell’esser felici da soli”.[9] E rimane a Orano.
Forse come Tarrou che, da forestiero, colto, ricco e viveur, continua a pernottare nell’albergo dove alloggia e a prendere appunti, a raccogliere testimonianze, a descrivere le occupazioni dei cittadini, a seguire l’evoluzione della peste e a registrare aneddoti su tutto ciò che vede, con lo stesso spirito curioso e ironico? La figura di Tarrou è una delle più belle del libro: pur potendo evitare coinvolgimenti, offre il proprio aiuto a Rieux e propone di organizzare un gruppo di volontari per assisterlo. Naturalmente ne farà parte anche lui. Al gruppo si aggiunge Grand, l’aspirante scrittore, “insignificante e sbiadito”, che Rieux considera, nella sua purezza di cuore, uno dei veri eroi di questa storia. Eroe per semplicità e autenticità di sentimenti, le uniche qualità che contino, nel delirio dell’irrazionalità e del terrore.

Intenso è il dialogo su Dio, sull’impegno del medico, sulle ragioni della disponibilità di Tarrou: Rieux gli chiede perché sia disposto a rischiare, proponendosi come volontario, e Tarrou gli risponde domandandogli, a sua volta, perché mostri tanta devozione se non crede. E il dottore confessa “che se avesse creduto in un Dio onnipotente avrebbe trascurato di guarire gli uomini, lasciandone la cura a lui”.[10] Ciò che conta è guarire le persone e forse è meglio non credere in Dio e lottare “con tutte le nostre forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace”.[11] Un Dio, altro tema che ritorna, che si rende responsabile della morte di bambini innocenti, come il figlio di Othon.

Come padre Peneloux, che all’inizio interpreta la peste come un flagello divino per ricondurre i peccatori a Dio e che è interessato a riportare la collettività distratta alla Chiesa? Ma che poi non esita a unirsi al gruppo di volontari e a lavorare instancabilmente tra letti e sudore infetto. A capovolgere posizione perché la religione in tempo di peste non può, non può più essere la stessa. E ne morirà.
Stanchezza, indifferenza, sfinimento, incuria per se stessi: si sta in bilico, in tempo di peste. Anche con la propria coscienza. Col sospetto che chiunque ti possa contagiare. Amici, vicini e parenti. Con la considerazione, amara, che il cuore di tutti si sia indurito, che nessuno più ascolti i gemiti dei malati e che anzi si cammini nei lamenti come se “fossero stati il naturale linguaggio degli uomini.[12]
Ma è una storia che riguarda tutti, come dice Rambert. Un concetto, quello della responsabilità collettiva, che ricorre spesso nella produzione del filosofo francese.

Alla fine, anche la peste degrada, si attenua, perde virulenza. La quarantena è annullata. E la vita riprende a scorrere tra gli oranesi. Il paese è in festa, tutti ballano ma le solitudini restano. Coppie estatiche attestano “col trionfo e con l’ingiustizia della felicità, che la peste era finita e che il terrore aveva fatto il suo tempo”.[13]

Tutti vogliono pensare che la peste può venire e se ne può andare senza che il cuore dell’uomo ne sia modificato: ma può essere così? Si può attraversare il male senza esserne toccato?


Anche l’epidemia di coronavirus passerà. Lascerà strascichi, com’è inevitabile. Lascerà vittime, com’è ingiusto che sia. Lascerà anche un senso profondo di amarezza su come si continui a reagire, con i medesimi meccanismi del passato, a eventi di cui già abbiamo vissuto gli esiti infausti. Dovrebbe lasciare anche qualche riflessione su ciò che significa “alterità” come dimensione costitutiva della nostra soggettività, su “ciò che è l’altro per noi” che, mai come adesso, è interrogarsi su “ciò che siamo noi per l’altro”. Dovrebbe aprire uno spiraglio non soltanto sulle responsabilità di chi è contagiato, come se fosse una colpa esserlo, ma sulla sua condizione psicologica e fisica; sul suo timore di poter infettare chi gli è vicino; sul suo vivere la malattia come un’onta quasi intenzionalmente cercata, magari solo per aver incidentalmente transitato in una zona poi rivelatasi pericolosa; sulla violazione della privacy, in nome della sicurezza nazionale, che lo marchia come “untore” e lo espone alla pubblica gogna. Ancora una volta Camus, con la sua sensibilità, ci aiuta a capire.

Rieux, il suo alter ego letterario, nel rivelare, alla fine del libro che è lui a scrivere, confessa di aver scelto di testimoniare. Lo ha fatto dalla parte delle vittime, vivendo la loro sofferenza, parlando per tutti. Dicendo, altresì, con gli esempi positivi che ha riportato, che negli uomini ci sono più cose da ammirare che da disprezzare. Un’altra prova della vicinanza alla terra di Camus. E del suo essere laico, illuminato, impenitente umanista.

“io mi sento - fa dire da Rieux a Torrou - più solidale coi vinti che coi santi. Non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e per la santità. Essere un uomo, questo m’interessa”[14].

NOTE

[1] Albert Camus, La Peste, Bompiani, 2011, pag. 5

[2] Albert Camus, op. cit. pag. 8

[3] Albert Camus, op. cit. pag. 15

[4] Albert Camus, op. cit. pag. 29

[5] Albert Camus, op. cit. pag. 30

[6] Albert Camus, op. cit. pag. 50

[7] Ibidem

[8] Albert Camus, op. cit. pag. 70

[9] Albert Camus, op. cit. pag.161

[10] Albert Camus, op. cit. pag. 97

[11] Albert Camus, op. cit. pag. 99

[12] Albert Camus, op. cit. pag. 86

[13] Albert Camus, op. cit. pag.227
[14] Albert Camus, op. cit. pag.197

http://temi.repubblica.it/micromega-online/l-umanesimo-ai-tempi-del-coronavirus-rileggendo-la-peste-di-camus/