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venerdì 28 agosto 2015

Jobs Act, i conti sono sbagliati: i nuovi contratti stabili sono “solo” 327mila (e non 630mila)

Jobs Act, i conti sono sbagliati: i nuovi contratti stabili sono “solo” 327mila (e non 630mila)

Il ministero del Lavoro martedì ha diffuso una tabella sul periodo gennaio-luglio contenente dati sballati. "Errore umano", secondo Giuliano Poletti. Il dicastero ha aggiustato il tiro dopo che Repubblica e Manifesto avevano evidenziato che i calcoli non tornavano. Le cessazioni di contratti sono state 4 milioni e non 2,6 milioni.

Il Jobs Act rischia di diventare un mosaico di problemi per il governo Renzi. I conti non tornano e il ministero del Lavoro ha dovuto correggere i dati sul numero dei contratti resi noti martedì, perché quelli su cessazioni, collaborazioni e apprendistato erano stati calcolati male. Nel frattempo è stato rinviato di nuovo, forse anche per questo, l’esame finale degli ultimi quattro decreti attuativi della delega sul lavoro in Consiglio dei ministri. Il Corriere della Sera parla di “gelo” tra Palazzo Chigi e il ministro Giuliano Poletti per il pasticcio. Quello che è certo che la vicenda è stata portata alla luce da Repubblica e dal Manifesto e i tecnici di via Veneto sono dovuti correre ai ripari.
“Purtroppo, un errore nei calcoli relativi alle diverse componenti ha prodotto valori non esatti”, è stata la giustificazione del ministero. Accompagnata da una nuova tabella con i dati “veri” sui primi sette mesi del 2015. Con la variazione si dimezza, da 630.585 a 327.758, il numero dei contratti aggiuntivi a tempo indeterminato rispetto allo stesso periodo del 2014. Un insieme che comprende 117mila nuove attivazioni a tempo indeterminato e 210mila stabilizzazioni, favorite dagli sgravi contributivi concessi da gennaio al datore di lavoro che trasforma un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato. “C’è stato un errore umano nello scrivere una tabella, i dati che abbiamo modificato sono allineati a quelli dei mesi precedenti, a quelli che erano stati già rappresentati nei mesi precedenti e confermati dall’Inps”, ha detto Poletti giovedì a margine del vertice sul caporalato al ministero delle Politiche agricole. Secondo la nuova tabella i contratti attivati sono stati nel complesso (tra tempo determinato, apprendistato, contratti di collaborazione e “altri”) 5.150.539 e non 4.954.024 come comunicato precedentemente. Il saldo è di 1.136.172 contratti attivati in più, perché le cessazioni sono state oltre 4 milioni e non 2,6 milioni come attestava la tabella sbagliata.
Il ministro ha auspicato poi che ci si concentri sul “dato sostanziale”, ovvero “che c’è una conferma dell’incremento importantissimo dei contratti stabili e un crollo delle collaborazioni“. In effetti tra gennaio e luglio del 2014, il saldo tra attivazioni e cessazioni era stato negativo per 137.587 unità, mentre considerando anche le 150.462 il risultato era positivo di 12.875 posti. Contro, appunto, i 327.758 di quest’anno. Nella tabella corretta, l’incremento delle attivazioni dei contratti a tempo indeterminato sullo stesso periodo del 2014 “è del 39,3%“: nei primi 7 mesi del 2014 furono attivati 771.486 contratti a tempo indeterminato mentre nello stesso periodo del 2015 hanno superato il milione. Insomma i dati, anche dopo la correzione, evidenziano l’effetto positivo degli sgravi per le assunzioni stabili. Resta il fatto che, se la qualità del lavoro migliora, l’occupazione non progredisce, come dimostrano i dati Istat. Per di più l’effetto, dopo il picco di aprile, sta scemando con il passare dei mesi. A luglio, al netto delle cessazioni, i nuovi contratti stabili sono stati 135.417 di cui solo 47 a tempo indeterminato.
“Quello che abbiamo sempre detto e che ribadiamo è che strutturalmente il costo del lavoro stabile deve essere più basso delle altre tipologie contrattuali”, ha detto Poletti, sottolineando che “il tema degli sgravi per le assunzioni è un tema posto” per la legge di Stabilità. Nel senso che il rinnovo della decontribuzione, auspicato da più parti, entrerà nella partita della manovra di fine anno. Commentando i dati il ministro ha poi evidenziato come “stanno aumentando in maniera importante i contratti a tempo indeterminato e crollano le collaborazioni”. Infatti, secondo i dati del ministero, nei primi sette mesi del 2015 le collaborazioni attivate sono calate del 22% passando da 363.932 del 2014 ai 281.547 del 2015.

lunedì 16 giugno 2014

Crisi, l’addio all’Italia degli over 50: “Nel 2013 quasi 100 mila espatriati” - Francesco Maria Borrelli

Crisi, l’addio all’Italia degli over 50: “Nel 2013 quasi 100 mila espatriati”

Licenziamenti, pagamenti che non arrivano, impossibilità di ricollocarsi. Secondo il ministero dell’Interno, dal 2009 a fine 2013, gli italiani tra i 50 e i 59 anni che hanno cercato fortuna all'estero sono stati 362mila, con incrementi sostanziosi negli ultimi anni. Spesso lasciano a casa la famiglia e all'estero si adattano al precariato.
“Da quando è iniziata la crisi economica la mia agenzia immobiliare aveva perdite fino al novanta per cento del fatturato. Dal 2009 in poi le banche hanno chiuso i rubinetti e ai miei clienti non sono più stati concessi prestiti. Così ho deciso di lasciare l’Italia anche perché, un domani, non vorrò vedere le mie figlie laureate e a spasso perché non ci sono prospettive”.  A parlare è Armando Sacco, un agente immobiliare operativo da 22 anni su Roma che da qualche mese è a Toronto, dove è stato costretto ad andare per continuare a lavorare. E’ soltanto uno dei tantissimi cinquantenni che hanno dovuto lasciare l’Italia per emigrare all’estero con la loro valigia di speranze, sempre più pesante.
Secondo il “Rapporto italiani nel mondo 2013” dell’Aire (Anagrafe italiani residenti all’estero), il 25 per cento di chi emigra ha tra 35 e 49 anni, ed il 19,1 per cento ha un’età compresa tra i 50 e i 64 anni. In totale, va ricordato, gli italiani nel mondo (Aire 2014) sono quattro milioni e ottocentoventottomila, e da quando è iniziata la crisi economica internazionale (2009) la cifra è aumentata di oltre seicentomila persone; dal dato del 2013 a quello del 2014 c’è stato un incremento di centosettantamila unità.
Secondo il ministero dell’Interno, che può contare sulle informazioni in arrivo direttamente dagli uffici anagrafe dei Comuni italiani, dal 2009 a fine 2013 gli italiani cinquantenni andati all’estero (esattamente, i compresi tra i 50 e i 59 anni) sono 362mila, e ogni anno c’è stato un incremento compreso tra sessantamila e settantottomila persone, fino ad arrivare al 2013 quando gli espatri sono stati 94mila.
“Come molte persone della mia età che conosco, a 54 anni ho dovuto lasciare l’Italia, dove da 28 anni facevo un lavoro autonomo, per andare a Perth – spiega Paolo Bellachioma, autotrasportatore emigrato in Australia -. Negli ultimi due o tre anni capitava sempre più spesso che a fine mese non si incassasse, anche da aziende importanti. Quindi mi ritrovavo a dover pagare 10-12 mila euro di carburante e a non riuscire neanche a rientrare delle spese. Restando in Italia avrei rischiato di mangiarmi il lavoro di una vita. È stato così che ho deciso di partire per un Paese del quale non conosco neanche la lingua”.
Il trend per gli over 50 è confermato anche dalla Farnesina, poiché in media negli ultimi cinque anni si è registrato un aumento di oltre 100mila italiani l’anno che emigrano. Ma il dato è sottovalutato e incompleto, come spiega il dottor Giovanni De Vita, funzionario del ministero degli Esteri. “Queste sono le persone che si iscrivono all’Aire, ma in realtà a lasciare il nostro Paese sono molte di più e una stima completa è difficile da fare, sia perché a volte c’è un ritardo nella trasmissione dei dati, sia perché alcuni si fermano in un Paese per un periodo limitato e quindi non si iscrivono all’Aire. Sarebbe come voler essere sicuri del numero dei clandestini presenti in Italia, non si sa”.
Il problema è che manca il lavoro non solo per giovani, ma anche per i padri e le madri di famiglia. Secondo Andrea Malpassi, coordinatore Area estero dell’Inca Cgil Nazionale, “chi emigra oggi non è soltanto il giovane ma sempre più una persona adulta, intorno ai 50 anni e spesso con famiglia e figli, che ha perso il posto di lavoro in Italia ed è costretta cercarlo fuori dai confini nazionali. Si tratta di uomini e donne che partono senza conoscere la lingua, le leggi, gli usi e costumi, ma sono alla ricerca, talvolta disperata, di un impiego. Spesso, però, anche all’estero, devono accettare contratti atipici che in pratica li rendono precari, mi riferisco all’escamotage della partita iva o del lavoro fintamente autonomo ed ai contratti a progetto che in realtà sostituiscono il lavoro vero. Insomma, il precariato si sta diffondendo a macchia d’olio inEuropa e nel resto del mondo”.
“Sono sempre stato costretto a emigrare in cerca di lavoro, fin da giovane quando ero andato in Germania per trovare un’occupazione. Poi, messo via un gruzzoletto, sono ritornato in Italia, dove ho moglie e due figli, e con quei soldi ero riuscito a comprare casa – racconta Antonio Morelli -. L’anno scorso a 58 anni ho perso il posto di lavoro, trovarlo alla mia età è impossibile. Così da un paio di settimane sono ritornato in Germania dove almeno ho un lavoro per la stagione estiva. Tornare in Italia? Solo se avessi un lavoro che mi permettesse di arrivare alla pensione“.
Quarantenni e cinquantenni sono i più colpiti dalla crisi. “La ripresa dell’emigrazione ai nostri giorni è causata di sicuro dalla crisi economica ma soprattutto dalla crisi del sistema Italia”, osserva il professor Alfonso Gambacurta, docente di Sociologia all’Università La Sapienza di Roma ed esperto di emigrazione italiana – Chi va all’estero è sia il giovane che rientra nella categoria della ‘emigrazione desiderata’ – cioè che vuole lasciare un Paese che lo ha deluso -, sia i quarantenni e cinquantenni, che partono per cercar lavoro e che sono i più colpiti dalla crisi. Questo è un tipo di emigrazione in particolar modo pesante. Perché partire a cinquant’anni comporta problemi e criticità molto più aspre rispetto a quelle che può incontrare un giovane”. Ritornando al dato complessivo dell’Aire, conclude Gambacurta, “se si considera anche l’emigrazione interna, credo che il valore vada raddoppiato”.